fondazione Mida

Martedì 22 Novembre 2016 15:37

Ogni 23 novembre

Stefano Ventura

Spulciando tra le cartelle virtuali del mio computer ho avuto modo di passare in rassegna le tante immagini raccolte nel tempo a proposito del terremoto del 1980; serviva a cercare qualche foto di corredo a un articolo in uscita il 23 novembre su Lavoro Culturale (www.lavoroculturale.org/Sismografie).

Il deja-vu è stato quello di indovinare quale paese era protagonista delle macerie delle varie foto e pensare oggi a quegli stessi angoli e scorci. Già questo esperimento, da solo, rende evidente la portata di distruzione di quel sisma, quello al quale ho dedicato anni interi di studio e di ricerca.

Nei mesi scorsi varie scosse hanno coinvolto altre regioni italiane, posti bellissimi sono stati sconquassati e buttati all'aria dall'ospite inatteso col quale conviviamo da secoli e col quale ancora non abbiamo imparato a fare i conti.

Mi è capitato di confrontarmi di persona, telefonicamente o virtualmente con giornalisti, tecnici o ricercatori che stanno ragionando su cosa è successo nelle zone terremotate dopo le scosse del 24 agosto e del 30 ottobre, aprendo paralleli con la sera del 23 novembre 1980 e quei 90 secondi di tremito tellurico. Sembra che chi possiede un minimo di conoscenza sull'argomento debba dare risposte definitive, come un oracolo, su cos'è il terremoto, come si ospitano i senzatetto, come ricostruire bene e come si evitano gli scandali e le ruberie. E' la ricerca spasmodica della rassicurazione dell'esperto da ingerire come un ansiolitico per far passare la paura.

Ma chi può avere risposte rassicuranti e definitive? Altre domande che ho ascoltato chiedevano di sapere al centesimo quante lire o euro erano state spese per la ricostruzione in Irpinia e Basilicata. Anche qui la complessità della risposta non era soddisfacente, non si adattava bene a un tweet o a un post di Facebook.

Mi è capitato di ascoltare decine e decine di racconti sul terremoto, sulla terribile notte del 23 novembre, sul dolore della perdita di persone care e luoghi familiari, sulla rabbia dei lunghi anni di prefabbricati e lavoro promesso e sperato, su risultati architettonici e urbanistici estranei ai propri valori. E' tutto troppo complesso, è una dimensione più intima che pubblica e non trova, infatti, segni tangibili che ci aiutino a commemorare (musei veri, archivi, progetti di sensibilizzazione e tutela).

 

L'altra sensazione forte, in questo anniversario, riguarda il destino del nostro Appennino. Dobbiamo capire cosa farne, dei nostri piccoli paesi, se li riteniamo una risorsa o un peso, se la popolazione che vive sulle montagne italiane (11 milioni di persone) ha la stessa dignità di chi vive a Roma, Milano, Napoli, Torino e se gli si deve prestare attenzione o ignorare il grido soffocato di disperazione quotidiana. La mappa dei terremoti più recenti degli ultimi 50 anni coincide quasi perfettamente con la mappa del disagio demografico e civile. Per questo “il modo migliore di ricordare i morti è pensare ai vivi”.

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Domenica 22 Novembre 2015 13:03

35 anni di lenta e difficile rinascita

di Stefano Ventura

Il 23 novembre segna l'anniversario del terribile terremoto che una domenica sera portò via 2914 irpini, campani, lucani e sconvolse la vita a centinaia di persone. Sono passati 35 anni, un periodo tale da poter considerare alle spalle la ricostruzione, ma che non ha certo sanato ferite profonde, tra contraddizioni, errori e progetti più o meno riusciti.

Come ogni anniversario, la commemorazione può e deve servire per ricordare e per valutare il percorso compiuto; molti preferiscono il ricordo privato, la dimensione intima del dolore, ma a livello pubblico bisogna interrogarsi su come le comunità interpretano e mantengono traccia di cosa è successo, degli errori e delle cose buone.

Sulla memoria del terremoto è uscito un recente saggio in un libro che parla di disastri dal punto di vista etnografico e sociologico. Di certo si alternano diverse opinioni, da quelle di chi dice: “Ancora a parlare di terremoto?” a chi grida allo scandalo totale gestito dai soliti intrallazzatori, fino a chi candidamente pensa che non sia successo niente, anzi, la ricostruzione sia stata un toccasana.

La cosa più evidente è l'assenza di forma e sostanza nel tutelare e trasmettere il ricordo, le testimonianze e i dati relativi a quell'evento e alla ricostruzione. Nessun memoriale, ovvero tanti piccoli luoghi disseminati e sporadici, nessun progetto collettivo e a lungo termine, nessun discorso interpretativo che possa essere fatto proprio dai sopravvissuti e da chi è rimasto.

Oggi l'Irpinia (mi limito alla zona più colpita, che conosco relativamente meglio) è un'area in forte decrescita demografica, con una popolazione dall'età media alta e con gli enormi problemi delle aree appenniniche marginali. Da diversi mesi di parla di un Progetto Pilota che possa dare respiro e rilancio, a partire da quattro capisaldi (scuola, sanità, trasporti e sviluppo, http://www.dps.gov.it/opencms/export/sites/dps/it/documentazione/Aree_interne/STRATEGIE_DI_AREA/Bozza_della_strategia/bozza_strategia_alta_irpinia.pdf).

Sembra un percorso obbligato, quello di confrontarsi tra amministrazioni e “portatori di interesse” per trovare una parvenza di progetto comune da perseguire.

Alcuni tentativi, anche ben riusciti, hanno portato quest'area all'attenzione di una platea più ampia, nazionale; uno dei libri candidati al premio Strega, il “Paese dei Coppoloni”, è una specie di poema epico di queste terre, un incrocio tra mito popolare e legame con la terra e le radici. Capossela ha organizzato per il terzo anno lo Sponz Fest, con numeri e contenuti di ottimo livello.

