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Mercoledì 11 Luglio 2012 09:17

Amarcord di un paio di terremoti

Il terremoto dell'Emilia, dopo un mese e mezzo, è già scomparso dalle pagine dei giornali. Un pò di attenzione durante gli Europei di calcio, quando i bimbi facevano domande a Buffon e ai calciatori della Nazionale ancora sudati nel dopopartita, un concertone con annesse polemiche e poco altro. Proponiamo una riflessione molto interessante di Giovanni Iozzoli, operaio di origine irpina trapiantato a Carpi da anni; l'articolo è uscito su Alias (inserto del Manifesto) sabato 16 giugno 2012.

 

 

Chi l’avrebbe detto che un terremoto di pianura, si sarebbe trascinato dietro così tanti disastri – e così tante suggestioni? Dappertutto, qui a Nord – la Bassa è il posto dove non succede mai niente. I capannoni sono bunker, fortilizi incrollabili, eroicamente in lotta contro la caduta tendenziale del saggio di profitto. Le campagne sono piatte e squadrate, come disegnate da un gigantesco ortolano maniaco della precisione. Niente mosche, niente cani, niente gente a ciondolare per strada. Anche le zanzare sono operose e ordinate.

Vai tu a pensare che un terremoto, il simbolo per eccellenza dell’anarchia della natura, mi arrivava proprio qua.

Ho 45 anni e ne ho già visto qualcuno, di sismi. E’ che nel mio immaginario il terremoto era sempre stato una roba euroasiatica – appenninica o caucasica… Il terremoto lo associavo ai tufi polverizzati trafitti da travi di legno nero, e ai vecchi secchi e scuri, con le coperte in testa, e ai maiali e ai somari liberi tra le macerie, e ai paesini nascosti tra le sottane di montagne ispide.

Già il terremoto di Haiti mi aveva disorientato. Le casette color pastello, sfarinate sotto il cielo tropicale, mi rimandavano un segnale inedito: si muore di terremoto anche in quelle latitudini, al ritmo della macumba più che dell’Ave Maria?

Poi questa botta modenese mi ha aperto definitivamente gli occhi. Le nostre carte sismiche sono patetici esorcismi. Non sappiamo niente della mala bestia che scava chilometri sotto terra e ogni tanto scrolla il corpaccione. La terra non chiede permesso a nessuno: la crosta, le viscere infuocate, quello che c’e’ sotto, sopra, dentro, è tutto roba sua e fa come gli pare. Se le ingenue illusioni illuministe hanno residuato ancora qualche aspettativa, niente come un terremoto ci ricolloca nella realtà. Possiamo ( e dobbiamo) scrivere nelle Costituzioni il diritto alla Felicità, ma la terra – rocciosa, argillosa, sabbiosa -, la dura terra, è l’unico materialismo possibile.

Suggestioni, dicevo. Una montagna di suggestioni, tipo: la strage operaia.

Il terremoto – didattico, paziente – si preoccupa di riflettere la realtà così com’è. E’ un terremoto ordinatamente di classe, che fa crepare i proletari mentre sono attaccati ai loro torni e ai loro banchi di lavoro. Certo, una morte operaia come la classifichiamo? Moderna, premoderna o è già post? Vai a spiegarlo ai Khaled o ai Salvatore, che sulla loro condizione non avevano mai filosofato: per loro l’ordine naturale, il loro giusto posto, era il capannone; e quindi il terremoto segue le gerarchie della vita e della Storia – non produce ingiustizia. Muoiono gli operai ma parlano e si rappresentano magnificamente gli imprenditori: un esercito di imprenditori, che sfila davanti a tutte le tv, invade onnivoro la scena; sembra un regno magico di soli imprenditori; la didascalia ti dice che è un imprenditore anche il coltivatore diretto con 40 maiali e la masseria sfregiata dal sisma. “Imprenditore” diventa una chiave di lettura esistenziale, più che una qualifica professionale. Gli operai spariscono, al riparo delle tende multietniche, nel silenzio, nella irrapresentabilità, quasi nella vergogna della loro condizione.

