Spulciando tra le cartelle virtuali del mio computer ho avuto modo di passare in rassegna le tante immagini raccolte nel tempo a proposito del terremoto del 1980; serviva a cercare qualche foto di corredo a un articolo in uscita il 23 novembre su Lavoro Culturale (www.lavoroculturale.org/Sismografie).
Il deja-vu è stato quello di indovinare quale paese era protagonista delle macerie delle varie foto e pensare oggi a quegli stessi angoli e scorci. Già questo esperimento, da solo, rende evidente la portata di distruzione di quel sisma, quello al quale ho dedicato anni interi di studio e di ricerca.
Nei mesi scorsi varie scosse hanno coinvolto altre regioni italiane, posti bellissimi sono stati sconquassati e buttati all'aria dall'ospite inatteso col quale conviviamo da secoli e col quale ancora non abbiamo imparato a fare i conti.
Mi è capitato di confrontarmi di persona, telefonicamente o virtualmente con giornalisti, tecnici o ricercatori che stanno ragionando su cosa è successo nelle zone terremotate dopo le scosse del 24 agosto e del 30 ottobre, aprendo paralleli con la sera del 23 novembre 1980 e quei 90 secondi di tremito tellurico. Sembra che chi possiede un minimo di conoscenza sull'argomento debba dare risposte definitive, come un oracolo, su cos'è il terremoto, come si ospitano i senzatetto, come ricostruire bene e come si evitano gli scandali e le ruberie. E' la ricerca spasmodica della rassicurazione dell'esperto da ingerire come un ansiolitico per far passare la paura.
Ma chi può avere risposte rassicuranti e definitive? Altre domande che ho ascoltato chiedevano di sapere al centesimo quante lire o euro erano state spese per la ricostruzione in Irpinia e Basilicata. Anche qui la complessità della risposta non era soddisfacente, non si adattava bene a un tweet o a un post di Facebook.
Mi è capitato di ascoltare decine e decine di racconti sul terremoto, sulla terribile notte del 23 novembre, sul dolore della perdita di persone care e luoghi familiari, sulla rabbia dei lunghi anni di prefabbricati e lavoro promesso e sperato, su risultati architettonici e urbanistici estranei ai propri valori. E' tutto troppo complesso, è una dimensione più intima che pubblica e non trova, infatti, segni tangibili che ci aiutino a commemorare (musei veri, archivi, progetti di sensibilizzazione e tutela).
L'altra sensazione forte, in questo anniversario, riguarda il destino del nostro Appennino. Dobbiamo capire cosa farne, dei nostri piccoli paesi, se li riteniamo una risorsa o un peso, se la popolazione che vive sulle montagne italiane (11 milioni di persone) ha la stessa dignità di chi vive a Roma, Milano, Napoli, Torino e se gli si deve prestare attenzione o ignorare il grido soffocato di disperazione quotidiana. La mappa dei terremoti più recenti degli ultimi 50 anni coincide quasi perfettamente con la mappa del disagio demografico e civile. Per questo “il modo migliore di ricordare i morti è pensare ai vivi”.
Il male oscuro dopo il terremoto
Da "La Stampa" del 20 dicembre 2012
Chi, uscendo dall’autostrada a Modena, salisse su nella Bassa fino a Mirandola, passando per Carpi Medolla e Cavezzo, e magari deviando anche verso Finale San Felice e Rovereto sul Secchia, non avrebbe l’impressione di attraversare una terra che, se non la fine del mondo, la fine di un mondo l’ha già vissuta, e solo sette mesi fa.
Non si vedono – se non di rado: e si tratta di vecchie cascine sparse qua e là. Oppure di antiche chiese – non si vedono più, dicevamo, case distrutte; né tendopoli, baracche, container. Certo alcuni segni del Mostro si scorgono ancora: in qualche strada, in uno spazio aperto, dietro le transenne che cintano pezzi di centri storici. Ma l’impressione è che non solo il peggio sia passato, ma anche che la vita sia ripresa come in quel bel tempo recente, quando questa piccola fetta di Emilia produceva, da sola, il due per cento del Pil nazionale. Eppure il Mostro si agita ancora. È invisibile, perché si manifesta nella sua forma più subdola: la paura. Ma si agita e uccide. Tre settimane fa, a Mirandola, c’è stata una tavola rotonda sulla ricostruzione e alla fine il sindaco, Maino Benatti, ha detto che purtroppo anche quella giornata era stata funesta, perché s’era avuta notizia di un suicidio. Di un altro, di un nuovo suicidio.
