Pubblichiamo un articolo, scritto in occasione del 37esimo anniversario del terremoto in Campania e Basilicata e uscito su Lo Stato delle Cose il 13 dicembre 2017.
Le fotografie sono di Michele Amoruso, il testo è di Stefano Ventura.
Quando uno storico deve raccontare una scossa di terremoto, per non rischiare di ridurre a dati asettici e freddi la sua esposizione può ricorrere alla diretta voce dei testimoni e protagonisti; per raccontare uno shock, col suo carico di conseguenze e di implicazioni emozionali, le parole di chi quello shock lo ha provato direttamente sembrano essere più efficaci delle analisi esterne.
Dai racconti orali raccolti emergono alcuni elementi comuni, dettagli e similitudini che aiutano senz’altro lo studioso a tentare una mappatura complessiva delle comunità colpite e interessate dal sisma, anche se per sua stessa natura la testimonianza orale è una fonte delicata, da maneggiare con cura (Bonomo 2013 e Portelli 2007).
Quello più evidente è sicuramente la cesura, il prima e il dopo che il terremoto crea, una separazione netta che divide due epoche, due periodi diversi se non opposti nella biografia di ognuno. A maggior ragione, questa divisione è sancita dalla perdita di persone care, che si aggiunge alla perdita dei riferimenti fisici, dei luoghi e degli spazi della socialità e della vita comunitaria. Come afferma Gabriella Gribaudi, “il terremoto è una cesura che segna la vita delle comunità e delle persone. E la cesura è amplificata dalla memoria. La memoria scandisce il tempo in un prima e un dopo, dilatando le dinamiche che normalmente insorgono con il passare degli anni. Prima c’è la comunità intatta, armoniosa, felice, dopo c’è la disgregazione, la corruzione. […] La nostalgia si colora delle immagini della socialità perduta, della piazza, del vicinato” (Gribaudi 2010, p.88).
Il protagonista delle testimonianze riportate di seguito è il terremoto che colpì il 23 novembre 1980 Campania e Basilicata; le persone intervistate abitavano nei paesi del Cratere.
“Di quei terribili momenti ricordo la scossa interminabile, ma siccome casa mia rimase illesa, così come quella vicina, non ci sembrava che fosse successo niente di grave. Quando però uscimmo fuori e ci girammo verso la piazza, si presentò ai nostri occhi questa immagine: un immenso polverone bianco, spaventoso, macerie ovunque, uno sconvolgimento totale. Nel giro di dieci minuti fummo ricoperti di polvere, sembravamo mugnai, eravamo completamente bianchi. C’era una luna che ti sfidava, che illuminava le macerie, beffarda” (Testimonianza di Arcangela Garofalo, in Ventura 2010, p. 40).
Prima del terremoto le province di Avellino e Potenza erano tra le più povere d’Italia, zone di emigrazione e d’isolamento, eppure nel ricordo di chi le aveva conosciute prima della distruzione provocata dal terremoto emergono descrizioni piene di riferimenti ad ambienti umanamente solidali, comunità coese e semplici.
«Che ti devo dire di ‘sto terremoto, c’ha segnato, c’ha segnato tanto, più che altro perché c’ha levato tutto. Torella era un paese bellissimo prima del terremoto, ci riunivamo in piazza, era piacevole, era proprio bello, poi si è disgregato tutto, chi è partito da una parte, amicizie spezzate, tante cose che adesso, così, da descrivere sono difficili, non riesco. Però è vivo, come ricordo è vivissimo» (Testimonianza di Maria Teresa Imbriani, in Ventura 2013, pag. 113).
«Prima che ci colpisse il terremoto, eravamo una grande famiglia, la quotidianità si condivideva nei quartieri, era un’unica casa. Si lasciavano le porte aperte. Ricordo che la vicina entrava a casa di mia nonna anche quando lei non c’era per lasciarle l’insalata. Oggi lei continua a tenere la porta aperta ma io le dico che deve chiuderla a chiave» (Caruso 2011, p. 132).
Franco Arminio, scrittore irpino che ha incentrato la sua produzione sui paesi e la paesologia, sintetizza in questa massima che parafrasa Tolstoj il senso di paradiso perduto: “Forse le cose stanno così: una volta si era tristi tutti insieme, adesso ognuno è triste per conto suo”(Arminio 2003).
Non è raro trovare, tra le parole che spiegano un imbarbarimento del dopo rispetto al prima, l’arrivo dei soldi della ricostruzione e la creazione di corsie differenziate per accedere a finanziamenti, posti di lavoro e incarichi pubblici. Questa è la descrizione che il parroco del comune di Teora (Avellino), uno dei centri più colpiti, ci restituisce, parlando del periodo della ricostruzione:
«Della ricostruzione devo dire che ho un giudizio purtroppo negativo: non ci si saziava mai; nella ricostruzione privata soprattutto, ricordo come il paesaggio delle campagne, che erano state colpite in maniera molto minore rispetto ai centri urbani, cambiasse e si arricchisse di costruzioni nuove e a volte sontuose. Sicuramente non ci fu sincerità nel dichiarare i danni, e i risultati non sono stati fedeli alla situazione preesistente: chi aveva qualcosa si è ritrovato con molto di più, se ci ha saputo fare; chi aveva molto si è ritrovato con poco.
Anche io condussi la mia battaglia affinché la Chiesa fosse costruita in quello che sarebbe diventato il nuovo centro del paese, e non in posizione marginale. Fui sconfitto. Prima e dopo il terremoto cambiarono i rapporti umani, il terremoto ha segnato una specie di spartiacque. Chi ha avuto i morti ha pianto ed è rimasto scosso, dimostrando a volte una dignità esemplare. Altri hanno imparato ad approfittarsene, se avevano perduto solo la casa o, a volte, neanche quella» (Testimonianza di Don Donato Cassese, Ventura 2006, p. 256).
Le persone più semplici, invece, parlano della ricostruzione come di una lunga attesa nella quale cercare un fioco legame con il proprio mondo prima “dell’apocalisse”:
«Abbiamo atteso la ricostruzione a Materdomini vivendo a casa di una zia. Con mio padre scendevamo in macchina tutte le sere per passeggiare e riappropriarci del nostro luogo. Ci avvinghiavamo alla pietra. Quando però vedevi le erbacce crescere tra le macerie ti accorgevi di quanto tempo stava passando senza che nulla accadesse. E perdevi la speranza» (Caruso 2011, pag.115).
Chi aveva perso, tra le macerie delle case e dei palazzi crollati, parenti e familiari, si rifugiò a volte in una dimensione intima del ricordo che si scontrava e si divaricava dalla vita comunitaria, in ogni sua forma; ogni momento di possibile incontro con la propria comunità diventa il momento in cui si rievoca l’assenza delle persone e dei luoghi di prima, ma allo stesso tempo sembra esserci un senso di colpa per quel vuoto di partecipazione.