Per contrasto, quelle stesse zone sono al centro di recente di un allarme reale sul legame tra minacce malavitose e eolico. La minaccia delle trivellazioni, a poca distanza dalle vigne dove si producono vini che hanno buoni risultati sul mercato, è un'altro controsenso da sciogliere.

Ci sono anche segnali che andrebbero analizzati sull'identità irpina, visto che ci sono espressioni della società che provano ad affermarsi per difendere il territorio (termine del quale si fa uso e abuso). Cito solo un tentativo, quello di alcuni ragazzi che hanno formato un'associazione che si chiama “Io voglio restare in Irpinia” (https://www.facebook.com/iovogliorestareinirpinia/?fref=ts). Questi ragazzi, in gran parte, non hanno però vissuto gli anni dell'infamia di essere terremotati assistiti e approfittatori di fondi statali, agli occhi dell'opinione pubblica nazionale, e anche questo è un punto interrogativo aperto.

Più semplicemente, la data del 23 novembre serve a ricordare e riporta anche a un pensiero primitivo, il rapporto tra l'uomo e la terra sulla quale vive, l'ambiente che lo accoglie e le forme sociali che servono a renderlo ospitale e che riempiono di senso il termine comunità: noi dovremmo ricordarci di essere una comunità ferita e guarita da uno squarcio durato 90 secondi, una sera di novembre di 35 anni fa.

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Domenica 28 Settembre 2014 13:32

La fabbrica del terremoto (aggiornamento 2014)

Nel 2011 abbiamo presentato il dossier "La fabbrica del terremoto. Come i soldi affamano il Sud", con una ricerca dell'Area Research del Monte dei Paschi di Siena, uno studio di Teresa Caruso sulla comunità di Caposele (Avellino) e un quadro sulla situazione delle aree industriali.

Oggi, dopo altri tre anni di crisi economica locale e globale, Stefano Ventura ha aggiornato la tabella delle aree industriali della legge 219, con il numero degli addetti impiegati e delle aziende ancora aperte.

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Il 21 dicembre 2013 il deputato Famiglietti ha richiesto l'impegno del Governo, nell'ambito della legge di Stabilità 2014, a sbloccare i fondi giacenti da diverso tempo destinati al completamento della ricostruzione. Di seguito il testo completo dell'Ordine del giorno:

 

"La Camera, premesso che: sono trascorsi ben 33 anni dal terribile terremoto che il 23 novembre 1980 devastò Irpinia e Basilicata; sulla base dei riparti ex lege 219/81 stratificati nel corso degli anni risultano non ancora liquidato ai comuni il 30 per cento delle risorse stanziate con Delibera CIPE n.37/2006; per gli anni successivi non è stato assegnato un solo euro per il completamento definitivo della ricostruzione; i 225 milioni assegnati e non ancora liquidati a cui si dovrebbero aggiungere altri 300 milioni di euro derivanti dai mutui accesi mediante le finanziarie dei Governi Prodi sarebbero fondamentali per la chiusura della fase di ricostruzione; queste risorse, già presenti nel bilancio dello Stato e bloccate da farraginose procedure burocratiche più volte denunciate dagli amministratori locali, consentirebbero l'apertura di cantieri e una boccata d'ossigeno per l'intero settore edile, uno dei settori chiave dell'economia locale che negli ultimi anni ha visto crollare il numero di imprese e lavoratori; sarebbero risorse fondamentali soprattutto in presenza del patto di stabilità,

impegna il Governo

a sbloccare entro 60 giorni dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della presente legge, d'intesa con le amministrazioni interessate, le risorse giacenti ex lege 219/81 finalizzate alla ricostruzione post sisma dei comuni irpini e lucani.

9/1865-A/94.

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VENERDÌ 20 SETTEMBRE 2013 – ORE 16:00 Fac. di Scienze Umane - Aula Magna – Viale Nizza 14, L’Aquila

Orlo, bordo, confine, selve, monti, mare, alberi, zolla, cane, vigna, nuvole, vacca, panchina, sole, alba, tramonto, e vento, neve, pioggia, e altro vento, e altra neve, e aprile, e il verde di maggio, e il nero di settembre, silenzio senza opinioni, luce senza commenti, voglio solo che la vita sfili, se ne vada da dove è venuta, non la trattengo, non voglio trattenere niente, camminare, guardare gli alberi, non dire e non fare nient’altro che il giro dei confini, andare sempre più dentro a certi confini, non superarli, non mirare al centro, non mirare alle passioni di tutti, disertare, prendere confidenza col cielo, ma farlo senza vantarsene, non sputare parole sul mondo e sugli altri, camminare, uscire perché è uscito il sole, uscire, prendere un paese, passarci dentro, non dire nulla del giorno, non accostare niente alla solitudine, lasciarla intatta, lasciare che la solitudine faccia la sua vita, svolga la sua storia e così pure la tristezza e la stanchezza, essere stanchi tristi e soli è comunque una fortuna, i buoni sentimenti rigano il mondo come quelli cattivi, come le parole…

PAESAGGIO CON MACERIE – L’AQUILA (selezione di testi dedicati al territorio aquilano)

interverranno:

  • Franco Arminio – Poeta, scrittore, regista, paesologo
  • Alessandro Vaccarelli – Docente di Pedagogia della cooperazione sociale e internazionale – Università dell’Aquila
  • Rita Salvatore – Sociologa dell’ambiente e del territorio – Università di Teramo

Proiezione del documentario:
Teora 2010- realizzato da Franco Arminio

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Giovedì 18 Luglio 2013 18:05

Terre Memori, terre sorelle

Riportiamo la testimonianza di Barbara Vaccarelli pubblicata sul volume Territorio e Democrazia: un laboratorio di geografia sociale nel doposisma aquilano (L’Una, 2012 - a cura di Lina M. Calandra). Il volume è stato presentato nell’ambito del Seminario itinerante sui luoghi del cratere aquilano (3-5 maggio 2013) promosso dalla Società Geografica Italiana e tra le varie iniziative è stato coinvolto anche l'Osservatorio sul Doposisma.