Straordinario l’esercito del Bene, che mette in mostra i suoi reparti migliori. Centinaia di volontari addestrati, attrezzati, fosforescenti, che arrivano in poche ore. Ci dice molto sulla dedizione dell’animo umano. Ma anche sul molto tempo libero di cui gode una fetta di popolazione delle società mature; e lo squilibrio storico delle proporzioni tra lavoro e non lavoro nel centro del capitalismo, ci rimanda all’irredimibile crisi fiscale dello Stato ( perchè un terremoto, letto in controluce, è quasi sempre un trattato di economia politica – altro che la sismologia e la geo-fisica…)

Ora, io mi ricordo che trent’anni fa, giù da noi, in Irpinia, la Protezione Civile non ce l’avevamo. C’era l’esercito di leva, i soldatini adolescenti, con le divise grigio verdi strette strette, i fazzoletti sulla bocca e le pale scheggiate. Fu sulla pelle dei nostri tremila morti, che nacque il progetto della Protezione Civile. Certo, nessuno ci recintò, nessuno si assunse la gestione “bio-politica” della nostra condizione; e anche l’esercito dei volontari arrivò fluente e disorganizzato – fiumane di giovani che venivano da Polisportive e sezioni di partito, parrocchie e comitati di lotta; c’era anche l’ultima schiuma preziosa del 77 – quella che non era in galera e non era (ancora) rifluita. Chi sono, invece, questi volontari tecnologici, che in 48 ore sbarcano e attrezzano mega campi? Li guardo ammirato, ma anche un po’ preoccupato, come assistendo all’emersione periodica di un esercito clandestino.

Nei primi giorni dopo la scossa, le pagine dei quotidiani locali erano pieni di scandalo e indignazione: pakistani, marocchini, tunisini, africani di ogni dove, secondo i pennivendoli, stavano provocando problemi nei campi; e la carne di maiale, le continue richieste, la mancanza di collaborazione: come se mettere insieme migliaia di attendati, quasi tutti poveri, di 10 etnie diverse, potesse essere una passeggiatina senza intoppi.

Poi all’improvviso i problemi sono scomparsi dalle pagine. Era solo un modo per attizzare un po’ d’odio anche dentro l’emergenza – una specie di riflesso condizionato dei gazzettini locali. Gli immigrati, dal canto loro, sono incazzati e preoccupati; non tollerano l’idea di morire in un paese che sentono estraneo. Hanno più paura e meno rassegnazione degli autoctoni – continuano a riempire le tendopoli improvvisate sorte nei parchi, persino nel capoluogo intatto. Lavorano per mangiare e pagare affitti: non gli sembra razionale rischiare anche la pelle.

Del resto me la ricordo bene, la finta indignazione civile e pelosa dei cronisti dell’Italia civile. In Irpinia 30 anni fa i pakistani non ce li avevamo; ma certe cose le scrivevano anche su di noi: eravamo selvatici, poco collaborativi, piagnoni e arraffoni. E lo credo bene, l’unica lezione di educazione civica che avevamo ricevuto era: prepara la valigia e vai in Svizzera o in Germania o dove cazzo ti pare. Oppure mettiti in fila, nelle code multiple e varibili delle grandi clientele organizzate, ad arraffare le ultime fiammate del keinesismo all’italiana – gli scampoli malati della Prima Repubblica. Che tempi, ragazzi. C’erano abbastanza soldi per comprarci tutti (e l’operazione riuscì su larga scala). Quando si chiede: – ma di chi fu la colpa delle malversazioni in Irpinia? – non è facilissimo rispondere. Quando si cementa un blocco sociale in cui i miserabili stanno stretti stretti insieme ai costruttori autoctoni e alle grandi famiglie del Nord, tutti abbracciati al grande tronco della rendita immobiliare – di chi è precisamente la colpa storica di quel grande fallimento, che è stata la ricostruzione in Irpinia? Una volta avremmo detto: delle classi dirigenti. Ma sotto le pietre irpine morì anche l’ultimo residuo del Meridionalismo, di cui non si sentirà più parlare. E allora tutti assolti e tutti colpevoli. Non c’era tempo per Giustino Fortunato e Gramsci, mentre la tavola era apparecchiata, e siedevano insieme Gavianei, Dorotei, Morotei, Cutoliani, anticutoliani e Senzaniani. Si sparava di brutto, ma si trattava anche, intorno a una torta che sembrava infinita. Il Sangue e la Trattativa sono i due ingredienti che santificano ogni grande vicenda italiana: più sangue scorre, più si sta trattando.

In quei mesi convulsi a cavallo tra l’80 e l’81 c’era da puntellare mezzo sud Italia. Si fa presto oggi a maledire il Debito Pubblico: ma senza quel fiume di denaro il Mezzogiorno sarebbe sprofondato nella guerra civile; avremmo solo anticipato il Kossovo di una ventina d’anni (ma con una più precisa direzione criminale dei processi, perché Napoli non è Pristina…)

Com’è diverso lo scenario, oggi. Non ci sono più soldi, nisba, finish. Già all’Aquila fu chiaro. Non si corre più il rischio di essere comprati da qualcuno. Nessuna Grande Trattativa si profila all’orizzonte – anche la rimozione delle macerie sarà a carico del destinatario.

