fondazione Mida

Siamo lieti di pubblicare

"ALLEVARE IL CRATERE. STORIE DI PASTORI E ALLEVATORI DAL 1980 A OGGI",

il rapporto di ricerca 2022 dell'Osservatorio sul Doposisma e del CERVENE, curato da Simone Valitutto.

Il testo in formato pdf è scaricabile liberamente a fondo pagina nella sezione Download allegati, in formato pdf, cliccando sul titolo.

Pubblicato in Chi Siamo

PUBBLICHIAMO NEL GIORNO DELLA MORTE DI CIRIACO DE MITA UN'INTERVISTA RIMASTA INEDITA E DATATA 30 DICEMBRE 2019, A CURA DI STEFANO VENTURA.

 

Intervista a Ciriaco De Mita

30 dicembre 2019

Ciriaco De Mita è un signore del 1928, conosciuto a livello nazionale per aver svolto ruoli di primissimo piano nella politica italiana, come la Presidenza del Consiglio nel 1988 e la segreteria DC tra il 1982 e il 1989.

Ha sempre avuto un ruolo politico ed elettorale forte in Campania, fino alle elezioni più recenti, anche se non può essere identificato con un partito nazionale: si potrebbe dire che è di centro, la testimonianza vivente di quel modo di dire di tanti anni fa: “moriremo democristiani”.

Questa forza politica e questo seguito si deve a un’azione politica di lungo corso che però ha un chiaro carattere clientelare, basato sulla gestione di posti di lavoro nella pubblica amministrazione, nella sanità e nei rapporti con quegli imprenditori parassiti e fedeli a lui prima ancora che ai partiti o alle idee.

Oggi è sindaco di Nusco, al secondo mandato dopo essere stato eletto nel 2014.

De Mita ha presieduto a lungo anche il comitato dei sindaci che si occupa della Strategia Nazionale Aree Interne e raggruppa 25 comuni dell’Alta Irpinia.

Per gli irpini De Mita non è solo questo: è molto di più. Ci sono pagine, post, fotomontaggi che ancora oggi girano sul web spesso e ironizzano sul “grande G” (Giriago è la pronuncia nuscana che rimanda alla parlata dello stesso De Mita). Dobbiamo questa definizione alla pagina Irpinia Paranoica, ormai un punto di riferimento per gli irpini di Facebook, gestita proprio da un nuscano.

E’ il 30 dicembre 2019. Mentre trascorro a Teora, mio paese d’origine, le vacanze natalizie, riesco ad ottenere un appuntamento per le 15 con Ciriaco De Mita grazie alla mediazione della vicesindaco di Teora che De Mita considera «una di famiglia».

A Nusco c’è neve, la giornata è stata fredda e con nevicate gelide a tratti. La villa è circondata da mura e con un cancello blindato. Le visite a questa villa sono un fatto consueto e di dominio pubblico, soprattutto per l’8 agosto, ricorrenza di San Ciriaco. Per me è la prima volta però.

Ci accolgono due signore che ci fanno passare nel tinello. Vicino al fuoco troviamo il Presidente, come tutti lo chiamano.

Si svolgono le presentazioni di rito e gli dono tre miei libri. De Mita si aspetta che io voglia scrivere un libro su di lui. Lo correggo dicendo che il tema sarà il terremoto.

Basta con il terremoto, fra poco sono quarant’anni. Non vedo cosa ci possa essere di interessante, di memorie e storie ne sono state raccontate ormai tante e ogni volta si ripetono le stesse cose”.

Però subito dopo inizia la sua riflessione. Un evento così in Italia non c’è stato quasi mai. La forza fu spaventosa. Nusco è in alto e di solito la faglia le passa sotto senza toccarla, infatti nella storia è rimasta abbastanza intatta. Ma in quella occasione le case non sono cadute: sono state segate a metà, quindi il terremoto si è fatto sentire nella parte che va verso l’Ofanto dove la qualità delle case era più fatiscente e non ha avuto effetti nella strada che va verso Ponteromito. La casa in cui siamo è stata costruita nel 1972 circa e ha resistito.

Quello che il Presidente sottolinea fu l’impreparazione totale, fu sottovalutato.

De Mita ricorda che era in prefettura e chiamò a Roma, il ministero dell’Interno allora era il responsabile e dissero: “oggi dite così ma vedrete che poi domattina andremo a vedere e ci direte che non è successo niente”.

Invece lui sentiva che soprattutto in Alta Irpinia c’erano problemi. Chiamavano le caserme e non rispondevano, non perché non c’erano ma perché erano cadute e i militari erano morti. Un generale dell’esercito diceva che era al corrente di tutto ma in realtà mentiva.