 

 

Non credo che ci sia, oggi, un'altra maniera di salvarsi l'anima. Si salva l'uomo che supera il proprio egoismo d'individuo, di famiglia, di casta, e che libera la propria anima dall'idea di rassegnazione alla malvagità esistente. Cara Cristina, non bisogna essere ossessionati dall'idea di sicurezza, neppure della sicurezza delle proprie virtù: Vita spirituale e vita sicura, non stanno assieme.

Per salvarsi bisogna rischiare.

I. Silone, Vino e pane, 1975

Terre Memori, terre sorelle

A dicembre 2011 si apre all’Aquila Terre Memori: dall’Irpinia all’Aquila. I luoghi dei diritti negati, una rassegna letteraria e di studi sulle comunità del dopo sisma organizzata dalla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università dell’Aquila in collaborazione con L’Aquila e-Motion e l’Osservatorio permanente sul dopo sisma di Auletta-Pertosa. Tutti i libri e documentari presentati fino a oggi hanno concentrato l’attenzione su quanto sia importante non ripetere, qui e ora, gli stessi errori delle ricostruzioni decise 32 anni fa; su come si possa ripristinare (e forse reinventare) un nuovo senso di appartenenza che tenga unita la ricostruzione materiale a quella sociale; sul dovere di vigilare e impegnarsi per scrivere un nuovo capitolo nel territorio aquilano anche attraverso l’apertura verso quelle comunità che nei passati decenni hanno subito decisioni dall’alto.

L’Aquila e-Motion nasce nel 2010 come sito da un gruppo di amici decisi a creare un contenitore di idee, di spunti di riflessioni e anche un raccoglitore di memoria sulla scossa del 6 aprile 2009. Tra i tanti obiettivi del sito c’è quello di favorire lo scambio, la condivisione e il confronto delle idee. È questa nuova vita da terremotata che mi ha portato ad aprire orizzonti di confronto. Gli spunti sono infiniti se vai alla ricerca di chi ha vissuto un terremoto e se costui/costei sa indicarti come sarà tra una settimana, un mese, un anno la tua vita; cosa ti puoi aspettare e cosa ti sarà negato. Dopo aver subito la perdita della mia città il 6 aprile 2009, è stato inevitabile associare ciò che anni prima avevo visto in tv e sentito da tanti amici sulle conseguenze di quel 23 novembre 1980, a ciò che ora vivevo io. Ho capito che vivere un terremoto è fondamentalmente diverso dal sentimento di compassione e dolore  che si prova quando lo si guarda da “fuori”. Con tutto l’impegno possibile non si riesce a comprenderne la portata e quanto ne possa essere travolta la vita, tua e della tua comunità. E la perdita di tutti i punti fermi che la sostengono.

All’inizio di questo percorso “emozionale” ho avuto la fortuna di conoscere all’Aquila  Antonello Caporale in occasione della presentazione del suo libro Peccatori che dedica il capitolo “non uccidere” al sisma del 6 aprile 2009 con la testimonianza aquilana di Rossella Graziani. Da questo momento vengo coinvolta per il sito dell’Osservatorio permanente sul dopo sisma (di cui è direttore Antonello Caporale) che nel tentare di riannodare il filo della memoria dei luoghi colpiti dal sisma del 23 novembre 1980, si allarga agli altri terremoti italiani. L’Osservatorio, finanziato dalla Fondazione MIdA che destina allo scopo, in coerenza con gli obiettivi statutari, parte dei proventi derivanti dalle proprie attività, indaga e analizza le trasformazioni sociali, ambientali, economiche successive al sisma, promuovendo l’analisi e la ricerca scientifica in diverse discipline. È in questo contesto che ho la fortuna di conoscere i “figli del terremoto irpino”, impegnati nella ricerca sul territorio colpito dal sisma del 1980 per capire e ricostruire la storia del “prima” e della ricostruzione non ancora finita; per raccogliere testimonianze; per trovare un modo per ripristinare il meglio del passato proiettandolo in un nuovo futuro che promuova la cultura e le peculiarità dei territori che ancora vivono i segni del loro sisma, nel bene e nel male. È un gruppo di giovani ricercatori e giornalisti impegnati su tantissime tematiche riguardanti il territorio irpino, da quelle sociali a quelle economiche, con particolare attenzione a tenere sempre il filo che lega la memoria dei luoghi. Scrivono, pubblicano, documentano, filmano, denunciano, raccontano quello che non c’è più, quello che servirebbe a correggere – se possibile – le scelte sbagliate della ricostruzione sul loro territorio, stravolto per sempre insieme alla vita, ai paesi della Campania e della Basilicata.

Io sono nata e vivo all’Aquila, terra sorella dell’Irpinia anch’essa su quell’Appennino che ci unisce nel destino delle avversità e della voglia di rinascere dalla distruzione. Per noi qui sono passati poco più di 3 anni da quando abbiamo perduto i nostri luoghi, per gli irpini più di 30 anni. Non ho mai pensato di fare paragoni sui danni materiali, sulle vittime che questi due terremoti hanno provocato.  Ho imparato a non competere su nessuna disgrazia e a pensare che dagli errori e dalla sofferenza provocata da uno Stato “distratto” verso le vite umane, dalle classificazioni sismiche sbagliate della dorsale appenninica, non possono che nascere dialoghi e scambi perché invece, rispetto agli sprechi, alle inefficienze è bene dire le cose come stanno. Nel giro di pochissimi mesi, nel terremoto dell’Aquila si sono spese enormi risorse come sul libro-inchiesta Terremoti S.p.A. di Antonello Caporale è chiaramente messo in evidenza con dati alla mano.