«Da quel momento io ho vissuto ventiquattro anni di rifiuto, una sorta di risentimento verso il mio paese, mi sentii sradicata, vedevo la disgregazione di quella comunità e mi sentivo comunque colpevole per la mancanza del mio contributo alla comunità. Per ventiquattro anni ho avuto un rifiuto quasi totale a fare qualsiasi forma di vita sociale, e ancora oggi sento la stessa difficoltà» (Testimonianza di Arcangela Garofalo, in Ventura 2006, p. 253).
Esistono molti altri versanti da affrontare, sulle forme che la memoria e la rievocazione assumono in relazione al terremoto; uno di questi è quello riguardante la memoria dei volontari e soccorritori giunti in massa in Irpinia e Basilicata, dopo le prime, lunghe ore di assenza di soccorso, per portare aiuti e supporto ai terremotati. In questo caso la memoria assume un contorno eroico, uno spaccato momentaneo di vita in cui si decide di dedicare energie e attenzione a persone in difficoltà, sotto shock per la perdita di persone e luoghi cari.
«Il viaggio di ritorno l’ho fatto su un furgone della Croce Rossa, sdraiato dietro su scatoloni di attrezzature. Ero ridotto da sembrare un profugo sfuggito da una zona di guerra. Stivaloni di gomma, giacca a vento e pantaloni lerci, capelli arruffati, barba lunga incolta e zaino militare in spalla pieno zeppo di indumenti sporchi di fango ormai seccato. Attaccato alla giacca, tenevo in bella vista il tesserino di riconoscimento con la mia fotografia dove si poteva leggere “Colonna Mantovana Soccorsi Pro Irpinia”. Lo tenevo in bella vista appuntato sul petto per non essere scambiato per un barbone, ma soprattutto lo tenevo lì per orgoglio» (Testimonianza di Vincenzo Cantarelli, in Gribaudi, Zaccaria 2013, p. 66).
La costruzione della memoria del terremoto e della ricostruzione del 1980 è un processo ancora molto debole. Questa fatica dipende da molti fattori; sicuramente il ritardo e i tempi lunghi della ricostruzione hanno tenuto impegnati privati cittadini e istituzioni fino a qualche anno fa e in alcuni casi continuano a impegnarli, magari distraendo da altre operazioni culturali di tutela e trasmissione di forme memoriali. Molti protagonisti, inoltre, hanno occupato e occupano la scena pubblica del doposisma, rendendo più difficile un complessivo esame dei fatti e dei processi. Ma la debolezza dei tentativi di ricostruzione di una memoria di questo evento è da cercare anche nella rimozione individuale di chi non riesce a rivisitare il dolore, lo shock della perdita e il senso di sconfitta di una ricostruzione in chiaroscuro. I ricordi vengono confinati a una dimensione privata e intima, che in occasione degli anniversari diventa comunitaria ma che non sana le divisioni di cui parlavano le testimonianze citate in precedenza.
La faticosa costruzione di memoria, che a volte assume i contorni della rimozione e dell’oblio, diventa pericolosa perché l’interruzione della trasmissione di conoscenze e saperi, anche in forma orale, tra generazioni che abitano luoghi ad alta pericolosità sismica, rende meno resilienti i cittadini di quei luoghi. La memoria di un terremoto aiuta senza dubbio la prevenzione e aumenta la capacità diffusa di porre argine agli effetti catastrofici di un sisma.
L’altra domanda che emerge riguarda l’atteggiamento di chi è venuto dopo: cosa sa un ventenne, un adolescente di oggi, del terremoto, visto che non ci sono quasi più ruderi, macerie e insediamenti provvisori a costituire un monito visivo e una presenza del sisma?
Queste che seguono sono le riflessioni di un ragazzo lucano, che vive in uno dei paesi colpiti allora dal terremoto, Muro Lucano.
«Il terremoto è qualcosa di reale. È come se lo conoscessimo, dai racconti dei nonni e dei genitori. Ma non avvertiamo la stessa paura che avvertono loro. […] Il terremoto è stato uno spartiacque. Prima del 1980 c’era maggiore equità sociale. Nessuno aveva più soldi degli altri. Dopo il terremoto c’è chi ha costruito palazzi e chi è rimasto allo stesso livello. Il sisma ha portato anche un miglioramento, ma non per tutti. Chi è stato più furbo è andato avanti, le persone più semplici sono rimaste indietro»(Giuseppe Cardillo, in Lucantropi, 2012, p. 21).
«A me l’ha raccontato mia nonna. Si sentiva tremare la terra sotto i piedi. Si affacciò al balcone e vide il campanile della Chiesa di Sant’Antonio oscillare. Mamma, che studiava a Potenza, fu costretta a dormire per tre notti all’aperto. Corleto non ha avuto né morti, né feriti. La vita è continuata a scorrere così com’era prima. Con la sua monotonia. E tuttora si vive con la solitudine nei cuori ed abbiamo tutti lo sguardo vuoto di chi assiste impotente ad un terremoto senza fine, dove tutto finisce di vivere ma nessuno risorge». (Antonella di Noia, in Lucantropi, 2012, p. 16).
L’enorme flusso di soldi pubblici e interventi straordinari ha prodotto risultati circoscritti e limitati, rispetto alle promesse e alle previsioni. Oggi queste sono zone in cui lo spopolamento ha indici preoccupanti, così come il disagio sociale e la disoccupazione; il motivo è da ricercare in errori di calcolo più o meno consapevoli nella scelta di investire risorse in progetti industriali affidati a soggetti estranei alle zone terremotate e inquadrati in un disegno non radicato territorialmente e non collegato alla situazione socioeconomica preesistente. Inoltre, ha pesato non poco la connivenza tra politica, imprenditoria e malaffare, che ha tirato le fila dell’apparato pubblico a livello locale e nazionale per diversi anni, in assenza di controlli e inchieste giudiziarie realmente efficaci prima dell’inizio degli anni ’90.
Forse la voglia di ricordare, sia nei giovani, sia in chi c’era già nel 1980, è poca proprio perché le urgenze e i problemi del presente sono più pressanti e stringenti. La ricostruzione della memoria di quell’evento dimostra quindi di essere doppiamente difficile: chi ha vissuto l’evento e il dolore a esso collegato si rifugia nell’intimità familiare e comunitaria del ricordo. Chi è venuto dopo e dovrebbe esigere chiarezza sugli effetti prodotti dalla ricostruzione vive l’inquietudine e il disagio dei problemi di oggi.
Servirà ancora tempo, probabilmente, per mettere a confronto una memoria diffusa, fatta di tanti spaccati individuali, di tanti segmenti non dialoganti, che faccia da controcanto rispetto a una narrazione pubblica e mediatica forte, che si è alimentata ad ogni terremoto perché ha fatto dell’Irpinia l’esempio da non seguire. Anche se difficoltosa, però, quest’operazione meriterebbe di essere affrontata con energia.
Bibliografia
Arminio F. 2003, Viaggio nel Cratere, Sironi editore, Milano.
Bonomo B. 2013, Voci della memoria. L’uso delle fonti orali nelle ricerca storica, Roma, Carocci editore.
