Gerarda Nesta ha da poco conseguito la laurea per educatori professionali extrascolastici. Ha discusso una tesi di laurea su "Caposele tra sisma e ricostruzione", affrontando attraverso le testimonianze orali un viaggio nei giudizi e nella memoria dei suoi compaesani.
Riportiamo con piacere una piccola sintesi dei suoi studi.
CAPOSELE TRA SISMA E RICOSTRUZIONE
Gerarda Nesta
Il lavoro di ricerca è stato svolto sulla ricostruzione di Caposele, comune irpino notevolmente danneggiato dal sisma del 1980. Per ripercorrere la storia di questo paese tra il sisma e la ricostruzione ci si è avvalsi del racconto orale volto a recuperare dati che altrimenti rimarrebbero privi di narrazione e una gamma di sentimenti che il testo scritto non è in grado di restituire.
La scelta dei soggetti e del contesto in cui effettuare le interviste (Caposele e i rappresentanti della comunità) rappresenta quindi il tentativo di raccontare la vicenda del terremoto attraverso strumenti inediti: il punto di vista, l’esperienza e le parole di chi la rinascita e la ricostruzione le conosce bene perché le affronta nella propria quotidianità.
Caposele prima del sisma, conservava le caratteristiche tipiche di paese medioevale mentre oggi è quasi del tutto trasformato, avendo assunto l’aspetto di paesino interno di collina con manifesti i segni del progresso e della civiltà come la frazione di Materdomini sede del Santuario di San Gerardo Maiella, che vanta una storia di quasi 600 anni e dove sono custodite le ossa del santo, protettore delle mamme e dei bambini.
Il Comune irpino che contava 4.077 abitanti nel 1980, è stato dichiarato “disastrato” dal D.L. del 13/2/81 n. 19 per i danni riportati a causa del sisma del novembre 1980. Il Ministero del Bilancio e della Programmazione Economica valutò infatti in quell’occasione, una percentuale di danni pari all’80%. In quei giorni tutti vollero portare aiuto, comprese la stampa e l’opinione pubblica, a quasi un anno dal terremoto però, molta della presenza nazionale (politica e non) aveva abbandonato il campo: il terremoto diventava una faccenda solo ed esclusivamente dei paesi colpiti e la seguente citazione di un cittadino di Caposele tratta da un giornale locale, indica chiaramente le preoccupazioni di quei giorni:
«Il gemellaggio con un comune come Milano, aveva riempito di gioia e di speranza il cuore dei Caposelesi, dando loro l’illusione che l’industria, la tecnica, l’organizzazione e la forza di una grande città, avrebbe dato sollievo, ordine e forza ad un piccolo paese come Caposele. A distanza di un anno invece, serpeggiava profonda amarezza e delusione in quanto il paese, semidistrutto dal terremoto, non aveva compiuto un solo passo avanti, regnava infatti il caos più profondo con sperpero di danaro pubblico, dilagava l’assistenzialismo e il clientelismo. Non uno studio sull’assetto del territorio, non un piano di ricostruzione, non un tentativo di riconnessione del tessuto sociale ed urbano, non un tentativo di recupero di edifici pubblici e religiosi, non un accertamento serio e responsabile del danno reale al patrimonio edilizio. Una sola consolazione, quella del prefabbricato.
In tale situazione gli interventi del comune di Milano apparirono alquanto discutibili per non dire anacronistici ed in netto contrasto con le distruzioni, le demolizioni, i lutti, la miseria ed il buonsenso. Esso offrì infatti una piscina olimpionica da un miliardo quando ancora non si riusciva a riattare le case riparabili per mancanza di fondi. Un intervento del comune sul vecchio centro storico, sugli edifici pubblici, su un vecchio quartiere, sarebbe stato più comprensibile e più rispondente alle reali esigenze dei caposelesi. La ricostruzione di un pezzo di città, sia esso un singolo edificio o un aggregato di essi, avrebbe rappresentato infatti la riconquista del “luogo” da parte dei cittadini, la riappropriazione di quegli spazi collettivi in cui essi si sono sempre identificati e verso i quali si sono sempre proiettati, adesso invece l’alternativa era la chiusura nella frustrazione dei ghetti prefabbricati o di insediamenti pseudo-turistici. Un intervento in tal senso poteva pilotare l’intera operazione di recupero e rappresentare un segno concreto di ricostruzione. I caposelesi allora avevano bisogno di una casa e non di piscine o villaggi per ipotetici turisti del futuro, “visitatori” delle loro macerie.»