Quanta gente s’è tolta e ancora si toglie la vita, per colpa di quei maledetti 20 e 29 maggio scorsi? «Non ho cifre sicure, ma io ne ho sentiti cinque, negli ultimi due mesi, solo qui», mi dice Benatti nella scuola che ospita provvisoriamente la sede del Comune, in una strada intitolata a Dorando Pietri, un altro emiliano di tenacia e sfortuna. «Non lo so», continua il sindaco, «se sono più del solito. Certo adesso ci si fa più caso». Ed è certo anche che il terremoto ha aumentato il male di vivere. «Non ci sono ancora statistiche comparate con gli anni passati. Ma di sicuro un rischio di maggiori comportamenti autolesivi c’è», spiega il dottor Fabrizio Starace, responsabile del dipartimento di salute mentale dell’Ausl di Modena. «È aumentato, ad esempio, il consumo di alcolici… E abbiamo molte diagnosi di stati ansiosi e depressivi ». Come combattere questo nemico che ama agire di nascosto? «Abbiamo allertato i medici di base: state attenti a cogliere i primi segni di malessere. L’abbiamo detto anche ai professori nelle scuole: occhio ai ragazzi, soprattutto a quelli che hanno cambiato comportamento dopo il sisma.
I prof, appena hanno un segnale, ci avvertono. Ma è dura, perché anche i prof sono vittime del terremoto. Anche loro si svegliano di notte e pensano: non succederà ancora? ». A Medolla, in piazza Donatori di sangue, c’è un piccolo container. È l’ambulatorio del dottor Nunzio Borelli, uno dei quattro medici del paese, mille e quattrocento pazienti a carico. Nei nove comuni del cratere, i medici di base sono 67: il 60 per cento è ancora in container. Borelli, che è anche un rappresentante sindacale della categoria, ha appena partecipato, a Carpi, a un incontro di aggiornamento professionale con uno psichiatra: «Ci ha riportato un dato ormai consolidato dalla letteratura mondiale: dove c’è stato un terremoto, nel primo anno i suicidi aumentano del 63 per cento. Dopo cinquant’anni, la gente del posto ha ancora paura. Io ho quattro figli, la più piccola ha diciotto anni, l’altro giorno ho pensato: a 68 anni Benedetta avrà ancora paura. Ormai il terremoto è entrato nel nostro Dna». Gli chiedo in quanti suicidi s’è già imbattuto. Dice che bisogna stare attenti a diffondere dati, c’è il rischio emulazione, «e comunque sono, nei nove comuni del cratere, una decina negli ultimi due-tre mesi». Altri dati sono comunque inconfutabili: «Noi 67 medici di famiglia di quest’area vediamo quattromila pazienti al giorno. Un terzo è per patologie di tipo psicologico. Guardo le ricette: c’è un più trenta per cento di benzodiazepine e antidepressivi ». Dice che le situazioni più a rischio riguardano persone che mai, prima, avevano sofferto di disturbi del genere: «Il 66 per cento di quelli che stanno male adesso appartiene a quella categoria lì: nessun problema prima del terremoto», dice Borelli.
Ma non sono forse, gli emiliani, gente forte? Ho in mente la prima immagine che mi si presentò il 29 maggio a Rovereto sul Secchia. Era l’ora di pranzo e pochi minuti prima c’erano state tre scosse tremende: magnitudo 5,4; 4,9 e 5,2. Avevo davanti il signor Gino, un uomo grande e grosso che alle 9 del mattino, durante la prima scossa di quel giorno, aveva tirato fuori dalle macerie della chiesa il parroco, che gli era poi morto fra le braccia. Mentre mi raccontava l’accaduto, il signor Gino mescolava un enorme pentolone di pastasciutta per dar da mangiare alla gente in piazza. Mi sembrò l’immagine dell’Emilia che riparte subito. «Sono quelle che chiamiamo “reazioni eroiche”», mi spiega il dottor Starace.
«Quelli che l’hanno avuta, però, a volte hanno un calo nei mesi seguenti. È come se si dicessero: ora mi concedo anch’io il diritto di star male». Si soffre e si muore ancora, insomma, in Emilia, di terremoto. «Il 90 per cento delle attività produttive è ripartito, non c’è più quasi nessuno senza casa, anche il problema delle tasse è stato risolto con dilazioni e rateizzazioni. Dei 12 miliardi di euro di aiuti che dovevano arrivare, 9 sono già arrivati. Il disagio dunque non è legato a danni economici e materiali», dice il sindaco di Mirandola, Benatti: «È che abbiamo vissuto qualcosa più grande di noi». Ed è che l’uomo non è fatto di sola materia, e nell’animo si è aperta una ferita che lascerà sempre, almeno, una cicatrice.
Copyright © 2011 - All Rights Reserved - Osservatorio sul doposisma - Area Coordinamento dell'Osservatorio al 347.8577829- info@osservatoriosuldoposisma.com