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Martedì 08 Ottobre 2013 14:56

Vajont, la valle del dolore che vive

Ci sono luoghi dai nomi tristemente noti, e ai quali si associa subito un ricordo nefasto; è il caso di San Giuliano di Puglia, dove morirono 27 bambini nel crollo di una scuola costruita colpevolmente male. Lo stesso è per Capaci, macchiata dal sangue indelebile di un magistrato, di sua moglie e della sua scorta, o per Vermicino, che fu teatro della prima suspense in diretta tv, la caduta nel pozzo del piccolo Alfredino Rampi nel 1981.

Sono troppi i luoghi e i nomi associati a eventi e situazioni tragiche, nella storia d'Italia. Pochi, però, hanno la potenza evocativa del Vajont, un fiume che scorreva in una valle e che si pensò di sbarrare con una diga per alimentare il sogno di potenza dell'Italia del miracolo economico.

Decido di andare a Longarone, Erto e Casso per una sorta di obbligo morale; avevo preso confidenza con questa storia attraverso carte, fotografie, testimonianze e libri per preparare una relazione in una conferenza di storia dell'ambiente a Monaco di Baviera.

Il caso del Vajont è stato certificato, nel 2008, dalle Nazioni Unite come uno dei cinque disastri più gravi mai provocati dall'azione umana, 1910 morti in quella notte del 9 ottobre 1963.

Per raggiungere Longarone, provenendo da sud, si attraversa il cuore del Veneto e l'ultimo lembo padano di pianura per assaporare le montagne dolomitiche e le loro valli, lasciandosi alle spalle quel tessuto di piccole e grandi fabbriche del nordest, una locomotiva che ora arranca, e con ancora qualche campo coltivato in mezzo alla sequenza di cemento e asfalto. Longarone è sulla rotta per Cortina, ci arrivo in un fine agosto di rientro vacanziero. Non so bene cosa cercare e cosa aspettarmi, perché so che anche la memoria di questo disastro è stata scandita da tappe controverse e dolorose.

Nella piazza del paese, che guarda dritto in faccia alla gola nella quale si scorge la diga, si affaccia un edificio che ospita il museo, gestito dalla Pro Loco di Longarone.

“Longarone-Vajont, attimi di storia” s’intitola la mostra permanente con ingresso a pagamento. La dichiarazione scandita dal messaggio posto all'ingresso è inequivocabile: “leggerezze imperdonabili, arroganza dei poteri, silenzi della stampa, assenza di controlli, gravissime omissioni”. Il museo è ordinato ed efficace, ci sono tutti gli elementi per conoscere per bene cosa è accaduto; sento nei miei accompagnatori lo stesso magone misto a indignazione che provo io. Le testimonianze dei superstiti sono vivide e toccanti e parlano nella lingua semplice ma diretta della gente di montagna.

Ho scoperto, prendendo confidenza con la storia del Vajont, che il trauma di chi è rimasto ha tracciato anche un solco che divide persino i “sopravvissuti” dai “superstiti”, una diversa tonalità di dolore e quindi di recriminazione verso lo Stato, la SADE o Enel o le autorità locali e nazionali. “Parlare del dolore non è facile, il dolore si vive”, c'è scritto sul muro della sala che accompagna all'uscita. E' proprio così; mancano sempre termini al vocabolario che tenta di narrare la sofferenza.

Saliamo verso la diga, per circa 4-5 chilometri, dove a maggio il Giro d'Italia ha voluto esserci con l’arrivo di una tappa. C'è molto movimento nel piazzale del parcheggio, quello dal quale l’attore Marco Paolini ha rievocato, in diretta TV per 4 milioni di italiani, le vicende di un dramma finito nell'oblio, di 1910 vittime spazzate via in pochi minuti da 50 milioni di metri cubi d'acqua, rocce e detriti.

Per la visita guidata ci affidano a un “informatore della memoria”, un ragazzo del posto, che ci racconta tappe e cronache della costruzione di un sogno ingegneristico costruito nonostante la voce della tradizione e del luogo diffidassero dalla sfida al gigante. Il gigante è il Monte Toc, che in friulano prende in nome da “patoc”, “marcio”. Ma non c'era tempo da perdere, l'industria nazionale ha bisogno di elettricità, e costruire una diga sul corso del fiume Vajont può fornirne tanta.