Alle sei di mattina arrivò a Lioni, vide le case piegate ma non crollate; incontrai il sindaco che mi diceva che non era successo niente, gli chiesi cosa facesse in quel punto e mi disse che lì sotto c’era la moglie, morta: era in evidente stato di shock, un altro signore anche era sulle macerie e scavava per salvare la moglie.

Chiamò il responsabile dei Vigili del Fuoco che disse di chiamare Roma e far inviare i vigili del fuoco e mi diede un numero: 4478. Gli chiesi il perché di quel numero e mi disse che quelli erano tutti gli effettivi a disposizione, poiché ci sarebbe stato bisogno di tutti, visto il disastro che era successo.

Poi il volontariato fu enorme, arrivò di tutto: cibo, aiuti, volontari da tutte le parti.

De Mita passa poi a parlare del lungo periodo del doposisma.

La ricostruzione fu, a suo parere, tra le meno costose (quella edilizia e urbanistica), anche perché prima non c’era nulla, le case erano molto malmesse.

Soprattutto in area rurale ci sono abitazioni dignitose, anche se due cose non gli sono mai piaciute: il marmo utilizzato all’esterno, perché appesantisce, non è sicuro e perché per la neve è scomodo, si guasta e si scivola. Seconda cosa: gli arredamenti degli interni, di cattivo gusto.

Gli investimenti hanno migliorato la vita della gente irpina. L’idea degli interventi industriali è stata una richiesta della “gente di qua”, dice lui, dei sindaci. Oggi molti preferiscono stare in Irpinia a emigrare perché quello che guadagnano, seppur a volte più basso della media, è al netto di spese, perché molti hanno casa di proprietà. Si è passati dall’essere contadini a operai, i posti creati sono stati notevoli. Prima l’agricoltura voleva dire grano, e nella mentalità significa fatica e poca resa. Però c’era anche la frutta, e di qualità, solo che questa poi si è persa ed è un peccato. A parte le zone alte, sopra i 600-700 metri di altitudine, poi ci sono tanti paesi che sono ricchi di acqua e dove le coltivazioni potevano rendere bene.

Quella del vino è una storia positiva, indipendente dal terremoto, le produzioni di qualità ci sono e ci sono molte zone favorite anche dall’esposizione al sole.

A proposito di vino, De Mita mi ha raccontato un aneddoto su un dottore di Luogosano che ha un terreno ben esposto al sole dove si produce un vino buonissimo e che lo regalò a suo padre).

Intervengo per chiedere quali furono i criteri che guidarono il piano di sviluppo industriale (venti aree industriali, circa 15mila posti di lavoro da creare con circa 2500 aziende) e come poi si svolse la scelta delle aziende per le aree industriali.

De Mita risponde che la procedura era molto raffinata; fu creata una commissione mista con a capo un delegato scelto da Confindustria. Per partecipare ai bandi bisognava dimostrare di avere immediata liquidità e capacità imprenditoriale, perché bisognava anticipare una discreta somma. Poi la commissione incrociava le richieste con le possibili destinazioni e poi si veniva ammessi al contributo, ma le aziende furono davvero tante.

Anche su questo punto De Mita vede il bicchiere pieno, quindi. Anche se i dati demografici e occupazionali di oggi dicono ben altro.

 

Il problema è stato inserire Napoli nella ricostruzione perché molte delle case di Napoli non c’entravano molto con la ricostruzione. De Mita lo disse da subito, scontrandosi con Zamberletti che volle portare a Napoli il commissariato in un hotel mentre doveva stare ad Avellino perché qui c’era stato il terremoto, portandolo a Napoli si sarebbe dirottata la ricostruzione. Il fatto è che a Napoli c’erano tutti i partiti rappresentati in Parlamento: in Irpinia c’erano solo i democristiani, secondo una sua lettura abbastanza sbrigativa.

I comuni inizialmente terremotati erano quelli dell’Alta Irpinia. Poi, dopo la scossa di febbraio 1981 furono inseriti tutti quelli della provincia di Avellino, che erano 119, ma inserire 687 comuni per quasi 7 milioni di abitanti fu effettivamente un errore.

L’attacco alla ricostruzione fu politico: il presidente della commissione che poi divenne presidente della Repubblica era un ipocrita moralista, non poteva fare la morale sul terremoto ad altri.

Sono molte le vicende che si accavallarono tra il 1988 e gli anni della caduta della Prima Repubblica, De Mita le ripercorre brevemente attraverso alcuni episodi che testimoniano un orgoglio di parte rispetto all’operato personale e di partito.

Tra questi episodi cita quando nel 1995 o 1996, in un incontro ad Avellino, il direttore del Giornale e il direttore del Mattino di allora chiesero scusa insieme per gli scandali giornalistici degli anni precedenti, ma questa cosa passò sotto silenzio.

Domando quale sia stato il ruolo della scuola in questi anni di ricostruzione.