Carnelli F, Ventura S. (a cura di) 2015, Oltre il rischio sismico. Valutare, comunicare, decidere, Roma, Carocci editore, 2015.
Caruso T. 2011, Un popolo da ricostruire. A trent’anni dal terremoto, fiducia e mutamenti sociali in una comunità irpina, in «La fabbrica del terremoto. Come i soldi affamano il Sud», Rapporto 2011 dell’Osservatorio sul Doposisma – Fondazione Mida, Pertosa (Salerno), Edizioni MIdA.
Gribaudi G, Zaccaria A.M. (a cura di) 2013, Terremoti. Storia, memorie, narrazioni, Verona, Cierre edizioni.
Gribaudi G. 2010, Terremoti. Esperienza e memoria, in «Parole chiave», n. 44/2010.
Lucantropi. Tra il dito e la luna scelgo la luna, Pertosa (Salerno), a cura dell’Osservatorio sul Doposisma – Fondazione MidA, Edizioni MidA, 2012.
Portelli A. 2007, Storie orali. Racconto, immaginazione, dialogo, Roma, Donzelli editore.
Ventura S. 2006, Il terremoto dell’Irpinia del 1980. Storiografia e memoria, in «Italia Contemporanea», n.42/2006.
Ventura S. 2010, Non sembrava novembre quella sera, Atripalda, Mephite edizioni.
Ventura S. 2013, Vogliamo viaggiare, non emigrare. La cooperazione femminile in Irpinia dopo il terremoto, Avellino, Edizioni di Officina Solidale.
In una data simbolo, il 23 novembre, a distanza di 37 anni dal sisma del 1980, il Comune di Palomonte vuole ripartire dalla bellezza. A ridare anima e dignità alle macerie, a restituire luoghi e storia alla comunità di questo paese fortemente danneggiato – non tanto da quella terribile scossa ma dalla ricostruzione post-sisma –sarà un progetto dal forte impatto emotivo e culturale: “Sussulti. Storie di terra e umanità”. Prendendo spunto da azioni di rigenerazione urbana divenute modello virtuoso a livello internazionale, come il caso di Tirana e la siciliana “Farm Cultural Park”, l’obiettivo del progetto “Sussulti” sarà quello di far diventare il paese dell’Alta Valle del Sele meta turistica di interesse nazionale, rimarginando con l’arte le ferite del terremoto, dando nuova veste agli scempi architettonici e urbanistici recenti, colorando i principali centri abitati del paese con nuove storie di terra e umanità legate tra di loro dalla speranza e dal desiderio di rinascita.
Il paese diverrà una quinta per l’esposizione dei diari autobiografici degli italiani, custoditi dall’Archivio di Pieve di Santo Stefano. Le strade, i quartieri, le frazioni del comune avranno un tema portante legato alla storia del Novecento fino ai giorni nostri (La grande Guerra, il fascismo, la rivoluzione industriale, gli anni dell’emancipazione femminile etc.).
Le premesse di una rivoluzione urbanistica e culturale ci sono tutte e saranno presentate nella sala di rappresentanza del Comune giovedì 23 novembre alle 16 alla presenza di personalità illustri e futuri partner del progetto. All’evento, coordinato dal giornalista de “Il Fatto Quotidiano” Antonello Caporale, parteciperanno: il sindaco di Palomonte Mariano Casciano, Natalia Cangi, direttrice dell’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano, Erasmo D’Angelis della struttura di missione “Italia Sicura” della Presidenza del Consiglio dei Ministri, Franco D’Orilia, presidente della Fondazione MIdA, Corrado Matera, assessore regionale allo Sviluppo e Promozione del Turismo e Maria Rita Pinto, docente di Tecnologia dell’Architettura dell’Università di Napoli “Federico II”. Concluderà l’incontro Evelina Christillin, presidente dell’Ente Nazionale per il Turismo.
Spulciando tra le cartelle virtuali del mio computer ho avuto modo di passare in rassegna le tante immagini raccolte nel tempo a proposito del terremoto del 1980; serviva a cercare qualche foto di corredo a un articolo in uscita il 23 novembre su Lavoro Culturale (www.lavoroculturale.org/Sismografie).
Il deja-vu è stato quello di indovinare quale paese era protagonista delle macerie delle varie foto e pensare oggi a quegli stessi angoli e scorci. Già questo esperimento, da solo, rende evidente la portata di distruzione di quel sisma, quello al quale ho dedicato anni interi di studio e di ricerca.
Nei mesi scorsi varie scosse hanno coinvolto altre regioni italiane, posti bellissimi sono stati sconquassati e buttati all'aria dall'ospite inatteso col quale conviviamo da secoli e col quale ancora non abbiamo imparato a fare i conti.
Mi è capitato di confrontarmi di persona, telefonicamente o virtualmente con giornalisti, tecnici o ricercatori che stanno ragionando su cosa è successo nelle zone terremotate dopo le scosse del 24 agosto e del 30 ottobre, aprendo paralleli con la sera del 23 novembre 1980 e quei 90 secondi di tremito tellurico. Sembra che chi possiede un minimo di conoscenza sull'argomento debba dare risposte definitive, come un oracolo, su cos'è il terremoto, come si ospitano i senzatetto, come ricostruire bene e come si evitano gli scandali e le ruberie. E' la ricerca spasmodica della rassicurazione dell'esperto da ingerire come un ansiolitico per far passare la paura.
Ma chi può avere risposte rassicuranti e definitive? Altre domande che ho ascoltato chiedevano di sapere al centesimo quante lire o euro erano state spese per la ricostruzione in Irpinia e Basilicata. Anche qui la complessità della risposta non era soddisfacente, non si adattava bene a un tweet o a un post di Facebook.
Mi è capitato di ascoltare decine e decine di racconti sul terremoto, sulla terribile notte del 23 novembre, sul dolore della perdita di persone care e luoghi familiari, sulla rabbia dei lunghi anni di prefabbricati e lavoro promesso e sperato, su risultati architettonici e urbanistici estranei ai propri valori. E' tutto troppo complesso, è una dimensione più intima che pubblica e non trova, infatti, segni tangibili che ci aiutino a commemorare (musei veri, archivi, progetti di sensibilizzazione e tutela).
L'altra sensazione forte, in questo anniversario, riguarda il destino del nostro Appennino. Dobbiamo capire cosa farne, dei nostri piccoli paesi, se li riteniamo una risorsa o un peso, se la popolazione che vive sulle montagne italiane (11 milioni di persone) ha la stessa dignità di chi vive a Roma, Milano, Napoli, Torino e se gli si deve prestare attenzione o ignorare il grido soffocato di disperazione quotidiana. La mappa dei terremoti più recenti degli ultimi 50 anni coincide quasi perfettamente con la mappa del disagio demografico e civile. Per questo “il modo migliore di ricordare i morti è pensare ai vivi”.
di Stefano Ventura
Il 23 novembre segna l'anniversario del terribile terremoto che una domenica sera portò via 2914 irpini, campani, lucani e sconvolse la vita a centinaia di persone. Sono passati 35 anni, un periodo tale da poter considerare alle spalle la ricostruzione, ma che non ha certo sanato ferite profonde, tra contraddizioni, errori e progetti più o meno riusciti.