Nel 1982, con l’ultimo caposelese che riceve il prefabbricato, la fase dell’emergenza vera si concluse. Seguì la così detta “partita della ricostruzione”, alquanto complicata dal momento che Caposele è un comune notevolmente colpito dal sisma, che non possedeva strumenti urbanistici, in zona franosa e con l’ acquedotto a ridosso.
A questo si aggiunse l’attrito tra maggioranza e opposizione e la forte sensazione di sconfitta della popolazione, dovuta al fatto che si stava ampliando al massimo la zona del cratere, più per decreto che per danno vero e che di ricostruzione vera e propria si vedeva ben poco.
In quel periodo l’amministrazione propose uno strumento urbanistico che prevedeva il recupero del centro urbano e la realizzazione di tre piani di zona con conseguente delocalizzazione delle abitazioni che per motivi urbanistici o di sicurezza non potevano essere ricostruite sul precedente sito. L’impostazione che si intendeva dare al progetto di ricostruzione prevedeva di seguire i punti cardine del vecchio impianto urbanistico tentando allo stesso tempo di rendere il paese più vivibile delocalizzando circa 700 persone nei piani di zona.
Furono individuati dei punti nevralgici che opportunamente modificati, avrebbero consentito un miglioramento dello stile di vita ad esempio ampliando la piazza antistante la Chiesa Madre oppure costruendo dei portici lungo il corso principale del paese. La minoranza che appoggiava un’idea della ricostruzione detta del “là dov’era e così com’era”, si oppose duramente a tale idee di rinnovamento accusando la maggioranza di voler svuotare il paese e vi fu uno scompiglio tale da generare un importante sgretolamento nell’amministrazione che condusse al commissariamento del comune. Venne quindi approvato e consegnato un nuovo piano di recupero, via intermedia tra le due precedenti e contrastanti proposte.
Nel 1984, vigilia delle elezioni comunali, furono approvati i decreti sui vincoli della Sovrintendenza, richiesti da cittadini che non accettavano il fatto che la propria abitazione, specie se con una certa importanza storica, dovesse essere demolita. Il piano di ricostruzione prevedeva infatti demolizioni funzionali a una nuova idea di paese mentre per l’opposizione ciò accadeva spesso senza tener conto di elementi storici ed architettonici di un certo valore; i cittadini dunque si rivolsero alla Sovrintendenza che riconobbe i vincoli classificandoli in diretti ed indiretti. I primi relativi ad abitazioni ancora in piedi, gli altri ad edifici crollati. Questo fece scatenare un ulteriore conflitto nel comune tanto che la campagna elettorale del 1985 ruotò integralmente su tale faccenda.
Nel 1985 a Caposele era da poco partita la ricostruzione rurale ed urbana mentre a Materdomini era iniziato solo qualche intervento di riparazione: ciò indispettì alquanto i cittadini, anche perché i comuni vicini avevano cominciato i lavori già da tempo mentre Caposele fu uno degli ultimi ad avviarsi alla ricostruzione. Nel 1986 in seguito all’approvazione del piano di zona, esplose la ricostruzione che interessò fin da subito e con particolare immediatezza la frazione Materdomini, questione che non comparve all’ordine del giorno di alcuna riunione in quanto l’amministrazione precedente si era guardata bene dal proporre comparti nuovi lì dove ogni metro è prezioso per l’economia legata al turismo per cui non era pensabile proporre la demolizione delle preesistenze (spazi riservati alle attività commerciali private) per la costruzione di palazzine. In quello stesso periodo si verificò un incremento dell’occupazione in una logica di incoraggiamento dell’economia locale. Gli anni cruciali della ricostruzione furono quindi quelli compresi tra il 1986 e il 1989, anni in cui era in vigore la legge n. 219 fondata sul meccanismo della cantierabilità.
Dalle testimonianze raccolte sono evidenti divergenti valutazioni, espresse in base a diverse esperienze e sensibilità, in particolare riguardo le scelte della ricostruzione di tipo conservativa e i nuovi insediamenti abitativi sorti dopo il 1980.