Per De Mita il problema della scuola è stato quello di aver voluto creare omogeneità, rendere tutti uguali, abbassare i livelli senza premiare le eccellenze. I licei anche attualmente hanno una buona qualità, ma si sono create tante scuole tecniche, per geometri e ragionieri e manca una scuola di avviamento professionale che impieghi subito i ragazzi, un po' com’era l’idea di don Giovanni Bosco nel Nord. Qui è mancata l’istruzione professionale vera. C’era l’idea di spostare da Avellino in Alta Irpinia l’Agrario di Avellino, perché qui c’era potenziale interesse, ma non ci si riuscì.

Il tentativo di aprire un indirizzo agrario, settore produzioni e trasformazioni, a Calitri, è stato palesemente osteggiato da De Mita, in contrapposizione al sindaco di Calitri, Di Maio, e all’allora preside del Liceo, Gerardo Vespucci.

Il giudizio complessivo sui quarant’anni di ricostruzione è positivo, la situazione della gente qui è notevolmente migliorata, il tenore di vita complessivo è notevole.

Il tema successivo sul quale stimolo la sua riflessione è quello della salute e dei servizi sanitari, ma per lui non è un tema di potenziale interesse rispetto al terremoto.

Il problema è la gestione sanitaria e il ridimensionamento che premia Napoli, gli ospedali devono essere gestiti da medici e non da cretini e incapaci. Ci sono esempio di ospedali che fanno interventi chirurgici all’avanguardia, non vanno inseriti negli ospedali tanti operatori che non fanno niente e poi mancano i sanitari, va chiesto ai medici di organizzare le cose.

All’ospedale di S. Angelo dei Lombardi mancano i primari, quindi i pazienti vanno direttamente ad Avellino perché sanno che a S. Angelo non possono curarsi.

Purtroppo con la pandemia da Covid-19, scoppiata due-tre mesi dopo la nostra chiacchierata, I limiti e lo sfacelo del sistema sanitario territorale è stato dimostrata dalla mancanza di posti di terapia intensiva in un’area di tanti paesi e molto estesa, solo per dirne una.

Siamo ai saluti, dopo circa un’ora e mezza di chiacchierata. Non ci diamo altri appuntamenti, se non quello dell’anniversario del terremoto. De Mita dice che per il quarantesimo bisogna puntare alla visione futura senza ripercorrere le solite cose.

Vado via pensando che un politico di anni con la sua visione lucida oggi in giro non c’è. Tuttavia non mi ha convinto per niente la sua lettura assolutoria e positiva di una ricostruzione costata più di 32 miliardi di euro.

 

Pubblicato in Chi Siamo

Nel giorno del quarantennale del sisma del 1980 che colpì persone, animali, case, paesaggi, l’Osservatorio sul Doposisma della Fondazione MIdA ha organizzato per lunedì 23 novembre 2020 a partire dalle ore 9.30 il seminario “Terremoto 1980 – 2020. Ricordare per costruire”. Il seminario è inserito nell’ambito del Corso di Perfezionamento in Disaster Management in Sanità Pubblica voluto e organizzato dal Dipartimento di Sanità Pubblica dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, in collaborazione con il Dipartimento di Medicina Veterinaria e Produzioni animali, il CeRVEnE e l’Associazione Nazionale Disaster Managemen (ASSODIMA).

Al seminario parteciperanno alcuni degli autori della pubblicazione edita dalla Fondazione MIdA “Terremoto 20+20. Ricordare per costruire”, un volume prezioso, curato dal coordinatore dell’Osservatorio, Stefano Ventura. Il volume raccoglie alcuni saggi già apparsi nei dossier curati dall’Osservatorio sul Doposisma dal 2010 ad oggi e aggiunge altre riflessioni più recenti, con il contributo di diversi settori (antropologia, ingegneria, medicina veterinaria, storia sociale).

Dopo i saluti di Raffaele Bove, direttore del CeRVEnE, presenteranno i risultati delle loro ricerche e le loro riflessioni sull’evento che colpì una vasta area dell’Appennino meridionale con effetti devastanti soprattutto in Irpinia e nelle zone adiacenti delle province di Salerno e Potenza.

Stefano Ventura, coordinatore dell’Osservatorio sul Doposisma e scrittore, Simone Valitutto, antropologo e studioso di sistemi festivi e rituali, Salvatore Medici, giornalista e scrittore, Raffaele Tarateta, ingegnere e consigliere della Fondazione MIdA, hanno approfondito, scavato a 40 anni dal sisma del 1980 tra le macerie “invisibili”, volgendo uno sguardo al futuro dei territori e delle comunità che li abitano.

Seguiranno gli interventi di Stefano Fabbri e Graziano Ferrari, ideatore di Terragiornale che ripercorre la storia geofisica dell’Italia attraverso delle «breaking news». Le conclusioni sono affidate al presidente della Fondazione MIdA, Francescantonio D’Orilia.