Come ogni anniversario, la commemorazione può e deve servire per ricordare e per valutare il percorso compiuto; molti preferiscono il ricordo privato, la dimensione intima del dolore, ma a livello pubblico bisogna interrogarsi su come le comunità interpretano e mantengono traccia di cosa è successo, degli errori e delle cose buone.
Sulla memoria del terremoto è uscito un recente saggio in un libro che parla di disastri dal punto di vista etnografico e sociologico. Di certo si alternano diverse opinioni, da quelle di chi dice: “Ancora a parlare di terremoto?” a chi grida allo scandalo totale gestito dai soliti intrallazzatori, fino a chi candidamente pensa che non sia successo niente, anzi, la ricostruzione sia stata un toccasana.
La cosa più evidente è l'assenza di forma e sostanza nel tutelare e trasmettere il ricordo, le testimonianze e i dati relativi a quell'evento e alla ricostruzione. Nessun memoriale, ovvero tanti piccoli luoghi disseminati e sporadici, nessun progetto collettivo e a lungo termine, nessun discorso interpretativo che possa essere fatto proprio dai sopravvissuti e da chi è rimasto.
Oggi l'Irpinia (mi limito alla zona più colpita, che conosco relativamente meglio) è un'area in forte decrescita demografica, con una popolazione dall'età media alta e con gli enormi problemi delle aree appenniniche marginali. Da diversi mesi di parla di un Progetto Pilota che possa dare respiro e rilancio, a partire da quattro capisaldi (scuola, sanità, trasporti e sviluppo, http://www.dps.gov.it/opencms/export/sites/dps/it/documentazione/Aree_interne/STRATEGIE_DI_AREA/Bozza_della_strategia/bozza_strategia_alta_irpinia.pdf).
Sembra un percorso obbligato, quello di confrontarsi tra amministrazioni e “portatori di interesse” per trovare una parvenza di progetto comune da perseguire.
Alcuni tentativi, anche ben riusciti, hanno portato quest'area all'attenzione di una platea più ampia, nazionale; uno dei libri candidati al premio Strega, il “Paese dei Coppoloni”, è una specie di poema epico di queste terre, un incrocio tra mito popolare e legame con la terra e le radici. Capossela ha organizzato per il terzo anno lo Sponz Fest, con numeri e contenuti di ottimo livello.
Per contrasto, quelle stesse zone sono al centro di recente di un allarme reale sul legame tra minacce malavitose e eolico. La minaccia delle trivellazioni, a poca distanza dalle vigne dove si producono vini che hanno buoni risultati sul mercato, è un'altro controsenso da sciogliere.
Ci sono anche segnali che andrebbero analizzati sull'identità irpina, visto che ci sono espressioni della società che provano ad affermarsi per difendere il territorio (termine del quale si fa uso e abuso). Cito solo un tentativo, quello di alcuni ragazzi che hanno formato un'associazione che si chiama “Io voglio restare in Irpinia” (https://www.facebook.com/iovogliorestareinirpinia/?fref=ts). Questi ragazzi, in gran parte, non hanno però vissuto gli anni dell'infamia di essere terremotati assistiti e approfittatori di fondi statali, agli occhi dell'opinione pubblica nazionale, e anche questo è un punto interrogativo aperto.
Più semplicemente, la data del 23 novembre serve a ricordare e riporta anche a un pensiero primitivo, il rapporto tra l'uomo e la terra sulla quale vive, l'ambiente che lo accoglie e le forme sociali che servono a renderlo ospitale e che riempiono di senso il termine comunità: noi dovremmo ricordarci di essere una comunità ferita e guarita da uno squarcio durato 90 secondi, una sera di novembre di 35 anni fa.
Ci sono luoghi dai nomi tristemente noti, e ai quali si associa subito un ricordo nefasto; è il caso di San Giuliano di Puglia, dove morirono 27 bambini nel crollo di una scuola costruita colpevolmente male. Lo stesso è per Capaci, macchiata dal sangue indelebile di un magistrato, di sua moglie e della sua scorta, o per Vermicino, che fu teatro della prima suspense in diretta tv, la caduta nel pozzo del piccolo Alfredino Rampi nel 1981.
Sono troppi i luoghi e i nomi associati a eventi e situazioni tragiche, nella storia d'Italia. Pochi, però, hanno la potenza evocativa del Vajont, un fiume che scorreva in una valle e che si pensò di sbarrare con una diga per alimentare il sogno di potenza dell'Italia del miracolo economico.
Decido di andare a Longarone, Erto e Casso per una sorta di obbligo morale; avevo preso confidenza con questa storia attraverso carte, fotografie, testimonianze e libri per preparare una relazione in una conferenza di storia dell'ambiente a Monaco di Baviera.
Il caso del Vajont è stato certificato, nel 2008, dalle Nazioni Unite come uno dei cinque disastri più gravi mai provocati dall'azione umana, 1910 morti in quella notte del 9 ottobre 1963.
Per raggiungere Longarone, provenendo da sud, si attraversa il cuore del Veneto e l'ultimo lembo padano di pianura per assaporare le montagne dolomitiche e le loro valli, lasciandosi alle spalle quel tessuto di piccole e grandi fabbriche del nordest, una locomotiva che ora arranca, e con ancora qualche campo coltivato in mezzo alla sequenza di cemento e asfalto. Longarone è sulla rotta per Cortina, ci arrivo in un fine agosto di rientro vacanziero. Non so bene cosa cercare e cosa aspettarmi, perché so che anche la memoria di questo disastro è stata scandita da tappe controverse e dolorose.
Nella piazza del paese, che guarda dritto in faccia alla gola nella quale si scorge la diga, si affaccia un edificio che ospita il museo, gestito dalla Pro Loco di Longarone.
“Longarone-Vajont, attimi di storia” s’intitola la mostra permanente con ingresso a pagamento. La dichiarazione scandita dal messaggio posto all'ingresso è inequivocabile: “leggerezze imperdonabili, arroganza dei poteri, silenzi della stampa, assenza di controlli, gravissime omissioni”. Il museo è ordinato ed efficace, ci sono tutti gli elementi per conoscere per bene cosa è accaduto; sento nei miei accompagnatori lo stesso magone misto a indignazione che provo io. Le testimonianze dei superstiti sono vivide e toccanti e parlano nella lingua semplice ma diretta della gente di montagna.
Ho scoperto, prendendo confidenza con la storia del Vajont, che il trauma di chi è rimasto ha tracciato anche un solco che divide persino i “sopravvissuti” dai “superstiti”, una diversa tonalità di dolore e quindi di recriminazione verso lo Stato, la SADE o Enel o le autorità locali e nazionali. “Parlare del dolore non è facile, il dolore si vive”, c'è scritto sul muro della sala che accompagna all'uscita. E' proprio così; mancano sempre termini al vocabolario che tenta di narrare la sofferenza.
