fondazione Mida

VENERDÌ 20 SETTEMBRE 2013 – ORE 16:00 Fac. di Scienze Umane - Aula Magna – Viale Nizza 14, L’Aquila

Orlo, bordo, confine, selve, monti, mare, alberi, zolla, cane, vigna, nuvole, vacca, panchina, sole, alba, tramonto, e vento, neve, pioggia, e altro vento, e altra neve, e aprile, e il verde di maggio, e il nero di settembre, silenzio senza opinioni, luce senza commenti, voglio solo che la vita sfili, se ne vada da dove è venuta, non la trattengo, non voglio trattenere niente, camminare, guardare gli alberi, non dire e non fare nient’altro che il giro dei confini, andare sempre più dentro a certi confini, non superarli, non mirare al centro, non mirare alle passioni di tutti, disertare, prendere confidenza col cielo, ma farlo senza vantarsene, non sputare parole sul mondo e sugli altri, camminare, uscire perché è uscito il sole, uscire, prendere un paese, passarci dentro, non dire nulla del giorno, non accostare niente alla solitudine, lasciarla intatta, lasciare che la solitudine faccia la sua vita, svolga la sua storia e così pure la tristezza e la stanchezza, essere stanchi tristi e soli è comunque una fortuna, i buoni sentimenti rigano il mondo come quelli cattivi, come le parole…

PAESAGGIO CON MACERIE – L’AQUILA (selezione di testi dedicati al territorio aquilano)

interverranno:

  • Franco Arminio – Poeta, scrittore, regista, paesologo
  • Alessandro Vaccarelli – Docente di Pedagogia della cooperazione sociale e internazionale – Università dell’Aquila
  • Rita Salvatore – Sociologa dell’ambiente e del territorio – Università di Teramo

Proiezione del documentario:
Teora 2010- realizzato da Franco Arminio

Pubblicato in Eventi
Giovedì 18 Luglio 2013 18:05

Terre Memori, terre sorelle

Riportiamo la testimonianza di Barbara Vaccarelli pubblicata sul volume Territorio e Democrazia: un laboratorio di geografia sociale nel doposisma aquilano (L’Una, 2012 - a cura di Lina M. Calandra). Il volume è stato presentato nell’ambito del Seminario itinerante sui luoghi del cratere aquilano (3-5 maggio 2013) promosso dalla Società Geografica Italiana e tra le varie iniziative è stato coinvolto anche l'Osservatorio sul Doposisma.

 

 

Non credo che ci sia, oggi, un'altra maniera di salvarsi l'anima. Si salva l'uomo che supera il proprio egoismo d'individuo, di famiglia, di casta, e che libera la propria anima dall'idea di rassegnazione alla malvagità esistente. Cara Cristina, non bisogna essere ossessionati dall'idea di sicurezza, neppure della sicurezza delle proprie virtù: Vita spirituale e vita sicura, non stanno assieme.

Per salvarsi bisogna rischiare.

I. Silone, Vino e pane, 1975

Terre Memori, terre sorelle

A dicembre 2011 si apre all’Aquila Terre Memori: dall’Irpinia all’Aquila. I luoghi dei diritti negati, una rassegna letteraria e di studi sulle comunità del dopo sisma organizzata dalla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università dell’Aquila in collaborazione con L’Aquila e-Motion e l’Osservatorio permanente sul dopo sisma di Auletta-Pertosa. Tutti i libri e documentari presentati fino a oggi hanno concentrato l’attenzione su quanto sia importante non ripetere, qui e ora, gli stessi errori delle ricostruzioni decise 32 anni fa; su come si possa ripristinare (e forse reinventare) un nuovo senso di appartenenza che tenga unita la ricostruzione materiale a quella sociale; sul dovere di vigilare e impegnarsi per scrivere un nuovo capitolo nel territorio aquilano anche attraverso l’apertura verso quelle comunità che nei passati decenni hanno subito decisioni dall’alto.