Il seminario verrà trasmesso in diretta sul sito e sulla pagina Facebook della Fondazione MIdA.

Pubblicato in Chi Siamo
Giovedì 20 Agosto 2020 15:59

TERREMOTO 20+20. RICORDARE PER RICOSTRUIRE

A quarant'anni dal terremoto del 1980, in tempi di nuova e diversa emergenza, abbiamo il dovere di commemorare la tragedia e il diritto di interrogarci su cosa è successo. Per farlo è necessario approfondire, scavare tra le macerie invisibili rimaste in tanti anni di doposisma. Ricostruire non vuol dire solo sanare le ferite fisiche e materiali dei luoghi terremotati o di un sistema economico in difficoltà ma anche pensare alle comunità, al sentimento dei luoghi, alla felicità interna lorda. L’Osservatorio sul Doposisma ha prodotto dal 2010 a oggi vari rapporti di ricerca, convegni, festival, concorsi creativi ed eventi, cercando di mettere in pratica la visione prospettica del futuro affondandola nelle radici di speranza emerse dalle macerie del 1980.

 

INDICE

 

Presentazione di Rosa D’Amelio, Presidente del Consiglio Regionale della Campania

 

Introduzione, di Antonello Caporale, giornalista del Fatto Quotidiano e ideatore dell’Osservatorio sul Doposisma

 

Parte 1

 

CAPITOLO 1. Terremoti e gestione delle emergenze. L’esperienza del 1980, di Stefano Ventura;

 

CAPITOLO 2. Oltre l’Atlantico. Terremotati, migranti, Italian-Americans a New York, di Manuela Cavalieri

 

CAPITOLO 3. La cattiva ricostruzione. Da dove ripartire dopo quarant'anni? di Simone Valitutto

 

CAPITOLO 4. Passarono gli anni e il nuovo non venne. Dopo il terremoto, le fabbriche, di Pietro Simonetti e Stefano Ventura

 

CAPITOLO 5. Etnografia di una ricostruzione. Fiducia e mutamenti sociali in una comunità irpina di Teresa Caruso

 

CAPITOLO 6. Rischio sismico, prevenzione e gestione dell’emergenza. Aspetti normativi e tecnico-amministrativi, di Raffaele Tarateta

 

Parte 2.

 

CAPITOLO 7. Il CERVENE (Centro Regionale di Riferimento Veterinario per le emergenze non epidemiche), presentazione e attività, di Raffaele Bove - Salvatore Medici

 

CAPITOLO 8. La nascita della disastrologia veterinaria e l’esperienza di Adriano Mantovani, di Raffaele Bove e Nicola Amabile

 

 

Postfazione. Osservare il doposisma

 

Appendice fotografica

 

Il libro è disponibile al MIDA STORE alle Grotte di Pertosa e Auletta e presto sarà disponibile sui principali bookstore per l'acquisto online.

 

PER INFORMAZIONI:

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Venerdì 31 Luglio 2020 09:09

TERREMOTO 20+20. RICORDARE PER RICOSTRUIRE

A quarant'anni dal terremoto del 1980, in tempi di nuova e diversa emergenza, abbiamo il dovere di commemorare la tragedia e il diritto di interrogarci su cosa è successo. Per farlo è necessario approfondire, scavare tra le macerie invisibili rimaste in tanti anni di doposisma. Ricostruire non vuol dire solo sanare le ferite fisiche e materiali dei luoghi terremotati o di un sistema economico in difficoltà ma anche pensare alle comunità, al sentimento dei luoghi, alla felicità interna lorda. L’Osservatorio sul Doposisma ha prodotto dal 2010 a oggi vari rapporti di ricerca, convegni, festival, concorsi creativi ed eventi, cercando di mettere in pratica la visione prospettica del futuro affondandola nelle radici di speranza emerse dalle macerie del 1980.

 

INDICE


Presentazione di Rosa D’Amelio, Presidente del Consiglio Regionale della Campania

Introduzione, di Antonello Caporale, giornalista del Fatto Quotidiano e ideatore dell’Osservatorio sul Doposisma

Parte 1

CAPITOLO 1. Terremoti e gestione delle emergenze. L’esperienza del 1980, di Stefano Ventura;

 

CAPITOLO 2. Oltre l’Atlantico. Terremotati, migranti, Italian-Americans a New York, di Manuela Cavalieri

CAPITOLO 3. La cattiva ricostruzione. Da dove ripartire dopo quarant'anni? di Simone Valitutto

CAPITOLO 4. Passarono gli anni e il nuovo non venne. Dopo il terremoto, le fabbriche, di Pietro Simonetti e Stefano Ventura

CAPITOLO 5. Etnografia di una ricostruzione. Fiducia e mutamenti sociali in una comunità irpina di Teresa Caruso

CAPITOLO 6. Rischio sismico, prevenzione e gestione dell’emergenza. Aspetti normativi e tecnico-amministrativi, di Raffaele Tarateta

Parte 2.