Il sogno inizia nel 1925, con Mussolini e con il conte Giuseppe Volpi di Misurata, creatore della SADE (Società adriatica di elettricità) e presidente di Confindustria negli anni del regime. Ma è nell'ottobre 1943, con il re e Badoglio fuggiti a Brindisi e l'Italia lacerata dalla guerra, che in un corridoio ministeriale romano viene firmata la prima autorizzazione al progetto, realizzato dall’ingegnere Carlo Semenza. Tra il 1957 e il 1959 si lavora alla diga; nel 1960 si stacca una prima frana, ma siccome non si registrano morti, la SADE non ritiene di desistere dal continuare a tenere attiva la diga e a mantenere acqua nell’invaso; la società risponde abbassando la quantità di metri cubi quando la gente della valle protesta e alzandola quando tutto si sopisce. Ma la montagna inizia a cedere, gli allarmi sono più che fondati e anche i geologi di parte lo sanno; Tina Merlin scrive su “l'Unita” documentando tutto, ma viene portata in tribunale per disturbo della quiete. “Magari l'avessi disturbata davvero, la quiete”, dirà poi.

La nostra vertigine di attraversare la diga è unita alla consapevolezza degli effetti tragici di quel disegno scellerato di oltraggio alla natura. La collina che si è formata con la terra scivolata a valle dopo la frana è al centro dell'invaso, ora, ma la faglia a forma di M domina come una cicatrice sul fianco del Monte Toc.

Tra i dati significativi annoto il numero di visitatori che ogni anno sale sulla diga: 220 mila, un numero molto alto, che testimonia un omaggio silenzioso degli italiani, e non solo, a un luogo oltraggiato e ferito a morte.

Attraversando l'abitato semideserto di Erto, il paese più volte narrato dallo scrittore Mauro Corona, la faglia s’intravede sullo sfondo. Qui le case sono state in parte ristrutturate, anche grazie ai risarcimenti che l'Enel ha dovuto concedere ai comuni e ai parenti delle vittime, ma solo dopo il 1997. Ora quei soldi sono in parte fermi per il patto di stabilità. Longarone, invece, ha una struttura urbanistica anonima; la chiesa di Michelucci è imponente ma non sembra sia stata del tutto accettata dai cittadini. Molti palazzi sono a più piani e da periferia urbana, proprio come in tante altre ricostruzioni da post-disastro in Belice, Irpinia e così via. La direzione progettuale di Giuseppe Samonà, insigne professore veneziano, è stata in parte disattesa; Samonà all’epoca disse : “ora abbiamo costruito periferie, dobbiamo tramutarle in città”. Non sembra questo il risultato, e questo è un altro dei colpi inferti alla comunità ferita.

A Fortogna c'è, poi, il cimitero che ospita i morti del Vajont, un cimitero monumentale che assomiglia a un sacrario di guerra, con tutti i cippi sui quali sono segnati i nomi, allineati in una distesa di puntini bianchi. E' il giusto compendio agli altri luoghi visitati in questa visita, il conteggio visibile delle vittime di quella tragedia annunciata.

La sensazione è che, nonostante le divisioni, qui si abbia ben presente che si può intervenire per commemorare in maniera equilibrata, senza abbagliare né trascurare. Dallo spettacolo di Paolini in poi la tragedia del Vajont ha vissuto una nuova fase, una rielaborazione del lutto sia per gli abitanti di questi posti sia per l'Italia e le sue istituzioni. E' nata una fondazione nel 2003, la fondazione Vajont, che ora sta costruendo le attività in vista del 50esimo anniversario.

Tra le iniziative, il comitato dei sopravvissuti ha proposto di mischiare tutte le zolle di terra che arriveranno a Longarone da ogni parte d’Italia e del mondo in una “Aiuola monumento di solidarietà” a sancire una rinascita da quella stessa terra che si staccò dal monte Toc.