Conta il contesto storico: 1980, periodo storico di grande impegno politico ma anche dell’economia che si avvia a declino; 2009, periodo che raccoglie gli esiti di 20 anni di berlusconismo.

Da la Repubblica, 11 febbraio 2010: "... Alla Ferratella occupati di sta roba del terremoto perché qui bisogna partire in quarta subito, non è che c'è un terremoto al giorno". "Lo so", e ride. "Per carità, poveracci". "Va buò". "Io stamattina ridevo alle tre e mezzo dentro al letto".  Colloquio telefonico all'alba del 6 aprile 2009 tra gli imprenditori Francesco Maria De Vito Piscicelli, direttore tecnico dell’impresa Opere pubbliche e ambiente Spa di Roma, associata al consorzio Novus di Napoli e il cognato Gagliardi.


E conta il ruolo dei media: 1980, gli albori di Mediaset; 2009, l’impero di Mediaset. Ho imparato a capire in questi tre anni cosa riesce a fare la differenza sui trent’anni che separano le due “catastrofi”. Non è la tecnologia a fare la differenza visto che non c’è stata prevenzione né nell’uno né nell’altro caso e visto che il terremoto dell’Irpinia non ha insegnato nulla, o quasi, a questo paese. Negli anni ’80 non c’erano le intercettazioni telefoniche, in questi anni sì. In Irpinia subito dopo il sisma sono nati i comitati, anche all’Aquila. In Irpinia i sindacati furono molto attivi, qui no. Lì si occupò l’autostrada (“Terre in moto” documentario di Citoni, Siniscalchi, Landini 2006) e in alcuni centri storici si proposero ricostruzioni dal basso; qui, le 19 new town sono la prova concreta di una grande mangiatoia, dell’inganno di noi abitanti, dei massimi guadagni per alcune imprese del Nord: sembra che gli isolatori non siano antisismici! Ecco che di nuovo abbiamo toccato con mano che non siamo altro che carne da macello (Il fatto quotidiano, 23 luglio 2012). Dopo il terremoto del 1980 nasce la Protezione civile, quella che nel primo intervento sul cratere aquilano ha salvato moltissime vite, ma per il resto i terremoti restano campo privilegiato del malaffare: così è stato in terra irpina, così è in terra aquilana. Dall’Irpinia nasce, appunto, la Protezione  civile organizzata, dall’Aquila parte una proposta di legge di iniziativa popolare “Legge di solidarietà nazionale per i territori colpiti da disastri naturali” centrata sulla prevenzione, attenta alla gestione dell’emergenza e alla questione dei fondi per la ricostruzione. La legge, se mai fosse stata approvata dal Parlamento (siamo ancora in attesa!), avrebbe avuto utilità e impatto su tutto il territorio nazionale. Equamente per tutti. Perché vorremmo che quello che sta accadendo a noi non accada più. Sono state raccolte 45.000 firme da tutta l’Italia e nell’attesa che qualcosa si muova, abbiamo dovuto assistere ad altre catastrofi registrando la morte di 37 persone a Messina, 6 a Genova e 26 in Emilia. Le conseguenze sono le solite, le misure di emergenza differenti e nulla insegna.

 

Tre anni fa tanti italiani sono stati convinti che L’Aquila non avrebbe avuto la stessa sorte dell’Irpinia, e devo ammettere che anche tanti miei conterranei si sono ostinati a crederlo. Un messaggio martellante: L’Aquila sarà interamente ricostruita. L’unica cosa certa, invece, è che anche qui la decisione di svuotare i centri storici e di allargare le periferie è stato deciso dall’alto. Nella sostanza, dunque, nessuna differenza. Neanche la presa di coscienza che questo è un paese fatiscente. Vanno giù scuole e ospedali, adesso come trent’anni fa, abitazioni nuove e interi palazzi costruiti nel 2000. In Emilia vengono giù capannoni industriali e migliaia – troppe – risultano essere le abitazioni inagibili. Muoiono operai, quasi tutti migranti in cerca di migliori condizioni di vita.

L'Aquila 18 dicembre 2011Nel mio viaggio a Romagnano al Monte “nuovo”, in Irpinia, tocco con mano quello che sento da 3 anni accadere qui: famiglie che vivono in prefabbricati di legno, da oltre 30 anni. Come afferma Antonello Caporale, l’Irpinia durante il post sisma ha avuto un riscatto storico dall’isolamento e dalla povertà, anche grazie alla messa in opera di infrastrutture e vie di collegamento, ma lì come qui si è sacrificato il patrimonio agricolo per la (ri)costruzione al costo dell’identità territoriale e della storia (Convegno-mostra, L’Aquila, 18 dicembre 2011).

Di geografia e paesi mi attira e mi conforta la lettura delle tante pubblicazioni di Franco Arminio, scrittore e poeta dell’Irpinia d’Oriente. Dentro la sua produzione letteraria si trova tutto il significato del terremoto: parla e narra del “post”, dei valori sui quali si dovrebbero basare le comunità tutte, in particolare le nostre duramente colpite dai terremoti, ricercandone le origini attraverso i luoghi e i paesaggi snaturati dalle più scellerate ricostruzioni. Nelle tante riflessioni che Franco Arminio generosamente regala ai suoi lettori, anche sul web (Comunità provvisorie), ritrovo tutte le preoccupazioni che invadono il nostro vivere nel cratere aquilano vittima della stesso destino irpino: “Se vesti la taglia 42, perché compri una 52?” (F. Arminio, Scuola di paesologia).