CAPITOLO 7. Il CERVENE (Centro Regionale di Riferimento Veterinario per le emergenze non epidemiche), presentazione e attività, di Raffaele Bove - Salvatore Medici

 

CAPITOLO 8. La nascita della disastrologia veterinaria e l’esperienza di Adriano Mantovani, di Raffaele Bove e Nicola Amabile

 

Postfazione. Osservare il doposisma

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Pubblicato in Chi Siamo
Lunedì 04 Febbraio 2019 18:27

La protezione civile e Zamberletti

E' uscito su LAVORO CULTURALE (www.lavoroculturale.org) un articolo di Stefano Ventura che parla di Giuseppe Zamberletti, morto pochi giorni fa all'età di 85 anni. Lo ripubblichiamo qui.

La morte di un uomo politico di spicco può essere accompagnata da aridi elenchi di incarichi governativi e ministeriali. Nel caso di Giuseppe Zamberletti, morto il 26 gennaio a Varese all'età di 85 anni, le cose sono andate diversamente. La sua figura si è legata a doppio filo con la protezione civile italiana (possiamo scriverla sia in minuscolo, intendendo la categoria di riferimento, sia in maiuscolo, intendendo l'istituzione vera e propria, che Zamberletti ha fortemente voluto e contribuito a creare).

Zamberletti era un democristiano, fu eletto alla Camera nel 1968 e sin da subito si impegnò sul fronte della difesa civile (http://storiaefuturo.eu/i-terremoti-italiani-dopoguerra-protezione-civile/), lavorando a un disegno di legge che già dal 1970 si occupava di “norme sul soccorso alle popolazioni colpite da calamità” (legge n. 996). Quando però avvennero due terremoti dagli effetti significativi, in Friuli nel 1976 (due scosse, 6 maggio e 15 settembre) e in Campania e Basilicata, il 23 novembre 1980, si scoprì che questa legge ancora non aveva i regolamenti attuativi e quindi era inefficace. Fu duro l'atto di accusa che il presidente Pertini lanciò in un appello televisivo dopo aver visitato le zone di Irpinia e Basilicata che non erano state raggiunte prontamente dai soccorsi, e il presidente si chiedeva come mai questa legge si fosse impantanata in Parlamento.

Zamberletti fu nominato commissario straordinario per gestire l'emergenza in Friuli, nel 1976. In quel caso due fattori influenzarono positivamente la gestione dell'emergenza: la presenza nella zona di numerose caserme dell'esercito, con tanti soldati di leva che furono da subito impiegati nel soccorso ai sopravvissuti e nello sgombero delle macerie, e il fatto che il Friuli fosse una regione a statuto speciale, cose che le permise di avere maggiore libertà e autonomia decisionale. I senzatetto furono ospitati nelle strutture ricettive della costa adriatica e potevano quotidianamente fare i pendolari per tornare nei propri paesi distrutti e seguire le operazioni.

Sulla scia della buona esperienza friulana, Zamberletti fu chiamato in causa dal governo Forlani anche dopo il sisma del 23 novembre 1980. Le dimensioni della catastrofe erano maggiori, la zona colpita molto più vasta così come era maggiore la massa di senzatetto da assistere. In questo caso i soccorsi non furono rapidi, i grandi convogli dell'esercito si mossero male nelle vie di accesso all'appennino campano e lucano, tenendo anche conto che molte strade e ponti erano crollati. Per arrivare alla nomina di Zamberletti, inoltre, bisognò aspettare 48 ore; il terremoto era avvenuto di domenica, il consiglio dei ministri si riunì il lunedì e solo dal martedì, il 25 novembre, Zamberletti fu operativo e prese visione della situazione nelle zone terremotate. Ora il capo dipartimento della Protezione civile è in grado di riunire l'unità di crisi nel giro di pochissime ore.

I mesi che seguirono alla scossa di novembre in Irpinia furono mesi di convulse attività, con tante criticità da gestire e numerose pressioni. Zamberletti tentò di applicare lo stesso modello organizzativo del Friuli, proponendo il “piano S”, come sgombero, per spostare i senzatetto sulla costa. Ma i terremotati non accettarono questo piano, vista anche la distanza dai villaggi costieri. Allora Zamberletti avviò una lunga e metodica fase di ascolto delle comunità terremotate, stabilendo un rapporto diretto coi sindaci ma non rifiutando nemmeno il confronto con le assemblee dei terremotati e dei volontari, che avevano creato i “comitati popolari”. L'idea che sbloccò la confusione iniziale fu quella di gemellare ogni comune terremotato a una regione, provincia o città metropolitana, ma anche alle altre nazioni, in modo da razionalizzare gli interventi dei volontari che stavano arrivando in maniera cospicua nelle zone colpite portando ingenti quantità di beni di prima necessità. Inoltre, ad ogni sindaco il commissario affiancò un generale dell'esercito per coordinare gli scavi, la rimozione dei cadaveri e delle macerie, la collocazione delle tendopoli e delle mense da campo.