I posti bagnati da sangue innocente diventano sacri, dice un motto e una tradizione ebraica. Non è stata solo la barbarie della guerra, la crudeltà dell'uomo verso il suo simile a spargere sangue che si sarebbe potuto salvare. Anche inseguire la divinità del progresso inarrestabile, anche di fronte a leggi millenarie della natura, anche la superficialità e l’omissione colpevole di norme e tecniche di costruzione ha avuto troppi effetti nefasti. Andare a trovare luoghi come Longarone, come l'Aquila, San Giuliano di Puglia, Gibellina (nel Belice) e Laviano (in Irpinia) serve da ammonimento per porre l'orecchio a quel dolore che vive, anche 50 anni dopo.

Per saperne di più:

www.vajont50.it

www.vajont.info

www.orent.it

Pubblicato in Chi Siamo

Il blog Lavoro Culturale aveva dedicato qualche mese fa una serie di interventi al terremoto dell'Aquila, coinvolgendo diversi studiosi, giovani dottorandi e ricercatori, giornalisti. Il lavoro prodotto è stato poi raccolto in "Sismografie. Tornare all'Aquila mille giorni dopo il sisma".

Oggi si riparte con una nuova serie di interventi sul terremoto in Emilia.

Qui potete leggere la premessa degli autori di Sismografie, nonchè curatori del blog:

Sismografie, riprendere il filo del discorso (F. Carnelli, O. Paris, F. Tommasi)

Qui riportiamo un intervento che pone alcuni punti di discussione su questi primi mesi di questo doposisma.

Il terremoto degli operai e la sfida della prevenzione

Stefano Ventura

Le scosse che hanno interessato l’Emilia Romagna e parte della Lombardia e del Veneto a partire dal 20 maggio scorso hanno provocato sette vittime il 20 maggio (ore 4 e04, magnitudo 5.9 ), e venti vittime il 29 maggio (ore 9, magnitudo 5.8). Un’altra scossa di forte entità (5.2 scala Richter) è stata registrata il 3 giugno (ore 21 e 20), e lo sciame sismico ha tenuto in allarme le aree e le popolazioni terremotate per diversi giorni e con moltissime scosse di minore magnitudo.

I comuni più colpiti sono stati San Felice sul Panaro, Mirandola, Finale Emilia, Cavezzo e Novi. Sono state allestite dalla Protezione civile ventotto aree per la prima sistemazione dei circa 15 mila sfollati, gestite dalle forze del volontariato. In Emilia-Romagna al 25 settembre sono 4.412 le persone assistite. Tra questi, 2.897 sono ospitati nelle aree di accoglienza, 88 nelle strutture al coperto e 1.427 in strutture alberghiere.[1] Mancano, accanto a questi numeri, le cifre delle autonome sistemazioni, cioè tutte quelle famiglie e persone che hanno trovato ospitalità a casa di parenti e amici e per i quali è previsto un contributo basato sul numero di componenti del nucleo familiare.

La situazione degli edifici pubblici ha rappresentato sin da subito un punto critico; per quanto riguarda, ad esempio, le scuole, il 17 settembre hanno riaperto, ma 471 edifici avevano subito danni e circa 70 mila studenti hanno dovuto ricominciare in situazioni provvisorie, in tensostrutture o in strutture prefabbricate, altre volte raggiungendo plessi scolastici di zone vicine o altre ancora ospitati in alberghi, palestre e altri spazi adattati alle necessità.

L’altra situazione d’urgenza riguarda le aziende e l’apparato produttivo, che in quest’area trova un concentramento di importanti realtà, ad esempio nel settore biomedicale e nella produzione alimentare. Molte aziende che hanno subìto il crollo dei capannoni hanno trovato ospitalità nelle fabbriche dell’area vicina o hanno condiviso gli spazi dei capannoni rimasti agibili.

Questo terremoto sarà quindi consegnato al purtroppo ricco elenco di disastri che hanno tormentato l’Italia come “il terremoto degli operai” e dei capannoni crollati, così come il terremoto di San Giuliano di Puglia e del Molise, che sta per compiere dieci anni (31 ottobre 2002) è quello dei bambini morti nel crollo della scuola, così come il terremoto dell’Aquila ha assunto come simbolico apice di sventura il crollo della Casa dello Studente di via XX settembre.