Cavezzo è a 20-25 minuti da casa mia. Prendi la strada del Canaletto, fai un po’ di curve, passi S.Prospero e arrivi subito in mezzo all’epicentro. Non c’ero mai andato a Cavezzo, lo riconosco. Del resto cosa ci va a fare uno, a Cavezzo? Nella Bassa o ci vivi, o ci lavori – non sono posti da farci gite. I campanili e i palazzi dei vecchi signorotti, i cippi partigiani, nessun folclore locale che ti rimandi a Peppone e don Camlllo: bruttezza dei luoghi e operosità vanno sempre a braccetto. Anche S.Felice, anche Mirandola sono località bruttine. Oggi Napolitano è andato in quei posti e l’hanno pure fischiato, un oltraggio al rinomato civismo della zona. E anche a sentire stà notizia, si riattizzano i ricordi e il gioco impietoso delle differenze. Anche il vecchio Pertini si prese maleparole e insulti quando arrivò tra le macerie irpine…Pianse e passò alla storia per la sua sfuriata a reti unificate, trasmessa anche dalla compassata BBC. A quell’epoca Napolitano era il cinquantenne capo dei nascenti miglioristi e lavorava nell’ombra per segare la sedia a Berlinguer. Per che cosa passerà alla storia, Napolitano? Per il pareggio di bilancio inserito in Costituzione?

Ecco, se vuoi capire la differenza tra terremoti, non devi guardare l’ago del sismografo (è più forte questo o quello?). Devi guardare il contorno, gli interpreti secondari, il coro. Il terremoto in Irpinia fu raccontato da Moravia, Sciascia e Geno Pampaloni; i grandi scrittori si mettevano in macchina e e raccontavano la tragedia dell’arretratezza meridionale, a un Italia colta, attenta e popolare.

Il terremoto dell’Aquila, invece, è stato raccontato da Vespa.

E quello modenese passa prevalentemente nei TG – mediato da inviati minori. Una narrazione povera, piatta, la stessa retorica sulla sobrietà emiliana e “la voglia di ripartire”, cucinata e riscaldata ogni giorno. La lenta parabola verso il basso di un paese è ben rappresentata dalla caratura dei “narratori” ufficiali che dovrebbero immortalarne i momenti cruciali. Nell’epoca dell’intellettuale massa, non ci sono più gli intellettuali. Solo un democraticissimo cicaleccio orizzontale di gente che twitta a tutto spiano. Ma la trasformazione antropologica di un territorio, non te la raccontano i social network o “Youreport”.

Cosa cambia, da queste parti, in definitiva (perché un sisma è sempre uno spartiacque solenne)?

Se eri attento alla forza delle cose, potevi accorgerti che il terremoto era già cominciato da tempo, almeno 4/5 anni fa. Il terremoto era la crisi, serpeggiante, insistente, che rosicchia i bordi del tessuto urbano e produttivo, e punta dritto al centro, alla sua coesione, alla sua ragione sociale. Già ampiamente terremotato era il meccanismo d’integrazione sociale che non integra più niente; era già scardinata la tenuta produttiva dei Distretti e della piccola-media manifattura, che prima aveva flirtato con la globalizzazione e oggi ne viene travolta; già pesantemente lesionata era l’etica del lavoro, l’unica cinquantennale religione che aveva permeato queste laicissime terre. Il Modello Emiliano se ne stava già andando, languido, lento, come un meccanismo sbeccato che non gira più. Le botte continue di questi giorni accelerano i processi e sottraggono residue sicurezze a gente già perplessa e disorientata.

Le scosse ci mettono davanti alla realtà nuova.

Non era zona sismica, questa.

Non era terra di disoccupazione.

Eppure la liquefazione della Padania – quegli inquietanti soffioni di mota sabbiosa, che irrompono nelle tavernette e nelle cantine, e sommergono dispense stracolme e pavimenti in cotto – proiettano un presagio oscuro sul futuro di tutti.

Si stava bene, nella Bassa. Non succedeva mai niente.

Giovanni Iozzoli

Alias, Il Manifesto, 16 giugno 2012

Pubblicato in Chi Siamo

Dopo l'emergenza, che ancora non è finita, e in mezzo alle numerose scosse che interessano quotidianamente le zone terremotate dell'Emilia, c'è bisogno di pensare a come ripartire. Giuseppe Morrone, da Modena, ci parla di come la politica debba rendersi protagonista della rinascita, dando la priorità al lavoro e allo sviluppo, favorendo soprattutto la partecipazione dei cittadini e delle forze sociali diffuse.