Saliamo verso la diga, per circa 4-5 chilometri, dove a maggio il Giro d'Italia ha voluto esserci con l’arrivo di una tappa. C'è molto movimento nel piazzale del parcheggio, quello dal quale l’attore Marco Paolini ha rievocato, in diretta TV per 4 milioni di italiani, le vicende di un dramma finito nell'oblio, di 1910 vittime spazzate via in pochi minuti da 50 milioni di metri cubi d'acqua, rocce e detriti.
Per la visita guidata ci affidano a un “informatore della memoria”, un ragazzo del posto, che ci racconta tappe e cronache della costruzione di un sogno ingegneristico costruito nonostante la voce della tradizione e del luogo diffidassero dalla sfida al gigante. Il gigante è il Monte Toc, che in friulano prende in nome da “patoc”, “marcio”. Ma non c'era tempo da perdere, l'industria nazionale ha bisogno di elettricità, e costruire una diga sul corso del fiume Vajont può fornirne tanta.
Il sogno inizia nel 1925, con Mussolini e con il conte Giuseppe Volpi di Misurata, creatore della SADE (Società adriatica di elettricità) e presidente di Confindustria negli anni del regime. Ma è nell'ottobre 1943, con il re e Badoglio fuggiti a Brindisi e l'Italia lacerata dalla guerra, che in un corridoio ministeriale romano viene firmata la prima autorizzazione al progetto, realizzato dall’ingegnere Carlo Semenza. Tra il 1957 e il 1959 si lavora alla diga; nel 1960 si stacca una prima frana, ma siccome non si registrano morti, la SADE non ritiene di desistere dal continuare a tenere attiva la diga e a mantenere acqua nell’invaso; la società risponde abbassando la quantità di metri cubi quando la gente della valle protesta e alzandola quando tutto si sopisce. Ma la montagna inizia a cedere, gli allarmi sono più che fondati e anche i geologi di parte lo sanno; Tina Merlin scrive su “l'Unita” documentando tutto, ma viene portata in tribunale per disturbo della quiete. “Magari l'avessi disturbata davvero, la quiete”, dirà poi.
La nostra vertigine di attraversare la diga è unita alla consapevolezza degli effetti tragici di quel disegno scellerato di oltraggio alla natura. La collina che si è formata con la terra scivolata a valle dopo la frana è al centro dell'invaso, ora, ma la faglia a forma di M domina come una cicatrice sul fianco del Monte Toc.
Tra i dati significativi annoto il numero di visitatori che ogni anno sale sulla diga: 220 mila, un numero molto alto, che testimonia un omaggio silenzioso degli italiani, e non solo, a un luogo oltraggiato e ferito a morte.
Attraversando l'abitato semideserto di Erto, il paese più volte narrato dallo scrittore Mauro Corona, la faglia s’intravede sullo sfondo. Qui le case sono state in parte ristrutturate, anche grazie ai risarcimenti che l'Enel ha dovuto concedere ai comuni e ai parenti delle vittime, ma solo dopo il 1997. Ora quei soldi sono in parte fermi per il patto di stabilità. Longarone, invece, ha una struttura urbanistica anonima; la chiesa di Michelucci è imponente ma non sembra sia stata del tutto accettata dai cittadini. Molti palazzi sono a più piani e da periferia urbana, proprio come in tante altre ricostruzioni da post-disastro in Belice, Irpinia e così via. La direzione progettuale di Giuseppe Samonà, insigne professore veneziano, è stata in parte disattesa; Samonà all’epoca disse : “ora abbiamo costruito periferie, dobbiamo tramutarle in città”. Non sembra questo il risultato, e questo è un altro dei colpi inferti alla comunità ferita.
A Fortogna c'è, poi, il cimitero che ospita i morti del Vajont, un cimitero monumentale che assomiglia a un sacrario di guerra, con tutti i cippi sui quali sono segnati i nomi, allineati in una distesa di puntini bianchi. E' il giusto compendio agli altri luoghi visitati in questa visita, il conteggio visibile delle vittime di quella tragedia annunciata.
La sensazione è che, nonostante le divisioni, qui si abbia ben presente che si può intervenire per commemorare in maniera equilibrata, senza abbagliare né trascurare. Dallo spettacolo di Paolini in poi la tragedia del Vajont ha vissuto una nuova fase, una rielaborazione del lutto sia per gli abitanti di questi posti sia per l'Italia e le sue istituzioni. E' nata una fondazione nel 2003, la fondazione Vajont, che ora sta costruendo le attività in vista del 50esimo anniversario.
Tra le iniziative, il comitato dei sopravvissuti ha proposto di mischiare tutte le zolle di terra che arriveranno a Longarone da ogni parte d’Italia e del mondo in una “Aiuola monumento di solidarietà” a sancire una rinascita da quella stessa terra che si staccò dal monte Toc.
I posti bagnati da sangue innocente diventano sacri, dice un motto e una tradizione ebraica. Non è stata solo la barbarie della guerra, la crudeltà dell'uomo verso il suo simile a spargere sangue che si sarebbe potuto salvare. Anche inseguire la divinità del progresso inarrestabile, anche di fronte a leggi millenarie della natura, anche la superficialità e l’omissione colpevole di norme e tecniche di costruzione ha avuto troppi effetti nefasti. Andare a trovare luoghi come Longarone, come l'Aquila, San Giuliano di Puglia, Gibellina (nel Belice) e Laviano (in Irpinia) serve da ammonimento per porre l'orecchio a quel dolore che vive, anche 50 anni dopo.
Per saperne di più:
www.vajont50.it
www.vajont.info
www.orent.it
Riportiamo la testimonianza di Barbara Vaccarelli pubblicata sul volume Territorio e Democrazia: un laboratorio di geografia sociale nel doposisma aquilano (L’Una, 2012 - a cura di Lina M. Calandra). Il volume è stato presentato nell’ambito del Seminario itinerante sui luoghi del cratere aquilano (3-5 maggio 2013) promosso dalla Società Geografica Italiana e tra le varie iniziative è stato coinvolto anche l'Osservatorio sul Doposisma.
Non credo che ci sia, oggi, un'altra maniera di salvarsi l'anima. Si salva l'uomo che supera il proprio egoismo d'individuo, di famiglia, di casta, e che libera la propria anima dall'idea di rassegnazione alla malvagità esistente. Cara Cristina, non bisogna essere ossessionati dall'idea di sicurezza, neppure della sicurezza delle proprie virtù: Vita spirituale e vita sicura, non stanno assieme.
Per salvarsi bisogna rischiare.
I. Silone, Vino e pane, 1975
A dicembre 2011 si apre all’Aquila Terre Memori: dall’Irpinia all’Aquila. I luoghi dei diritti negati, una rassegna letteraria e di studi sulle comunità del dopo sisma organizzata dalla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università dell’Aquila in collaborazione con L’Aquila e-Motion e l’Osservatorio permanente sul dopo sisma di Auletta-Pertosa. Tutti i libri e documentari presentati fino a oggi hanno concentrato l’attenzione su quanto sia importante non ripetere, qui e ora, gli stessi errori delle ricostruzioni decise 32 anni fa; su come si possa ripristinare (e forse reinventare) un nuovo senso di appartenenza che tenga unita la ricostruzione materiale a quella sociale; sul dovere di vigilare e impegnarsi per scrivere un nuovo capitolo nel territorio aquilano anche attraverso l’apertura verso quelle comunità che nei passati decenni hanno subito decisioni dall’alto.