Il piglio decisionista e la grinta del commissario gli valsero anche qualche critica, in particolare da alcuni politici locali che vedevano in parte minacciata la loro funzione e accusarono Zamberletti di aver posizionato il suo commissariato a Napoli invece che nei capoluoghi più prossimi all'epicentro. L'impegno profuso in Irpinia e la vasta esperienza sul campo gli valsero la nomina a ministro senza portafogli nel 1982; nel frattempo grande emozione aveva suscitato nel giugno 1981 l'episodio di Vermicino, con la caduta in un pozzo del piccolo Alfredino Rampi. Anche se ormai la necessità di una legge per la Protezione civile era un dato di fatto, il percorso di approvazione fu lungo e accidentato e si concretizzò solo nel 1992, per una serie di problemi legati al ruolo istituzionale (la sovrapposizione di funzioni tra il ministro per la Protezione civile e il ministro dell'Interno).

Dal 1992 in poi si sono succeduti vari capi di dipartimento della Protezione civile: Franco Barberi, Guido Bertolaso, Franco Gabrielli, Fabrizio Curcio e Angelo Borrelli. E' cambiata molto la linea di intervento e anche i modi di comunicare, passando dalla centralità che Zamberletti dava al coordinamento delle forze di soccorso e intervento alla linea di “comando e controllo” che il Metodo Augustus ha introdotto negli anni Duemila. Se ad esempio i volontari del 1980 potevano vivere e condividere la realtà dei terremotati, facendo nascere iniziative spontanee e improvvisate, i volontari a L'Aquila nel 2009 erano inseriti in un sistema rigido, nel quale anche le tendopoli avevano regolamenti precisi da rispettare.

Insomma, se è vero che in emergenza non può esserci democrazia, perché bisogna decidere presto e bene, un conto è farlo senza ascoltare i diretti interessati, altro è ascoltare e tornare anche indietro rispetto a decisioni impopolari e inefficaci (quello che Zamberletti fece sullo sgombero in Irpinia). Anche per le polemiche legate a un ruolo ingigantito e abnorme della Protezione civile è intervenuto nel 2018 il Codice della Protezione civile (http://www.protezionecivile.gov.it/jcms/it/il_codice_di_protezione_c.wp), un testo unico nato con l'obiettivo di semplificare le norme e renderle più comprensibili, anche con l'obiettivo di una “maggiore consapevolezza dei rischi e alla crescita della resilienza delle comunità”.

Zamberletti ha ricoperto per diversi anni la carica di presidente emerito della Commissione Grandi rischi (http://www.protezionecivile.gov.it/jcms/it/commissione_grandi_rischi.wp), anche perché una delle sue intuizioni fu quella di dare spazio alla scienza in un ruolo attivo di supporto alla macchina istituzionale non solo nelle emergenze ma anche potenziando la prevenzione. Nel processo a carico della commissione Grandi Rischi per le rassicurazioni espresse poco prima del terremoto dell'Aquila del 2009 Zamberletti non fu coinvolto perché assente alla riunione incriminata.

Tornando alla prevenzione, è stata questa uno dei pallini di Zamberletti, unita a una consapevolezza matura che fare prevenzione è impossibile senza una cospicua impegno finanziario, senza una lungimiranza politica ma soprattutto senza la coscienza e l'educazione alla cultura della prevenzione dei privati cittadini. Anche l'idea di dare peso e forza al volontariato (http://www.volontariatoepartecipazione.eu/2011/11/solidarieta-e-partecipazione-nelle-emergenze/) , strutturandolo e integrandolo a pieno nel sistema nazionale di Protezione civile, alla lunga si è dimostrata un'intuizione felice e efficace.

Bisogna quindi tener presente, come lezione fondamentale, la definizione di Protezione civile che Zamberletti esprimeva:

“la protezione civile è ogni comune che diventa caposaldo, ogni villaggio che diventa elemento attivo di protezione civile e non solo un’organizzazione centralizzata, meravigliosa, taumaturgica, che piomba sul territorio a salvare la gente quando è in pericolo. È la gente che si aiuta a proteggersi, ed a preservarsi la vita e tutelare i suoi beni” (Alma Pizzi, Se la terra trema, Il Sole 24 ore edizioni, 2006).