 

Terremoto in Emilia Romagna: i compiti della politica tra emergenza e ricostruzione

Il terremoto che ha piegato ma non spezzato l'Emilia Romagna, sta mettendo a dura prova la vitalità di un territorio che, negli anni, ha dimostrato di essere all'avanguardia nella creazione di un ricchissimo tessuto di piccole e medie imprese e per gli elevati livelli di coesione sociale e convivenza civile. Un tessuto industriale fatto di eccellenze e competenze diffuse e che, adesso, per ripartire ha bisogno delle fondamenta: risorse e spazi fisici, in primo luogo.

L'urgenza consiste, senza dubbio, nel dare un tetto ai cittadini delle zone più colpite dal sisma e da questo punto di vista le iniziative sorte per impegno dei gruppi di cittadinanza attiva - che stanno raccogliendo centinaia e centinaia di disponibilità di abitazioni sfitte o stanze inoccupate e offerte calmierate di camper e roulotte - si sposano alla perfezione con l'intenzione del Presidente della Regione Vasco Errani di puntare sul patrimonio abitativo inutilizzato per contrastare l’emergenza; una scelta giusta perché evita di rispondere ad un dramma con ulteriore consumo di suolo e soluzioni improvvisate, come accadde con le new towns abruzzesi, e permette quindi di dedicare tutte le risorse alla ricostruzione, mentre si restituisce un tetto a chi ne ha un bisogno immediato.

Ma non c'è soltanto questo aspetto.

In prospettiva, le maggiori preoccupazioni riguardano: la necessità di restituire dignità alle persone attraverso un lavoro sicuro, qualificato e stabile; la tutela dei cittadini dai tentativi di sciacallaggio che speculano su condizioni già drammatiche; l’intervento per scongiurare il disfacimento del tessuto produttivo e i rischi di delocalizzazione; una risposta rapida nella risoluzione dei problemi nei settori fondamentali della scuola e della sanità giacché molte strutture pubbliche risultano inagibili o deteriorate; la promozione di politiche industriali e sociali che rilancino, ripensino e finalizzino le produzioni; un rapporto equilibrato tra snellimento delle procedure e reintroduzione della logica del controllo pubblico nella definizione di norme per le costruzioni civili e industriali che siano adeguate al mutamento delle cartine sismiche nei nostri territori; il tornare a dare slancio e freschezza agli spazi ed ai significati della socialità e dell'interculturalità; il recupero possibile del patrimonio culturale ed artistico devastato perché storia, memoria, bellezza e cultura di una comunità non possono essere disperse.

Per mettere in campo le risposte adeguate, però, c'è bisogno di un largo processo partecipativo che affianchi le Istituzioni nelle scelte per convogliare le risorse - che giungono e giungeranno dai livelli nazionali e regionali - verso obiettivi condivisi e definiti; nonché di un'attenzione potenziata rispetto a possibili ed inquietanti presenze della criminalità organizzata nel percorso della ricostruzione. Il contributo delle forze sociali e politiche, dell’associazionismo e dei cittadini può essere decisivo e la scelta del decentramento - con il Presidente della Regione nominato commissario e i sindaci dei Comuni interessati dal sisma nominati vice-commissari - va in questa direzione.

Occorre, in sostanza, legare il progetto complessivo della ricostruzione al coinvolgimento diretto delle comunità interessate, ad esempio attraverso l’adozione della legge regionale 3/2010 sulla partecipazione fra gli strumenti da utilizzare, perché la qualificazione della democrazia come metodo inclusivo di governo è un fattore decisivo di garanzia di qualità della ricostruzione, all’opposto di recenti esperienze che hanno fatto dell’emergenza la condizione di sottrazione alle normali regole e controlli, con le conseguenze che tutti conosciamo.

Avrebbe senso, ancora, porsi la domanda su come impostare, nei contenuti, il percorso della ricostruzione.

Ovvero provare a riflettere, pubblicamente, sul nostro modello di sviluppo economico, ambientale e sociale. Dalla messa in sicurezza del territorio quale prima e indifferibile opera pubblica, al porre in discussione la priorità di certe opere infrastrutturali (si pensi, per i territori interessati, all'autostrada Cispadana); dalla promozione di stili di vita sobri e sostenibili, al come garantire piena ed effettiva sicurezza (fisica ed economica) per le persone che lavorano: perché non sono le esigenze del mercato, bensì la sicurezza a rappresentare la prima misura del lavoro.

 

 

Giuseppe Morrone (1984) è nato e cresciuto a Caggiano (Sa). Nel 2003 si è trasferito a Siena dove si è laureato in Scienze della Comunicazione. Dopo la laurea triennale si è trasferito a Modena e si è specializzato in Storia dei conflitti nel mondo contemporaneo, conseguendo la laurea magistrale nell'aprile del 2012 con una tesi sul nesso saperi-lavoro nel pensiero di Bruno Trentin. Ha scritto per il Corriere di Siena, Liberazione, Micromega e L'Unità.

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