L’Aquila e-Motion nasce nel 2010 come sito da un gruppo di amici decisi a creare un contenitore di idee, di spunti di riflessioni e anche un raccoglitore di memoria sulla scossa del 6 aprile 2009. Tra i tanti obiettivi del sito c’è quello di favorire lo scambio, la condivisione e il confronto delle idee. È questa nuova vita da terremotata che mi ha portato ad aprire orizzonti di confronto. Gli spunti sono infiniti se vai alla ricerca di chi ha vissuto un terremoto e se costui/costei sa indicarti come sarà tra una settimana, un mese, un anno la tua vita; cosa ti puoi aspettare e cosa ti sarà negato. Dopo aver subito la perdita della mia città il 6 aprile 2009, è stato inevitabile associare ciò che anni prima avevo visto in tv e sentito da tanti amici sulle conseguenze di quel 23 novembre 1980, a ciò che ora vivevo io. Ho capito che vivere un terremoto è fondamentalmente diverso dal sentimento di compassione e dolore che si prova quando lo si guarda da “fuori”. Con tutto l’impegno possibile non si riesce a comprenderne la portata e quanto ne possa essere travolta la vita, tua e della tua comunità. E la perdita di tutti i punti fermi che la sostengono.
All’inizio di questo percorso “emozionale” ho avuto la fortuna di conoscere all’Aquila Antonello Caporale in occasione della presentazione del suo libro Peccatori che dedica il capitolo “non uccidere” al sisma del 6 aprile 2009 con la testimonianza aquilana di Rossella Graziani. Da questo momento vengo coinvolta per il sito dell’Osservatorio permanente sul dopo sisma (di cui è direttore Antonello Caporale) che nel tentare di riannodare il filo della memoria dei luoghi colpiti dal sisma del 23 novembre 1980, si allarga agli altri terremoti italiani. L’Osservatorio, finanziato dalla Fondazione MIdA che destina allo scopo, in coerenza con gli obiettivi statutari, parte dei proventi derivanti dalle proprie attività, indaga e analizza le trasformazioni sociali, ambientali, economiche successive al sisma, promuovendo l’analisi e la ricerca scientifica in diverse discipline. È in questo contesto che ho la fortuna di conoscere i “figli del terremoto irpino”, impegnati nella ricerca sul territorio colpito dal sisma del 1980 per capire e ricostruire la storia del “prima” e della ricostruzione non ancora finita; per raccogliere testimonianze; per trovare un modo per ripristinare il meglio del passato proiettandolo in un nuovo futuro che promuova la cultura e le peculiarità dei territori che ancora vivono i segni del loro sisma, nel bene e nel male. È un gruppo di giovani ricercatori e giornalisti impegnati su tantissime tematiche riguardanti il territorio irpino, da quelle sociali a quelle economiche, con particolare attenzione a tenere sempre il filo che lega la memoria dei luoghi. Scrivono, pubblicano, documentano, filmano, denunciano, raccontano quello che non c’è più, quello che servirebbe a correggere – se possibile – le scelte sbagliate della ricostruzione sul loro territorio, stravolto per sempre insieme alla vita, ai paesi della Campania e della Basilicata.
Io sono nata e vivo all’Aquila, terra sorella dell’Irpinia anch’essa su quell’Appennino che ci unisce nel destino delle avversità e della voglia di rinascere dalla distruzione. Per noi qui sono passati poco più di 3 anni da quando abbiamo perduto i nostri luoghi, per gli irpini più di 30 anni. Non ho mai pensato di fare paragoni sui danni materiali, sulle vittime che questi due terremoti hanno provocato. Ho imparato a non competere su nessuna disgrazia e a pensare che dagli errori e dalla sofferenza provocata da uno Stato “distratto” verso le vite umane, dalle classificazioni sismiche sbagliate della dorsale appenninica, non possono che nascere dialoghi e scambi perché invece, rispetto agli sprechi, alle inefficienze è bene dire le cose come stanno. Nel giro di pochissimi mesi, nel terremoto dell’Aquila si sono spese enormi risorse come sul libro-inchiesta Terremoti S.p.A. di Antonello Caporale è chiaramente messo in evidenza con dati alla mano. Conta il contesto storico: 1980, periodo storico di grande impegno politico ma anche dell’economia che si avvia a declino; 2009, periodo che raccoglie gli esiti di 20 anni di berlusconismo. |
Da la Repubblica, 11 febbraio 2010: "... Alla Ferratella occupati di sta roba del terremoto perché qui bisogna partire in quarta subito, non è che c'è un terremoto al giorno". "Lo so", e ride. "Per carità, poveracci". "Va buò". "Io stamattina ridevo alle tre e mezzo dentro al letto". Colloquio telefonico all'alba del 6 aprile 2009 tra gli imprenditori Francesco Maria De Vito Piscicelli, direttore tecnico dell’impresa Opere pubbliche e ambiente Spa di Roma, associata al consorzio Novus di Napoli e il cognato Gagliardi. |
E conta il ruolo dei media: 1980, gli albori di Mediaset; 2009, l’impero di Mediaset. Ho imparato a capire in questi tre anni cosa riesce a fare la differenza sui trent’anni che separano le due “catastrofi”. Non è la tecnologia a fare la differenza visto che non c’è stata prevenzione né nell’uno né nell’altro caso e visto che il terremoto dell’Irpinia non ha insegnato nulla, o quasi, a questo paese. Negli anni ’80 non c’erano le intercettazioni telefoniche, in questi anni sì. In Irpinia subito dopo il sisma sono nati i comitati, anche all’Aquila. In Irpinia i sindacati furono molto attivi, qui no. Lì si occupò l’autostrada (“Terre in moto” documentario di Citoni, Siniscalchi, Landini 2006) e in alcuni centri storici si proposero ricostruzioni dal basso; qui, le 19 new town sono la prova concreta di una grande mangiatoia, dell’inganno di noi abitanti, dei massimi guadagni per alcune imprese del Nord: sembra che gli isolatori non siano antisismici! Ecco che di nuovo abbiamo toccato con mano che non siamo altro che carne da macello (Il fatto quotidiano, 23 luglio 2012). Dopo il terremoto del 1980 nasce la Protezione civile, quella che nel primo intervento sul cratere aquilano ha salvato moltissime vite, ma per il resto i terremoti restano campo privilegiato del malaffare: così è stato in terra irpina, così è in terra aquilana. Dall’Irpinia nasce, appunto, la Protezione civile organizzata, dall’Aquila parte una proposta di legge di iniziativa popolare “Legge di solidarietà nazionale per i territori colpiti da disastri naturali” centrata sulla prevenzione, attenta alla gestione dell’emergenza e alla questione dei fondi per la ricostruzione. La legge, se mai fosse stata approvata dal Parlamento (siamo ancora in attesa!), avrebbe avuto utilità e impatto su tutto il territorio nazionale. Equamente per tutti. Perché vorremmo che quello che sta accadendo a noi non accada più. Sono state raccolte 45.000 firme da tutta l’Italia e nell’attesa che qualcosa si muova, abbiamo dovuto assistere ad altre catastrofi registrando la morte di 37 persone a Messina, 6 a Genova e 26 in Emilia. Le conseguenze sono le solite, le misure di emergenza differenti e nulla insegna.
