Si avvicina il decimo anniversario del terremoto dell'Aquila (6 aprile 2009). Nel frattempo nel Centro Italia terremotato del 2016 non si muove molto e la ricostruzione pare ferma al palo, con i cittadini che si sentono sempre più abbandonati. La loro condizione è emblematica di tanti abbandoni che riguardano le zone interne e fragili d'Italia, l'Appennino, la montagna in generale. Servirebbe un cambio di paradigma netto e servirebbe riportare interesse e discussione su questo problema. Riportiamo un articolo uscito di recente su LIPPERATURA, il blog di Loredana Lipperini, che parla di questa situazione. Sullo stesso blog si possono trovare articoli, storie, narrazioni e spunti di riflessione importanti per non dimenticare i nostri connazionali in difficoltà.
DA CAMERINO A L'AQUILA: LA RIVOLUZIONE CHE CI VUOLE
Ci vuole una rivoluzione. Ascoltate la puntata di Fahrenheit di ieri: intorno a 1.25, nel podcast, Tomaso Montanari parla del cratere:
"Sembra che ci sia un'altra Italia, lontana dagli sguardi dell'Italia mainstream, dell'Italia delle metropoli. E a volte ci chiediamo cosa possiamo fare noi per quelle regioni. Certo, ora dobbiamo salvarle. E' uno scandalo spaventoso che non si investa, che non si lavori, che non si riportino i cittadini, i lavoratori, gli studenti nelle vie, nelle piazze e nelle aule di Camerino, che ha un'università antichissima. Ma in realtà, se noi non aiutiamo Camerino, e le aree interne colpite dal terremoto (penso a Visso, penso a tanti altri luoghi meravigliosi), è perché non le conosciamo, perché sono uscite dalla nostra percezione, è perché non ci chiediamo cosa loro possano fare per noi: insegnarci un altro stile di vita, un altro ritmo, un altro modo di vivere (...) . Camerino, le aree interne, sono l'anima dell'Italia, sono il rimedio al fatto che l'Italia tenda a somigliare a tutto il resto del mondo in una omogeneità indistinta. In quei luoghi così tormentati oggi - pensiamo anche all'Aquila, sono dieci anni - c'è un senso di umanità che manca altrove e che possiamo ritrovare. Dobbiamo pensare che quei luoghi possono aiutare noi, e non viceversa. Bisogna rivoltare il nostro punto di vista. Ci vuole veramente una rivoluzione".
Già, L'Aquila. Su Lo stato delle cose Federica Tourn intervista Massimo Cialente. leggete l'integrale, e meditate su questi due estratti.
«Alla fine dissi di sì alle new town perché avevo un solo obiettivo, riportare la gente all’Aquila. Nel 1703 dopo il terremoto fu mandato un commissario straordinario, un certo Garofalo, e che fece? Mise le palizzate alle porte della città per impedire che gli aquilani scappassero. Io dovevo fare la stessa cosa. C’era un solo modo, accettare la proposta di Berlusconi sul progetto C.A.S.E., così accettai e cominciai a pensare come disporle». Poi, il colpo di scena. «Il 5 maggio, in piena notte, mi chiama trafelato il mio ragioniere capo e mi dice: “Berlusconi ha firmato l’ordinanza!”. Una che non mi avevano mai fatto vedere e che recitava: “A seguito del sisma, tutti gli uffici statali, regionali, i reparti specialistici ospedalieri vengono trasferiti transitoriamente nelle città vicine. Stesso trattamento per i dipendenti di questi uffici, sulla scorta del danno riportato dalla casa”. Cioè rimanevano soltanto il Comune e le scuole dell’obbligo; la città era morta. Successe un casino. Dissi: “Vi dò venti minuti per mettervi in salvo, prima che scateni la rivoluzione. E poi mandate pure l’esercito”. Ero fuori di me: il cuore mi batteva impazzito, la voce era salita di due toni, mi sembrava di morire. Bertolaso e Letta cercavano di calmarmi ma io non volevo nemmeno vederli; dissi loro: “Fra poco sarete circondati, o Berlusconi annulla subito l’ordinanza o siete morti”. Avrei scatenato la città e la città mi avrebbe seguito». Una vera e propria chiamata alle armi in difesa della terra assediata: niente male per un semplice diacono. Che fosse davvero intenzionato a far scoppiare la guerra o il suo fosse soltanto un bluff, alla fine quella partita la vinse lui, Cialente: «Alla due di notte Letta mi disse che avevano tirato giù dal letto Berlusconi e gli avevano fatto annullare l’ordinanza».