Cosa raccontare dei miei luoghi? Se è vero che esistono, allora io ne ho vissuti tanti, siano essi fisici o mentali. Ogni luogo col suo ricordo associato a un odore o a un suono, colorato o scolorito, luminoso o buio, distante o vicino. In condizioni di normalità uno stesso luogo può ricordarti quando eri giovane, oppure di averlo vissuto prima della nascita di un figlio e non esserci più tornato da lungo tempo, scoprendo però che in fondo quel luogo non è cambiato troppo; a volte semplicemente anche i luoghi invecchiano lentamente, e solo in certi dettagli si può vedere l’usura o l’incuria; invece a volte sono solo le stagioni a fare la differenza, ma nella sostanza restano immutati. Quel luogo del “prima” di un particolare evento lo trovi sempre là, nella stessa posizione, invecchiato o rinnovato, magari solo trasandato, o al contrario tirato a lucido e se riesci a tornarci, riconosci e rievochi ricordi di volti ed emozioni. È rassicurante tornare nei luoghi che hanno tracciato un vissuto e raramente  queste terre le ho pensate rivolte al futuro, perché per esempio la mia è una città medioevale, almeno fino a 3 anni fa.

Della storia dei luoghi, dei luoghi della mia città, in realtà, ho avuto occasione di occuparmi tredici anni fa, quando  sull’Aquila inizia un percorso editoriale promosso dall’associazione culturale  “Territori” che nel 1999 pubblica il volume Sulle ali dell’aquila dedicato alla scuola primaria e distribuito gratuitamente alle classi IV e V. L’operazione si proponeva l’obiettivo di offrire un supporto per ampliare le conoscenze dei ragazzi sulla loro città. Oggi, è il caso di riprendere quel percorso per offrire uno strumento che, partendo da alcuni punti di riferimento spaziali e temporali, aiuti a maturare la consapevolezza storica e ambientale sul proprio territorio fatto di rotture e continuità. Fino al 6 aprile 2009, quando il terremoto ha segnato in modo indelebile la geografia e la socialità del territorio aquilano. Questo strumento didattico vedrà nella seconda edizione un coinvolgimento diretto dei bambini anche perché “Le situazioni d’emergenza e di post-emergenza causate da catastrofi interrogano l’orizzonte pedagogico e didattico su quali strategie attivare a fronte delle criticità che esse generano sugli individui” (Isidori, Vaccarelli 2012). Gli obiettivi che ci proponiamo di raggiungere alla fine di questo nuovo percorso sono, da un lato, fornire uno strumento didattico per insegnanti e alunni, che ripercorra la storia della città, teatro nel passato di avvenimenti che la memoria ha il dovere di trasmettere; dall’altro, rispondere all’esigenza di ricostruire il senso di appartenenza a un territorio che da secoli ha dovuto fare i conti con la ricostruzione di un doposisma.

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Barbara Vaccarelli
è graphic designer presso un’azienda del Gruppo Telecom, nel settore della formazione. Si occupa di grafica e comunicazione visiva nel campo istituzionale, di marketing e di siti web. Cura l’organizzazione di eventi e progetti editoriali, tra i quali il libro per la scuola primaria Sulle ali dell’Aquila. Un viaggio nella storia della città (I edizione 1999, ed. Territori), attualmente si sta occupando della seconda edizione, come presidente e socia fondatrice dell'Associazione Culturale "Territori".

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Vogliamo viaggiare, non emigrare. Le cooperative femminili dopo il terremoto del 1980

di Stefano Ventura

Edizioni Officina Solidale ONLUS

Prefazione di Luisa Morgantini

 

“Vogliamo viaggiare, non emigrare” era lo slogan stampato su uno striscione che le ragazze della cooperativa  “La Metà del Cielo”, di Teora, portavano a varie manifestazioni e eventi subito dopo il terremoto del 1980. Lo slogan era ispirato da un film di Troisi, uscito proprio in quel periodo, “Ricomincio da tre”. Nel film il protagonista, Gaetano, si allontanava da Napoli per fare nuove esperienze e ogni volta che qualcuno, saputo che veniva dal Sud,  gli chiedeva se fosse emigrante, lui risponde seccamente di no, di voler semplicemente viaggiare.

Il libro di Stefano Ventura nasce da una borsa di ricerca sui temi della cooperazione sociale promossa dalla Fondazione di Comunità Officina Solidale. La ricerca ha indagato sei cooperative femminili nate dopo il terremoto del 1980 nell’area terremotata, tra Irpinia e Basilicata, e attraverso la raccolta di interviste e testimonianze, ha raccontato le storie e le esperienze delle socie di quelle cooperative.

Lo strumento della cooperazione, spesso introdotto nei paesi terremotati grazie ad alcuni promotori sociali e volontari,  rappresentò un tentativo di organizzare le giovani e i giovani dei paesi terremotati per creare delle prospettive lavorative condividendo il rischio d’ impresa.

Nel libro si affronta, in maniera sintetica, anche il lungo cammino della cooperazione nazionale e internazionale, fino ad arrivare ai problemi attuali della cooperazione sociale; inoltre, si parla anche dei problemi che le donne affrontano nel mondo del lavoro.

Dalle parole delle dirette protagoniste emerge una narrazione diversa e poco nota della ricostruzione in Irpinia e Basilicata dopo il 1980, ben lontana da quella legata agli scandali e agli sprechi e più vicina all’esperienza di vita vissuta di persone comuni che tentarono, però, di organizzarsi per progettare il proprio futuro. Il messaggio che emerge è che dai periodi di estrema difficoltà, come un doposisma, possono emergere idee e stimoli positivi. E’ il primo lavoro che la Fondazione Officina Solidale promuove come casa editrice.

Il libro sarà presentato a Teora (ore 17, Teatro Europa) con la partecipazione di Rosanna Repole (presidente di Officina Solidale),  Pasquale Cascio (vescovo diocesi di S. Angelo), il sindaco di Teora, Stefano Farina, la consigliera di parità Mimma Lomazzo,  Vito Farese (presidente del Consorzio Servizi Sociali Alta Irpinia), Rosetta D'Amelio (consigliere Regione Campania), Giuliana Donatiello (presidente Associazione Te ieri, Te ora, Te sempre). Concluderà Luisa Morgantini (già vicepresidente del Parlamento Europeo) e modererà Maria Stanco (Presidio del Libro Alta Irpinia).