Tre anni fa tanti italiani sono stati convinti che L’Aquila non avrebbe avuto la stessa sorte dell’Irpinia, e devo ammettere che anche tanti miei conterranei si sono ostinati a crederlo. Un messaggio martellante: L’Aquila sarà interamente ricostruita. L’unica cosa certa, invece, è che anche qui la decisione di svuotare i centri storici e di allargare le periferie è stato deciso dall’alto. Nella sostanza, dunque, nessuna differenza. Neanche la presa di coscienza che questo è un paese fatiscente. Vanno giù scuole e ospedali, adesso come trent’anni fa, abitazioni nuove e interi palazzi costruiti nel 2000. In Emilia vengono giù capannoni industriali e migliaia – troppe – risultano essere le abitazioni inagibili. Muoiono operai, quasi tutti migranti in cerca di migliori condizioni di vita.
Nel mio viaggio a Romagnano al Monte “nuovo”, in Irpinia, tocco con mano quello che sento da 3 anni accadere qui: famiglie che vivono in prefabbricati di legno, da oltre 30 anni. Come afferma Antonello Caporale, l’Irpinia durante il post sisma ha avuto un riscatto storico dall’isolamento e dalla povertà, anche grazie alla messa in opera di infrastrutture e vie di collegamento, ma lì come qui si è sacrificato il patrimonio agricolo per la (ri)costruzione al costo dell’identità territoriale e della storia (Convegno-mostra, L’Aquila, 18 dicembre 2011).
Di geografia e paesi mi attira e mi conforta la lettura delle tante pubblicazioni di Franco Arminio, scrittore e poeta dell’Irpinia d’Oriente. Dentro la sua produzione letteraria si trova tutto il significato del terremoto: parla e narra del “post”, dei valori sui quali si dovrebbero basare le comunità tutte, in particolare le nostre duramente colpite dai terremoti, ricercandone le origini attraverso i luoghi e i paesaggi snaturati dalle più scellerate ricostruzioni. Nelle tante riflessioni che Franco Arminio generosamente regala ai suoi lettori, anche sul web (Comunità provvisorie), ritrovo tutte le preoccupazioni che invadono il nostro vivere nel cratere aquilano vittima della stesso destino irpino: “Se vesti la taglia 42, perché compri una 52?” (F. Arminio, Scuola di paesologia).
Cosa raccontare dei miei luoghi? Se è vero che esistono, allora io ne ho vissuti tanti, siano essi fisici o mentali. Ogni luogo col suo ricordo associato a un odore o a un suono, colorato o scolorito, luminoso o buio, distante o vicino. In condizioni di normalità uno stesso luogo può ricordarti quando eri giovane, oppure di averlo vissuto prima della nascita di un figlio e non esserci più tornato da lungo tempo, scoprendo però che in fondo quel luogo non è cambiato troppo; a volte semplicemente anche i luoghi invecchiano lentamente, e solo in certi dettagli si può vedere l’usura o l’incuria; invece a volte sono solo le stagioni a fare la differenza, ma nella sostanza restano immutati. Quel luogo del “prima” di un particolare evento lo trovi sempre là, nella stessa posizione, invecchiato o rinnovato, magari solo trasandato, o al contrario tirato a lucido e se riesci a tornarci, riconosci e rievochi ricordi di volti ed emozioni. È rassicurante tornare nei luoghi che hanno tracciato un vissuto e raramente queste terre le ho pensate rivolte al futuro, perché per esempio la mia è una città medioevale, almeno fino a 3 anni fa.
Della storia dei luoghi, dei luoghi della mia città, in realtà, ho avuto occasione di occuparmi tredici anni fa, quando sull’Aquila inizia un percorso editoriale promosso dall’associazione culturale “Territori” che nel 1999 pubblica il volume Sulle ali dell’aquila dedicato alla scuola primaria e distribuito gratuitamente alle classi IV e V. L’operazione si proponeva l’obiettivo di offrire un supporto per ampliare le conoscenze dei ragazzi sulla loro città. Oggi, è il caso di riprendere quel percorso per offrire uno strumento che, partendo da alcuni punti di riferimento spaziali e temporali, aiuti a maturare la consapevolezza storica e ambientale sul proprio territorio fatto di rotture e continuità. Fino al 6 aprile 2009, quando il terremoto ha segnato in modo indelebile la geografia e la socialità del territorio aquilano. Questo strumento didattico vedrà nella seconda edizione un coinvolgimento diretto dei bambini anche perché “Le situazioni d’emergenza e di post-emergenza causate da catastrofi interrogano l’orizzonte pedagogico e didattico su quali strategie attivare a fronte delle criticità che esse generano sugli individui” (Isidori, Vaccarelli 2012). Gli obiettivi che ci proponiamo di raggiungere alla fine di questo nuovo percorso sono, da un lato, fornire uno strumento didattico per insegnanti e alunni, che ripercorra la storia della città, teatro nel passato di avvenimenti che la memoria ha il dovere di trasmettere; dall’altro, rispondere all’esigenza di ricostruire il senso di appartenenza a un territorio che da secoli ha dovuto fare i conti con la ricostruzione di un doposisma.
Barbara Vaccarelli è graphic designer presso un’azienda del Gruppo Telecom, nel settore della formazione. Si occupa di grafica e comunicazione visiva nel campo istituzionale, di marketing e di siti web. Cura l’organizzazione di eventi e progetti editoriali, tra i quali il libro per la scuola primaria Sulle ali dell’Aquila. Un viaggio nella storia della città (I edizione 1999, ed. Territori), attualmente si sta occupando della seconda edizione, come presidente e socia fondatrice dell'Associazione Culturale "Territori".
Gli anniversari vanno sempre rispettati, specie se per molte comunità e per molte persone sono momenti in cui si corre con la mente a un evento luttuoso e tragico, il terremoto del 23 novembre 1980.
Le date da ricordare sono utili anche a guardare indietro e rendersi conto del cammino fatto, ma anche a fare una pausa per capire se il presente è realmente quello che ci aspettavamo e quale prospettiva di futuro si delinea all’ orizzonte.
Per i 36 comuni nei quali i danni furono disastrosi, e dove morirono circa tremila persone, il 23 novembre è ancora una ferita aperta, e 32 anni non sono bastati a ricucirla e a lenire il dolore.