Molti giudicando la qualità della ricostruzione, arrivano a conclusioni spesso sconfortanti che tuttavia paragonate ad altre realtà vicine, risultano meno devastanti. La scelta di non aver puntato sulla nascita di aree industriali rimaste spesso “cattedrali nel deserto” è ad esempio, un elemento che emerge in diverse analisi raccolte, oltre alla diffusa idea che l’improvviso scenario economico, modificatosi grazie ai fondi della ricostruzione, abbia finito per incattivire i rapporti tra le persone. Oggi, a distanza di più di trenta anni dal sisma del 1980, sia da parte di chi fin dal primo momento ha pensato ad un ammodernamento del paese, sia di chi sosteneva il recupero della memoria storica come poi è avvenuto, emerge un dato univoco: insoddisfazione per i risultati ottenuti.
Chi appoggiava un’idea di rinnovamento, oggi sostiene che la ricostruzione dal punto di vista qualitativo non sia delle migliori e che quando si ha la sfortuna di vivere una tragedia come il terremoto, si debba cercare di recuperare il passato coniugandolo al progresso della zona, mentre a parere di molti è stata privilegiata in maniera esasperata la ricostruzione del passato a discapito della ricerca di soluzioni di sviluppo per il futuro.
A questa analisi del comune di Caposele va aggiunto un ultimo dato: in seguito al sisma e alle vicende dei soccorsi qualcosa di molto diverso dell’annebbiamento delle coscienze dovute alla corsa all’accaparramento è accaduto in alcune persone. Il secondo giorno successivo al terremoto, iniziarono ad arrivare a Caposele i primi volontari. Non pochi quelli che ricordano che in quell’occasione si creò una integrazione tale tra settentrione e meridione d’Italia che stentano a credere possa ripetersi nella storia. I volontari a Caposele, portarono significativi contributi: raggiunsero le famiglie nelle campagne periferiche, crearono associazioni giovanili e momenti di animazione strutturate per bambini e anziani, fondarono comitati istruendo la popolazione sui propri diritti oltre a dare voce ai dimenticati dinanzi all’amministrazione comunale. Tutto ciò fece scattare nei caposelesi la voglia di imparare come organizzarsi per non dover perennemente ricorrere all’esterno in caso di necessità.
Alcuni cittadini infatti affiancarono i volontari accorgendosi che si trattava di persone comuni che non possedevano particolari preparazioni o qualifiche e questo incoraggiò non poco l’idea di creare simili associazioni anche qui. La vicinanza di persone nuove, fornite di un bagaglio esperenziale diverso, contaminò positivamente il paese che avvertì finalmente il bisogno di reagire dopo periodi di totale apatia e assistenzialismo esasperato fino a fondare alcuni anni dopo, un’associazione di volontariato, ancora oggi fonte di risorse e servizi per la popolazione locale.
Sono state inoltre raccolte informazioni relative al tessuto sociale del comune di Caposele oltre che al danneggiamento e ricostruzione urbanistici, ed è opinione diffusa che il sisma abbia provocato totale disorientamento e vi siano stati giorni di completo e generale intontimento. Molti riconoscono che vi sia stata una prima fase, durata molto poco, forse qualche settimana, in cui di fronte alla calamità e al lutto emerse la parte più solidale di ognuno. Tale fenomeno si affievolì di lì a poco, qualcuno sostiene che ciò accadde in corrispondenza dell’arrivo degli aiuti materiali prima e delle roulotte poi., che diedero inizio alla corsa all’accaparramento.
Altri hanno osservato come l’evento stesso del terremoto abbia chiuso le persone in se stesse perché preoccupate a garantire una sistemazione dignitosa alla propria famiglia col passaggio in secondo piano della parte altruistica di ogni abitante. Molti credono che su questo si sarebbe innestato l’aspetto più spiacevole del carattere umano che ancora oggi prevale, ossia quello legato al “malefico dio denaro” considerato pericoloso qualora non gli si riconosca il giusto e moderato valore.
Alla luce dei dati emersi si nota che l’esperienza della ricostruzione a Caposele rappresenti un’occasione mancata per trarre il meglio da un evento tanto triste e luttuoso come può essere un terremoto. Un appuntamento non rispettato con una opportunità di crescita che ha finito invece per provocare invidie, dissapori e allontanamenti dalla propria comunità e dal proprio territorio.
Sic stantibus rebus, trenta anni sembrano ancora insufficienti per un bilancio di quanto e come il terremoto abbia influito anche sulla dimensione sociale dei paesi colpiti, dal momento che è ancora nell’aria nei ricordi che come folate di vento, riportano di tanto in tanto il sapore acre della polvere di quella triste domenica sera di novembre.
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