Ognuno di questi disastri, e nello specifico i terremoti, ha trovato risposte diverse non tanto nell’organizzazione e nella prontezza dei soccorsi, quanto nell’architettura istituzionale e di governo della gestione dell’emergenza e ancor di più nell’avvio della fase di ricostruzione. In 15 anni, dal terremoto dell’Umbria e delle Marche ad oggi, tutti gli eventi principali hanno avuto storia a sé, sono stati caratterizzati da filosofie di intervento proprie, da un equilibrio di volta in volta diverso tra le principali forze in campo, cioè comunità e istituzioni locali, Regioni, Protezione Civile e Governi nazionali. Nel primo caso (Umbria e Marche 1997) il Governo diede ben presto alla Regione l’incarico di coordinare gli interventi dei comuni; in Molise, quando la gestione commissariale passò alla Regione, il governatore Iorio allargò a dismisura le fasce di danno dirottando le risorse su opere e provvedimenti non collegati alla ricostruzione. L’Aquila ha rappresentato il ritorno a una gestione fortemente centralizzata da parte del Governo e della Protezione civile, con l’azione sinergica di Berlusconi e Bertolaso che ha privato quasi del tutto i sindaci e le popolazioni locali della possibilità di intervenire.

Far trascorrere un po’ di tempo tra lo svolgimento dei fatti e lo studio dei singoli casi aiuterà a capire se questa lettura, qui forzatamente semplificata, sia corretta o meno. Atteniamoci ora all’attualità per cercare di cogliere gli elementi principali che emergono dalla vicenda del terremoto emiliano.

Il 17 maggio, tre giorni prima della scossa del 20, è entrato in vigore il decreto n.59, quello che stabilisce compiti e modalità di intervento della nuova Protezione civile, dopo gli anni in cui alla Protezione civile sono stati affidati compiti e poteri che esulavano dalla sua vocazione originaria (i grandi eventi, ad esempio).

Il decreto stabilisce che la Protezione civile ha potere di ordinanza per venti giorni dopo una calamità

(Tremonti aveva introdotto un passaggio obbligato e una autorizzazione preventiva del ministero dell’Economia prima di stanziare i fondi per l’emergenza) e ha potere di intervento e spesa su operazioni di soccorso, assistenza alle popolazioni e opere per la sicurezza con 50 milioni di euro a disposizione da destinare allo scopo. L’emergenza dura sessanta giorni, prorogabili al massimo di altri quaranta giorni, per un totale massimo di cento giorni, dopo i quali la gestione passa alle amministrazioni ordinarie. Il decreto contiene anche l’accantonamento del principio per il quale lo Stato è tenuto a risarcire integralmente i danni dovuti a disastri e introduce un’assicurazione obbligatoria contro i danni da calamità per le abitazioni private[2].

L’Emilia rappresenta quindi il primo banco di prova di questo decreto, e da più parti è stato fatto notare che in sessanta o al massimo cento giorni non si risolve quasi nulla. Il fondo stabilito per la gestione dell’emergenza è di 50 milioni di euro, che in Emilia sono finiti venti giorni prima della scadenza dello stato di emergenza. Le istituzioni locali in particolare devono imparare in fretta a fare da soli, sotto la guida della Regione, ma ad a oggi i soldi per operare sembrano non esserci, né da parte del governo italiano (tranne i 500 milioni derivanti dalle accise sulla benzina), né dall’Unione Europea (i 670 milioni stanziati arriveranno nei primi mesi del 2013). La cosiddetta congiuntura economica, d’altronde, non è certo quella più adatta a spese e impegni finanziari straordinari.

Eppure le prime dichiarazioni di alcuni membri del governo, al di là delle cifre annunciate, sollevavano questioni aperte di grande importanza; il ministro dell’ambiente, Clini, dichiarava di voler promuovere un piano nazionale per la difesa del territorio. Per questo sforzo straordinario servirebbero, secondo il ministro, 41 miliardi di euro e 15 anni di tempo[3].

Il ministro Fornero, invece, faceva notare che il crollo dei capannoni e degli edifici sensibili, in altri Paesi, non sarebbe potuto succedere[4].