Per l’Italia delle polemiche e dell’opinione pubblica alimentata a dovere dai media il terremoto dell’Irpinia significa ancora oggi scandalo, enorme spreco di denaro, ruberie e quei centesimi che ancora vengono pagati sull’ accisa sulla benzina.
E’ quello che è stato ricordato qualche mese fa in qualche servizio televisivo e giornalistico, quando il CIPE ha ripartito tra i comuni terremotati 33,4 milioni di euro per il completamento di opere e progetti collegati alla ricostruzione in Campania e Basilicata. Questi erano fondi decisi dalla finanziaria del 2007 e nel 2010 era stato formalizzato il decreto ministeriale, ma ancora non erano stati ripartiti tra i comuni per la realizzazione delle opere.
Alla notizia, su molti siti e su qualche giornale sono uscite parole di condanna e sdegno per l’ennesimo scandalo targato Irpinia, e ancor di più le polemiche si sono fatte sentire dopo il terremoto in Emilia, soprattutto per iniziativa della Lega Nord.
Sicuramente tutto il capitolo di spesa direttamente o indirettamente al terremoto e alla ricostruzione ha rappresentato una pagina difficilmente ripetibile per la quantità di denaro impiegata (più di 32 miliardi di euro) e per i tempi nei quali la ricostruzione è avvenuta.
Ma la memoria pubblica deve anche contemplare quei tremila morti dei paesi dell’Appennino, che abitavano in piccoli centri inadatti a sopportare una scossa così violenta (6.9 scala Richter) e che, per di più, dovettero aspettare tantissime ore prima di veder arrivare i soccorsi.
Una novità che si può cogliere, quando si parla di rischio sismico o dissesto idrogeologico, è il fatto che si sta parlando sempre più diffusamente di prevenzione, di piani complessivi per evitare che la prossima catastrofe ponga in pericolo l’incolumità di chi vive in territori a rischio. Si vedrà se alle buone intenzioni seguiranno azioni concrete, investimenti e progetti.
I dati dicono che il 36% dei comuni italiani è a rischio sismico e il 58% della superficie del paese è a rischio frana o alluvione. Dal 1944 al 2012, si è speso circa 3,5 miliardi di euro di media annua per i danni provocati da terremoti, alluvioni e frane ( sono i dati del rapporto ANCE sullo Stato del territorio italiano).
Nell’ultimo anno, dall’alluvione che ha colpito Genova il 4 novembre 2011 e la Lunigiana qualche giorno prima, fino alla sentenza sulla commissione Grandi Rischi a l’Aquila, passando per il terremoto in Emilia e a quello del 26 ottobre scorso sul Pollino, il problema di come fronteggiare e, se possibile, evitare i pericoli derivanti dai disastri è diventato di attualità e fatto comprendere che sono diversi i nodi da sciogliere.
Ad esempio, i comuni devono predisporre i piani di protezione civile, divulgarli, fare esercitazioni e lavorare affinchè funzionino. Quanti sono i comuni italiani che su questo aspetto sono pienamente in regola?
L’anniversario del 23 novembre 1980 serve a discutere, ancora una volta, di prevenzione, di azione comune tra chi opera per quella che una volta si chiamava “pubblica incolumità” e oggi protezione civile.
Il cinema di Corleto Perticara chiuso dopo il terremoto e mai più riaperto. L’arrivo del petrolio e dei sogni di carta. Le occasioni mancate, e quelle inseguite a Marsico Nuovo e Latronico. Vado via, resto qui. L’ossessione di facebook e twitter come tic antipredessione, ma anche memoria delle tradizioni cucite addosso alla modernità come a Lagopesole: torniamo a fare i contadini, ma non da morti di fame.
Cos’è la Lucania, oggi. E cos’era ieri, all’indomani del terremoto del 1980. Ma soprattutto: cosa sognano per il futuro di questa terra i suoi giovani.
Cinquanta ragazzi, cinque istituti superiori, una sola terra.
E sono proprio i nipotini del sisma i protagonisti di un esperimento editoriale curato dall’Osservatorio permanente sul dopo sisma, diretto dal giornalista di Repubblica Antonello Caporale: raccontare la Lucania di oggi attraverso le suggestioni e gli occhi di chi, il terremoto, non l’ha mai vissuto. Hanno provato a farlo con un istant book, Lucantropi, e con un istant video girato con il videofonino, La Basilicata nel cellulare. Il sisma come occasione per rifarsi, per giocare senza azzardo l’ennesima partita al tavolo dello sviluppo.
«Sono racconti densi di sentimento, a volte di risentimento, ma gonfi di amore per la Lucania. È un libro vero, crudo, sincero – spiega Caporale – C’è la gioia e la noia nelle parole di questi ragazzi che provano a raccontare se stessi e la loro terra. Il presente e il futuro. Le nuove generazioni devono imparare a sognare restando qui. Serve un fondo unico, una cassa comune, che garantisca e assecondi i loro talenti, i loro bisogni. Serve lo studio, l’applicazione quotidiana, la fatica. Servono i viaggi, l’apertura al mondo, le parole degli altri. Servono occhi curiosi, mani pronte, passo veloce. Serve imparare. Serve lavorare. Serve essere e mostrarsi liberi, come lo sono i protagonisti di questo libro e di questo piccolo film».
L’inchiostro dell’istant book, curato da Giuseppe Napoli, giornalista e responsabile del progetto editoriale, si mescola ai fotogrammi del documentario, a cura del filmaker Antonello Faretta e realizzato con i videofonini dai ragazzi delle scuole, accompagnando il lettore in un viaggio inedito nella Lucania di Levi e Sinisgalli, di Nitti e Scotellaro.
Un lavoro sperimentale al quale hanno collaborato Maria Rosaria D’Anzi e Stefano Ventura, entrambi ricercatori, e Manuela Cavalieri, giornalista, Adriana Bruno e Francesca Massa.
Il progetto, sostenuto dalla Regione Basilicata e dalla Fondazione MIdA, ha coinvolto gli studenti di cinque istituti superiori: “A. Einstein” di Corleto Perticara, “F. De Sarlo” di Latronico, “G. Peano” di Marsico Nuovo, “E. Fermi” di Pescopagano e “Leonardo Da Vinci” di Potenza.
La presentazione del libro e del film è in programma martedì 22, a Potenza. Ad dopo i saluti di Giovanni Robertella (Ufficio Cultura del Dipartimento Formazione, Lavoro, Cultura e Sport della Regione Basilicata), insieme a Vito De Filippo (Presidente Regione Basilicata), Fausto Taverniti (Direttore Rai Basilicata), Virgilio Gay (Direttore Fondazione MIdA), Antonello Caporale (Direttore Osservatorio sul dopo sisma), Pietro Simonetti (Coordinatore centro Lucani nel Mondo «Nino Calice»), Vincenzo Viti (Assessore alla Cultura Regione Basilicata).
Copyright © 2011 - All Rights Reserved - Osservatorio sul doposisma - Area Coordinamento dell'Osservatorio al 347.8577829- info@osservatoriosuldoposisma.com