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Gli anniversari vanno sempre rispettati, specie se per molte comunità e per molte persone sono momenti in cui si corre con la mente a un evento luttuoso e tragico, il terremoto del 23 novembre 1980.

Le date da ricordare sono utili anche a guardare indietro e rendersi conto del cammino fatto, ma anche a fare una pausa per capire se il presente è realmente quello che ci aspettavamo e quale prospettiva di futuro si delinea all’ orizzonte.

Per i 36 comuni nei quali i danni furono disastrosi, e dove morirono circa tremila persone, il 23 novembre è ancora una ferita aperta, e 32 anni non sono bastati a ricucirla e a lenire il dolore.

Per l’Italia delle polemiche e dell’opinione pubblica alimentata a dovere dai media il terremoto dell’Irpinia significa ancora oggi scandalo, enorme spreco di denaro, ruberie e quei centesimi che ancora vengono pagati sull’ accisa sulla benzina.

E’ quello che è stato ricordato qualche mese fa in qualche servizio televisivo e giornalistico, quando il CIPE ha ripartito tra i comuni terremotati 33,4  milioni di euro per il completamento di opere e progetti collegati alla ricostruzione in Campania e Basilicata. Questi erano fondi decisi dalla finanziaria del 2007 e nel 2010 era stato formalizzato il decreto ministeriale, ma ancora non erano stati ripartiti tra i comuni per la realizzazione delle opere.

Alla notizia, su molti siti e su qualche giornale sono uscite parole di condanna e sdegno per l’ennesimo scandalo targato Irpinia, e ancor di più le polemiche si sono fatte sentire dopo il terremoto in Emilia, soprattutto per iniziativa della Lega Nord.

Sicuramente  tutto il capitolo di spesa direttamente o indirettamente al terremoto e alla ricostruzione ha rappresentato una pagina difficilmente ripetibile per la quantità di denaro impiegata (più di 32 miliardi di euro) e per i tempi nei quali la ricostruzione è avvenuta.

Ma la memoria pubblica deve anche contemplare quei tremila morti dei paesi dell’Appennino, che abitavano in piccoli centri inadatti a sopportare una scossa così violenta (6.9 scala Richter) e che, per di più, dovettero aspettare tantissime ore prima di veder arrivare i soccorsi.

Una novità che si può cogliere, quando si parla di rischio sismico o dissesto idrogeologico, è il fatto che si sta parlando sempre più diffusamente di prevenzione, di piani complessivi per evitare che la prossima catastrofe ponga in pericolo l’incolumità di chi vive in territori a rischio.  Si vedrà se alle buone intenzioni seguiranno azioni concrete, investimenti e progetti.

I dati dicono che il 36% dei comuni italiani è a rischio sismico e il 58% della superficie del paese è a rischio frana o alluvione. Dal 1944 al 2012, si è speso circa 3,5 miliardi di euro di media annua per i danni provocati da terremoti, alluvioni e frane ( sono i dati del rapporto ANCE sullo Stato del territorio italiano).

Nell’ultimo anno, dall’alluvione che ha colpito Genova il 4 novembre 2011 e la Lunigiana qualche giorno prima, fino alla sentenza sulla commissione Grandi Rischi a l’Aquila, passando per il terremoto in Emilia e a quello del 26 ottobre scorso sul Pollino, il problema di come fronteggiare e, se possibile, evitare i pericoli derivanti dai disastri è diventato di attualità e fatto comprendere che sono diversi i nodi da sciogliere.

Ad esempio, i comuni devono predisporre i piani di protezione civile, divulgarli, fare esercitazioni e lavorare affinchè funzionino. Quanti sono i comuni italiani che su questo aspetto sono pienamente in regola?

L’anniversario del 23 novembre 1980 serve a discutere, ancora una volta, di prevenzione, di azione comune tra chi opera per quella che una volta si chiamava “pubblica incolumità” e oggi protezione civile.

 

Stefano Ventura

Pubblicato in Campania - Basilicata
Mercoledì 11 Luglio 2012 09:17

Amarcord di un paio di terremoti

Il terremoto dell'Emilia, dopo un mese e mezzo, è già scomparso dalle pagine dei giornali. Un pò di attenzione durante gli Europei di calcio, quando i bimbi facevano domande a Buffon e ai calciatori della Nazionale ancora sudati nel dopopartita, un concertone con annesse polemiche e poco altro. Proponiamo una riflessione molto interessante di Giovanni Iozzoli, operaio di origine irpina trapiantato a Carpi da anni; l'articolo è uscito su Alias (inserto del Manifesto) sabato 16 giugno 2012.

 

 

Chi l’avrebbe detto che un terremoto di pianura, si sarebbe trascinato dietro così tanti disastri – e così tante suggestioni? Dappertutto, qui a Nord – la Bassa è il posto dove non succede mai niente. I capannoni sono bunker, fortilizi incrollabili, eroicamente in lotta contro la caduta tendenziale del saggio di profitto. Le campagne sono piatte e squadrate, come disegnate da un gigantesco ortolano maniaco della precisione. Niente mosche, niente cani, niente gente a ciondolare per strada. Anche le zanzare sono operose e ordinate.

Vai tu a pensare che un terremoto, il simbolo per eccellenza dell’anarchia della natura, mi arrivava proprio qua.

Ho 45 anni e ne ho già visto qualcuno, di sismi. E’ che nel mio immaginario il terremoto era sempre stato una roba euroasiatica – appenninica o caucasica… Il terremoto lo associavo ai tufi polverizzati trafitti da travi di legno nero, e ai vecchi secchi e scuri, con le coperte in testa, e ai maiali e ai somari liberi tra le macerie, e ai paesini nascosti tra le sottane di montagne ispide.