E’ indubbio che il problema della sicurezza del patrimonio di edilizia pubblica e privata italiana è davvero il principale nemico per la difesa dai rischi naturali e antropici, ma per vari motivi non si è mai agito seriamente per porre rimedio alla questione. Dal terremoto di San Giuliano di Puglia a oggi sono passati dieci anni; tuttavia non si ricordano in questi anni leggi, interventi e impegni di spesa per la messa in sicurezza di scuole, edifici storici e per i fabbricati più datati.

Scorrendo i titoli e le pagine dei giornali delle settimane successive al terremoto emergono, inoltre, polemiche e allarmi sul rischio di nuove scosse e sull’adeguatezza della mappa nazionale del rischio sismico. La zona colpita non risulta, infatti, tra le zone a più alto rischio sismico, anche se storicamente in quell’area si ricordano alcuni terremoti, anche di forte entità, come ad esempio il sisma del 1570 a Ferrara, e in quel caso lo sciame sismico durò diverso tempo[5].

L’annuncio di imminenti scosse di uguale o maggiore entità ha tenuto in allarme la popolazione e messo in difficoltà geologi ed esperti che stavano, nel frattempo, monitorando la situazione, vista anche la relativa novità del fenomeno. Si pone quindi un altro problema, quasi etico: comunicare tutte le informazioni di cui la comunità scientifica è in possesso oppure selezionarle per evitare allarmismi e panico?

Quello che sicuramente emerge è la corsa alla semplificazione, i titoli a effetto e la rapidità frenetica imposta da comunicazione di massa al tempo dei social network, quando un tweet o un hashtag hanno più presa di un approfondimento ragionato. Nel caso del terremoto, la previsione di un evento sismico sta diventando un’ossessione scientificamente infondata, ma sempre evocata. Invece di inventarsi date, previsioni e allarmi su dove e quando sarà il prossimo sisma, sarebbe certamente meglio investire le energie per adeguare le strutture materiali e per educare la popolazione.

Infine, bisogna prestare attenzione al frequente appello alla “retorica della tragedia”, cioè a quella vulgata che sottolinea in maniera strumentale il carattere di una comunità,  la fierezza degli aquilani oppure la laboriosità degli emiliani. Certamente raccontare le esperienze positive di rinascita può essere di incoraggiamento per chi deve ripartire.

Molto spesso, però, questo tipo di narrazione serve a oscurare o mettere in secondo piano l’individuazione delle responsabilità, ad esempio sui palazzi costruiti su una faglia a Pettino, quartiere dell’Aquila, o sui capannoni accartocciati su se stessi in un niente in Emilia e spinge a minimizzare i problemi della ricostruzione e dell’immediato.

Staremo a vedere quale corso prenderà la ricostruzione in Emilia; di certo la seria considerazione dei problemi degli emiliani porterebbe a una più matura consapevolezza della fragilità dell’Italia intera e, forse, a pensare la natura e il territorio come elementi primari e non trascurabili. Al di là delle politiche di lungo periodo, delle azioni di governo nazionali e locali, la prima cellula di Protezione civile è sempre il buonsenso, quello individuale e quello collettivo; per far maturare questa coscienza è fondamentale sostenere e rafforzare i progetti educativi, che già nel nostro Paese sono ben presenti grazie al volontariato, all’associazionismo e a ricercatori e professionisti della prevenzione. Vale anche la pena ricordare di come la prevenzione, oltre a salvare vite umane, potrebbe far risparmiare le ingenti risorse necessarie, ogni volta, per ricostruire dopo un disastro. C’è bisogno, quindi, di agire con continuità in questa direzione, senza aspettare la prossima calamità.

 


[1] http://www.regione.emilia-romagna.it/terremoto/dati-e-numeri-dalla-protezione-civile.

[2] http://www.osservatoriosuldoposisma.com/chi-siamo/chi-siamo/il-decreto-legge-59-e-la-nuova-protezione-civile .

[3] http://archiviostorico.corriere.it/2012/giugno/01/Quindici_anni_per_rendere_sicura_co_9_120601055.shtml .

[4] http://archiviostorico.corriere.it/2012/maggio/30/capannoni_finiscono_sotto_accusa_Non_co_8_120530018.shtml .

[5] http://corrieredibologna.corriere.it/bologna/notizie/cronaca/2012/30-maggio-2012/nel-covo-sismologi-bolognesi-una-lunga-estate-scosse-201398708282.shtml .

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