«Nessuno ha raccontato la verità, hanno usato la tragedia per obiettivi politici, come stanno facendo adesso per Rigopiano o Amatrice: ci sono comunità spezzate e nessuno si sta sedendo a tavolino a chiedersi che cosa si può fare per risolvere il problema, l’unica cosa che fanno è cercare di chi è la colpa. Oggi come dieci anni fa, dove all’Aquila la preoccupazione era affossare Berlusconi o glorificarlo».
Spulciando tra le cartelle virtuali del mio computer ho avuto modo di passare in rassegna le tante immagini raccolte nel tempo a proposito del terremoto del 1980; serviva a cercare qualche foto di corredo a un articolo in uscita il 23 novembre su Lavoro Culturale (www.lavoroculturale.org/Sismografie).
Il deja-vu è stato quello di indovinare quale paese era protagonista delle macerie delle varie foto e pensare oggi a quegli stessi angoli e scorci. Già questo esperimento, da solo, rende evidente la portata di distruzione di quel sisma, quello al quale ho dedicato anni interi di studio e di ricerca.
Nei mesi scorsi varie scosse hanno coinvolto altre regioni italiane, posti bellissimi sono stati sconquassati e buttati all'aria dall'ospite inatteso col quale conviviamo da secoli e col quale ancora non abbiamo imparato a fare i conti.
Mi è capitato di confrontarmi di persona, telefonicamente o virtualmente con giornalisti, tecnici o ricercatori che stanno ragionando su cosa è successo nelle zone terremotate dopo le scosse del 24 agosto e del 30 ottobre, aprendo paralleli con la sera del 23 novembre 1980 e quei 90 secondi di tremito tellurico. Sembra che chi possiede un minimo di conoscenza sull'argomento debba dare risposte definitive, come un oracolo, su cos'è il terremoto, come si ospitano i senzatetto, come ricostruire bene e come si evitano gli scandali e le ruberie. E' la ricerca spasmodica della rassicurazione dell'esperto da ingerire come un ansiolitico per far passare la paura.
Ma chi può avere risposte rassicuranti e definitive? Altre domande che ho ascoltato chiedevano di sapere al centesimo quante lire o euro erano state spese per la ricostruzione in Irpinia e Basilicata. Anche qui la complessità della risposta non era soddisfacente, non si adattava bene a un tweet o a un post di Facebook.
Mi è capitato di ascoltare decine e decine di racconti sul terremoto, sulla terribile notte del 23 novembre, sul dolore della perdita di persone care e luoghi familiari, sulla rabbia dei lunghi anni di prefabbricati e lavoro promesso e sperato, su risultati architettonici e urbanistici estranei ai propri valori. E' tutto troppo complesso, è una dimensione più intima che pubblica e non trova, infatti, segni tangibili che ci aiutino a commemorare (musei veri, archivi, progetti di sensibilizzazione e tutela).
L'altra sensazione forte, in questo anniversario, riguarda il destino del nostro Appennino. Dobbiamo capire cosa farne, dei nostri piccoli paesi, se li riteniamo una risorsa o un peso, se la popolazione che vive sulle montagne italiane (11 milioni di persone) ha la stessa dignità di chi vive a Roma, Milano, Napoli, Torino e se gli si deve prestare attenzione o ignorare il grido soffocato di disperazione quotidiana. La mappa dei terremoti più recenti degli ultimi 50 anni coincide quasi perfettamente con la mappa del disagio demografico e civile. Per questo “il modo migliore di ricordare i morti è pensare ai vivi”.
Copyright © 2011 - All Rights Reserved - Osservatorio sul doposisma - Area Coordinamento dell'Osservatorio al 347.8577829- info@osservatoriosuldoposisma.com