Già il terremoto di Haiti mi aveva disorientato. Le casette color pastello, sfarinate sotto il cielo tropicale, mi rimandavano un segnale inedito: si muore di terremoto anche in quelle latitudini, al ritmo della macumba più che dell’Ave Maria?

Poi questa botta modenese mi ha aperto definitivamente gli occhi. Le nostre carte sismiche sono patetici esorcismi. Non sappiamo niente della mala bestia che scava chilometri sotto terra e ogni tanto scrolla il corpaccione. La terra non chiede permesso a nessuno: la crosta, le viscere infuocate, quello che c’e’ sotto, sopra, dentro, è tutto roba sua e fa come gli pare. Se le ingenue illusioni illuministe hanno residuato ancora qualche aspettativa, niente come un terremoto ci ricolloca nella realtà. Possiamo ( e dobbiamo) scrivere nelle Costituzioni il diritto alla Felicità, ma la terra – rocciosa, argillosa, sabbiosa -, la dura terra, è l’unico materialismo possibile.

Suggestioni, dicevo. Una montagna di suggestioni, tipo: la strage operaia.

Il terremoto – didattico, paziente – si preoccupa di riflettere la realtà così com’è. E’ un terremoto ordinatamente di classe, che fa crepare i proletari mentre sono attaccati ai loro torni e ai loro banchi di lavoro. Certo, una morte operaia come la classifichiamo? Moderna, premoderna o è già post? Vai a spiegarlo ai Khaled o ai Salvatore, che sulla loro condizione non avevano mai filosofato: per loro l’ordine naturale, il loro giusto posto, era il capannone; e quindi il terremoto segue le gerarchie della vita e della Storia – non produce ingiustizia. Muoiono gli operai ma parlano e si rappresentano magnificamente gli imprenditori: un esercito di imprenditori, che sfila davanti a tutte le tv, invade onnivoro la scena; sembra un regno magico di soli imprenditori; la didascalia ti dice che è un imprenditore anche il coltivatore diretto con 40 maiali e la masseria sfregiata dal sisma. “Imprenditore” diventa una chiave di lettura esistenziale, più che una qualifica professionale. Gli operai spariscono, al riparo delle tende multietniche, nel silenzio, nella irrapresentabilità, quasi nella vergogna della loro condizione.

Straordinario l’esercito del Bene, che mette in mostra i suoi reparti migliori. Centinaia di volontari addestrati, attrezzati, fosforescenti, che arrivano in poche ore. Ci dice molto sulla dedizione dell’animo umano. Ma anche sul molto tempo libero di cui gode una fetta di popolazione delle società mature; e lo squilibrio storico delle proporzioni tra lavoro e non lavoro nel centro del capitalismo, ci rimanda all’irredimibile crisi fiscale dello Stato ( perchè un terremoto, letto in controluce, è quasi sempre un trattato di economia politica – altro che la sismologia e la geo-fisica…)

Ora, io mi ricordo che trent’anni fa, giù da noi, in Irpinia, la Protezione Civile non ce l’avevamo. C’era l’esercito di leva, i soldatini adolescenti, con le divise grigio verdi strette strette, i fazzoletti sulla bocca e le pale scheggiate. Fu sulla pelle dei nostri tremila morti, che nacque il progetto della Protezione Civile. Certo, nessuno ci recintò, nessuno si assunse la gestione “bio-politica” della nostra condizione; e anche l’esercito dei volontari arrivò fluente e disorganizzato – fiumane di giovani che venivano da Polisportive e sezioni di partito, parrocchie e comitati di lotta; c’era anche l’ultima schiuma preziosa del 77 – quella che non era in galera e non era (ancora) rifluita. Chi sono, invece, questi volontari tecnologici, che in 48 ore sbarcano e attrezzano mega campi? Li guardo ammirato, ma anche un po’ preoccupato, come assistendo all’emersione periodica di un esercito clandestino.

Nei primi giorni dopo la scossa, le pagine dei quotidiani locali erano pieni di scandalo e indignazione: pakistani, marocchini, tunisini, africani di ogni dove, secondo i pennivendoli, stavano provocando problemi nei campi; e la carne di maiale, le continue richieste, la mancanza di collaborazione: come se mettere insieme migliaia di attendati, quasi tutti poveri, di 10 etnie diverse, potesse essere una passeggiatina senza intoppi.

Poi all’improvviso i problemi sono scomparsi dalle pagine. Era solo un modo per attizzare un po’ d’odio anche dentro l’emergenza – una specie di riflesso condizionato dei gazzettini locali. Gli immigrati, dal canto loro, sono incazzati e preoccupati; non tollerano l’idea di morire in un paese che sentono estraneo. Hanno più paura e meno rassegnazione degli autoctoni – continuano a riempire le tendopoli improvvisate sorte nei parchi, persino nel capoluogo intatto. Lavorano per mangiare e pagare affitti: non gli sembra razionale rischiare anche la pelle.