Pubblicato in Chi Siamo
Mercoledì 22 Novembre 2017 10:15

SUSSULTI. Storie di terra e umanità

In una data simbolo, il 23 novembre, a distanza di 37 anni dal sisma del 1980, il Comune di Palomonte vuole ripartire dalla bellezza. A ridare anima e dignità alle macerie, a restituire luoghi e storia alla comunità di questo paese fortemente danneggiato – non tanto da quella terribile scossa ma dalla ricostruzione post-sisma –sarà un progetto dal forte impatto emotivo e culturale: “Sussulti. Storie di terra e umanità”. Prendendo spunto da azioni di rigenerazione urbana divenute modello virtuoso a livello internazionale, come il caso di Tirana e la siciliana “Farm Cultural Park”, l’obiettivo del progetto “Sussulti” sarà quello di far diventare il paese dell’Alta Valle del Sele meta turistica di interesse nazionale, rimarginando con l’arte le ferite del terremoto, dando nuova veste agli scempi architettonici e urbanistici recenti, colorando i principali centri abitati del paese con nuove storie di terra e umanità legate tra di loro dalla speranza e dal desiderio di rinascita.

La storia del ‘900 in ogni strada

Il paese diverrà una quinta per l’esposizione dei diari autobiografici degli italiani, custoditi dall’Archivio di Pieve di Santo Stefano. Le strade, i quartieri, le frazioni del comune avranno un tema portante legato alla storia del Novecento fino ai giorni nostri (La grande Guerra, il fascismo, la rivoluzione industriale, gli anni dell’emancipazione femminile etc.).

Le premesse di una rivoluzione urbanistica e culturale ci sono tutte e saranno presentate nella sala di rappresentanza del Comune giovedì 23 novembre alle 16 alla presenza di personalità illustri e futuri partner del progetto. All’evento, coordinato dal giornalista de “Il Fatto Quotidiano” Antonello Caporale, parteciperanno: il sindaco di Palomonte Mariano Casciano, Natalia Cangi, direttrice dell’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano, Erasmo D’Angelis della struttura di missione “Italia Sicura” della Presidenza del Consiglio dei Ministri, Franco D’Orilia, presidente della Fondazione MIdA, Corrado Matera, assessore regionale allo Sviluppo e Promozione del Turismo e Maria Rita Pinto, docente di Tecnologia dell’Architettura dell’Università di Napoli “Federico II”. Concluderà l’incontro Evelina Christillin, presidente dell’Ente Nazionale per il Turismo.

Pubblicato in Chi Siamo
Martedì 22 Novembre 2016 15:37

Ogni 23 novembre

Stefano Ventura

Spulciando tra le cartelle virtuali del mio computer ho avuto modo di passare in rassegna le tante immagini raccolte nel tempo a proposito del terremoto del 1980; serviva a cercare qualche foto di corredo a un articolo in uscita il 23 novembre su Lavoro Culturale (www.lavoroculturale.org/Sismografie).

Il deja-vu è stato quello di indovinare quale paese era protagonista delle macerie delle varie foto e pensare oggi a quegli stessi angoli e scorci. Già questo esperimento, da solo, rende evidente la portata di distruzione di quel sisma, quello al quale ho dedicato anni interi di studio e di ricerca.

Nei mesi scorsi varie scosse hanno coinvolto altre regioni italiane, posti bellissimi sono stati sconquassati e buttati all'aria dall'ospite inatteso col quale conviviamo da secoli e col quale ancora non abbiamo imparato a fare i conti.

Mi è capitato di confrontarmi di persona, telefonicamente o virtualmente con giornalisti, tecnici o ricercatori che stanno ragionando su cosa è successo nelle zone terremotate dopo le scosse del 24 agosto e del 30 ottobre, aprendo paralleli con la sera del 23 novembre 1980 e quei 90 secondi di tremito tellurico. Sembra che chi possiede un minimo di conoscenza sull'argomento debba dare risposte definitive, come un oracolo, su cos'è il terremoto, come si ospitano i senzatetto, come ricostruire bene e come si evitano gli scandali e le ruberie. E' la ricerca spasmodica della rassicurazione dell'esperto da ingerire come un ansiolitico per far passare la paura.

Ma chi può avere risposte rassicuranti e definitive? Altre domande che ho ascoltato chiedevano di sapere al centesimo quante lire o euro erano state spese per la ricostruzione in Irpinia e Basilicata. Anche qui la complessità della risposta non era soddisfacente, non si adattava bene a un tweet o a un post di Facebook.

Mi è capitato di ascoltare decine e decine di racconti sul terremoto, sulla terribile notte del 23 novembre, sul dolore della perdita di persone care e luoghi familiari, sulla rabbia dei lunghi anni di prefabbricati e lavoro promesso e sperato, su risultati architettonici e urbanistici estranei ai propri valori. E' tutto troppo complesso, è una dimensione più intima che pubblica e non trova, infatti, segni tangibili che ci aiutino a commemorare (musei veri, archivi, progetti di sensibilizzazione e tutela).

 

L'altra sensazione forte, in questo anniversario, riguarda il destino del nostro Appennino. Dobbiamo capire cosa farne, dei nostri piccoli paesi, se li riteniamo una risorsa o un peso, se la popolazione che vive sulle montagne italiane (11 milioni di persone) ha la stessa dignità di chi vive a Roma, Milano, Napoli, Torino e se gli si deve prestare attenzione o ignorare il grido soffocato di disperazione quotidiana. La mappa dei terremoti più recenti degli ultimi 50 anni coincide quasi perfettamente con la mappa del disagio demografico e civile. Per questo “il modo migliore di ricordare i morti è pensare ai vivi”.

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Domenica 22 Novembre 2015 13:03

35 anni di lenta e difficile rinascita

di Stefano Ventura

Il 23 novembre segna l'anniversario del terribile terremoto che una domenica sera portò via 2914 irpini, campani, lucani e sconvolse la vita a centinaia di persone. Sono passati 35 anni, un periodo tale da poter considerare alle spalle la ricostruzione, ma che non ha certo sanato ferite profonde, tra contraddizioni, errori e progetti più o meno riusciti.

Come ogni anniversario, la commemorazione può e deve servire per ricordare e per valutare il percorso compiuto; molti preferiscono il ricordo privato, la dimensione intima del dolore, ma a livello pubblico bisogna interrogarsi su come le comunità interpretano e mantengono traccia di cosa è successo, degli errori e delle cose buone.

Sulla memoria del terremoto è uscito un recente saggio in un libro che parla di disastri dal punto di vista etnografico e sociologico. Di certo si alternano diverse opinioni, da quelle di chi dice: “Ancora a parlare di terremoto?” a chi grida allo scandalo totale gestito dai soliti intrallazzatori, fino a chi candidamente pensa che non sia successo niente, anzi, la ricostruzione sia stata un toccasana.

La cosa più evidente è l'assenza di forma e sostanza nel tutelare e trasmettere il ricordo, le testimonianze e i dati relativi a quell'evento e alla ricostruzione. Nessun memoriale, ovvero tanti piccoli luoghi disseminati e sporadici, nessun progetto collettivo e a lungo termine, nessun discorso interpretativo che possa essere fatto proprio dai sopravvissuti e da chi è rimasto.

Oggi l'Irpinia (mi limito alla zona più colpita, che conosco relativamente meglio) è un'area in forte decrescita demografica, con una popolazione dall'età media alta e con gli enormi problemi delle aree appenniniche marginali. Da diversi mesi di parla di un Progetto Pilota che possa dare respiro e rilancio, a partire da quattro capisaldi (scuola, sanità, trasporti e sviluppo, http://www.dps.gov.it/opencms/export/sites/dps/it/documentazione/Aree_interne/STRATEGIE_DI_AREA/Bozza_della_strategia/bozza_strategia_alta_irpinia.pdf).

Sembra un percorso obbligato, quello di confrontarsi tra amministrazioni e “portatori di interesse” per trovare una parvenza di progetto comune da perseguire.

Alcuni tentativi, anche ben riusciti, hanno portato quest'area all'attenzione di una platea più ampia, nazionale; uno dei libri candidati al premio Strega, il “Paese dei Coppoloni”, è una specie di poema epico di queste terre, un incrocio tra mito popolare e legame con la terra e le radici. Capossela ha organizzato per il terzo anno lo Sponz Fest, con numeri e contenuti di ottimo livello.

Per contrasto, quelle stesse zone sono al centro di recente di un allarme reale sul legame tra minacce malavitose e eolico. La minaccia delle trivellazioni, a poca distanza dalle vigne dove si producono vini che hanno buoni risultati sul mercato, è un'altro controsenso da sciogliere.

Ci sono anche segnali che andrebbero analizzati sull'identità irpina, visto che ci sono espressioni della società che provano ad affermarsi per difendere il territorio (termine del quale si fa uso e abuso). Cito solo un tentativo, quello di alcuni ragazzi che hanno formato un'associazione che si chiama “Io voglio restare in Irpinia” (https://www.facebook.com/iovogliorestareinirpinia/?fref=ts). Questi ragazzi, in gran parte, non hanno però vissuto gli anni dell'infamia di essere terremotati assistiti e approfittatori di fondi statali, agli occhi dell'opinione pubblica nazionale, e anche questo è un punto interrogativo aperto.

Più semplicemente, la data del 23 novembre serve a ricordare e riporta anche a un pensiero primitivo, il rapporto tra l'uomo e la terra sulla quale vive, l'ambiente che lo accoglie e le forme sociali che servono a renderlo ospitale e che riempiono di senso il termine comunità: noi dovremmo ricordarci di essere una comunità ferita e guarita da uno squarcio durato 90 secondi, una sera di novembre di 35 anni fa.

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