Del resto me la ricordo bene, la finta indignazione civile e pelosa dei cronisti dell’Italia civile. In Irpinia 30 anni fa i pakistani non ce li avevamo; ma certe cose le scrivevano anche su di noi: eravamo selvatici, poco collaborativi, piagnoni e arraffoni. E lo credo bene, l’unica lezione di educazione civica che avevamo ricevuto era: prepara la valigia e vai in Svizzera o in Germania o dove cazzo ti pare. Oppure mettiti in fila, nelle code multiple e varibili delle grandi clientele organizzate, ad arraffare le ultime fiammate del keinesismo all’italiana – gli scampoli malati della Prima Repubblica. Che tempi, ragazzi. C’erano abbastanza soldi per comprarci tutti (e l’operazione riuscì su larga scala). Quando si chiede: – ma di chi fu la colpa delle malversazioni in Irpinia? – non è facilissimo rispondere. Quando si cementa un blocco sociale in cui i miserabili stanno stretti stretti insieme ai costruttori autoctoni e alle grandi famiglie del Nord, tutti abbracciati al grande tronco della rendita immobiliare – di chi è precisamente la colpa storica di quel grande fallimento, che è stata la ricostruzione in Irpinia? Una volta avremmo detto: delle classi dirigenti. Ma sotto le pietre irpine morì anche l’ultimo residuo del Meridionalismo, di cui non si sentirà più parlare. E allora tutti assolti e tutti colpevoli. Non c’era tempo per Giustino Fortunato e Gramsci, mentre la tavola era apparecchiata, e siedevano insieme Gavianei, Dorotei, Morotei, Cutoliani, anticutoliani e Senzaniani. Si sparava di brutto, ma si trattava anche, intorno a una torta che sembrava infinita. Il Sangue e la Trattativa sono i due ingredienti che santificano ogni grande vicenda italiana: più sangue scorre, più si sta trattando.

In quei mesi convulsi a cavallo tra l’80 e l’81 c’era da puntellare mezzo sud Italia. Si fa presto oggi a maledire il Debito Pubblico: ma senza quel fiume di denaro il Mezzogiorno sarebbe sprofondato nella guerra civile; avremmo solo anticipato il Kossovo di una ventina d’anni (ma con una più precisa direzione criminale dei processi, perché Napoli non è Pristina…)

Com’è diverso lo scenario, oggi. Non ci sono più soldi, nisba, finish. Già all’Aquila fu chiaro. Non si corre più il rischio di essere comprati da qualcuno. Nessuna Grande Trattativa si profila all’orizzonte – anche la rimozione delle macerie sarà a carico del destinatario.

Cavezzo è a 20-25 minuti da casa mia. Prendi la strada del Canaletto, fai un po’ di curve, passi S.Prospero e arrivi subito in mezzo all’epicentro. Non c’ero mai andato a Cavezzo, lo riconosco. Del resto cosa ci va a fare uno, a Cavezzo? Nella Bassa o ci vivi, o ci lavori – non sono posti da farci gite. I campanili e i palazzi dei vecchi signorotti, i cippi partigiani, nessun folclore locale che ti rimandi a Peppone e don Camlllo: bruttezza dei luoghi e operosità vanno sempre a braccetto. Anche S.Felice, anche Mirandola sono località bruttine. Oggi Napolitano è andato in quei posti e l’hanno pure fischiato, un oltraggio al rinomato civismo della zona. E anche a sentire stà notizia, si riattizzano i ricordi e il gioco impietoso delle differenze. Anche il vecchio Pertini si prese maleparole e insulti quando arrivò tra le macerie irpine…Pianse e passò alla storia per la sua sfuriata a reti unificate, trasmessa anche dalla compassata BBC. A quell’epoca Napolitano era il cinquantenne capo dei nascenti miglioristi e lavorava nell’ombra per segare la sedia a Berlinguer. Per che cosa passerà alla storia, Napolitano? Per il pareggio di bilancio inserito in Costituzione?

Ecco, se vuoi capire la differenza tra terremoti, non devi guardare l’ago del sismografo (è più forte questo o quello?). Devi guardare il contorno, gli interpreti secondari, il coro. Il terremoto in Irpinia fu raccontato da Moravia, Sciascia e Geno Pampaloni; i grandi scrittori si mettevano in macchina e e raccontavano la tragedia dell’arretratezza meridionale, a un Italia colta, attenta e popolare.

Il terremoto dell’Aquila, invece, è stato raccontato da Vespa.

E quello modenese passa prevalentemente nei TG – mediato da inviati minori. Una narrazione povera, piatta, la stessa retorica sulla sobrietà emiliana e “la voglia di ripartire”, cucinata e riscaldata ogni giorno. La lenta parabola verso il basso di un paese è ben rappresentata dalla caratura dei “narratori” ufficiali che dovrebbero immortalarne i momenti cruciali. Nell’epoca dell’intellettuale massa, non ci sono più gli intellettuali. Solo un democraticissimo cicaleccio orizzontale di gente che twitta a tutto spiano. Ma la trasformazione antropologica di un territorio, non te la raccontano i social network o “Youreport”.

Cosa cambia, da queste parti, in definitiva (perché un sisma è sempre uno spartiacque solenne)?

Se eri attento alla forza delle cose, potevi accorgerti che il terremoto era già cominciato da tempo, almeno 4/5 anni fa. Il terremoto era la crisi, serpeggiante, insistente, che rosicchia i bordi del tessuto urbano e produttivo, e punta dritto al centro, alla sua coesione, alla sua ragione sociale. Già ampiamente terremotato era il meccanismo d’integrazione sociale che non integra più niente; era già scardinata la tenuta produttiva dei Distretti e della piccola-media manifattura, che prima aveva flirtato con la globalizzazione e oggi ne viene travolta; già pesantemente lesionata era l’etica del lavoro, l’unica cinquantennale religione che aveva permeato queste laicissime terre. Il Modello Emiliano se ne stava già andando, languido, lento, come un meccanismo sbeccato che non gira più. Le botte continue di questi giorni accelerano i processi e sottraggono residue sicurezze a gente già perplessa e disorientata.

Le scosse ci mettono davanti alla realtà nuova.

Non era zona sismica, questa.

Non era terra di disoccupazione.

Eppure la liquefazione della Padania – quegli inquietanti soffioni di mota sabbiosa, che irrompono nelle tavernette e nelle cantine, e sommergono dispense stracolme e pavimenti in cotto – proiettano un presagio oscuro sul futuro di tutti.

Si stava bene, nella Bassa. Non succedeva mai niente.

Giovanni Iozzoli

Alias, Il Manifesto, 16 giugno 2012

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