L’Aquila e-Motion nasce nel 2010 come sito da un gruppo di amici decisi a creare un contenitore di idee, di spunti di riflessioni e anche un raccoglitore di memoria sulla scossa del 6 aprile 2009. Tra i tanti obiettivi del sito c’è quello di favorire lo scambio, la condivisione e il confronto delle idee. È questa nuova vita da terremotata che mi ha portato ad aprire orizzonti di confronto. Gli spunti sono infiniti se vai alla ricerca di chi ha vissuto un terremoto e se costui/costei sa indicarti come sarà tra una settimana, un mese, un anno la tua vita; cosa ti puoi aspettare e cosa ti sarà negato. Dopo aver subito la perdita della mia città il 6 aprile 2009, è stato inevitabile associare ciò che anni prima avevo visto in tv e sentito da tanti amici sulle conseguenze di quel 23 novembre 1980, a ciò che ora vivevo io. Ho capito che vivere un terremoto è fondamentalmente diverso dal sentimento di compassione e dolore  che si prova quando lo si guarda da “fuori”. Con tutto l’impegno possibile non si riesce a comprenderne la portata e quanto ne possa essere travolta la vita, tua e della tua comunità. E la perdita di tutti i punti fermi che la sostengono.

All’inizio di questo percorso “emozionale” ho avuto la fortuna di conoscere all’Aquila  Antonello Caporale in occasione della presentazione del suo libro Peccatori che dedica il capitolo “non uccidere” al sisma del 6 aprile 2009 con la testimonianza aquilana di Rossella Graziani. Da questo momento vengo coinvolta per il sito dell’Osservatorio permanente sul dopo sisma (di cui è direttore Antonello Caporale) che nel tentare di riannodare il filo della memoria dei luoghi colpiti dal sisma del 23 novembre 1980, si allarga agli altri terremoti italiani. L’Osservatorio, finanziato dalla Fondazione MIdA che destina allo scopo, in coerenza con gli obiettivi statutari, parte dei proventi derivanti dalle proprie attività, indaga e analizza le trasformazioni sociali, ambientali, economiche successive al sisma, promuovendo l’analisi e la ricerca scientifica in diverse discipline. È in questo contesto che ho la fortuna di conoscere i “figli del terremoto irpino”, impegnati nella ricerca sul territorio colpito dal sisma del 1980 per capire e ricostruire la storia del “prima” e della ricostruzione non ancora finita; per raccogliere testimonianze; per trovare un modo per ripristinare il meglio del passato proiettandolo in un nuovo futuro che promuova la cultura e le peculiarità dei territori che ancora vivono i segni del loro sisma, nel bene e nel male. È un gruppo di giovani ricercatori e giornalisti impegnati su tantissime tematiche riguardanti il territorio irpino, da quelle sociali a quelle economiche, con particolare attenzione a tenere sempre il filo che lega la memoria dei luoghi. Scrivono, pubblicano, documentano, filmano, denunciano, raccontano quello che non c’è più, quello che servirebbe a correggere – se possibile – le scelte sbagliate della ricostruzione sul loro territorio, stravolto per sempre insieme alla vita, ai paesi della Campania e della Basilicata.

Io sono nata e vivo all’Aquila, terra sorella dell’Irpinia anch’essa su quell’Appennino che ci unisce nel destino delle avversità e della voglia di rinascere dalla distruzione. Per noi qui sono passati poco più di 3 anni da quando abbiamo perduto i nostri luoghi, per gli irpini più di 30 anni. Non ho mai pensato di fare paragoni sui danni materiali, sulle vittime che questi due terremoti hanno provocato.  Ho imparato a non competere su nessuna disgrazia e a pensare che dagli errori e dalla sofferenza provocata da uno Stato “distratto” verso le vite umane, dalle classificazioni sismiche sbagliate della dorsale appenninica, non possono che nascere dialoghi e scambi perché invece, rispetto agli sprechi, alle inefficienze è bene dire le cose come stanno. Nel giro di pochissimi mesi, nel terremoto dell’Aquila si sono spese enormi risorse come sul libro-inchiesta Terremoti S.p.A. di Antonello Caporale è chiaramente messo in evidenza con dati alla mano.

Conta il contesto storico: 1980, periodo storico di grande impegno politico ma anche dell’economia che si avvia a declino; 2009, periodo che raccoglie gli esiti di 20 anni di berlusconismo.

Da la Repubblica, 11 febbraio 2010: "... Alla Ferratella occupati di sta roba del terremoto perché qui bisogna partire in quarta subito, non è che c'è un terremoto al giorno". "Lo so", e ride. "Per carità, poveracci". "Va buò". "Io stamattina ridevo alle tre e mezzo dentro al letto".  Colloquio telefonico all'alba del 6 aprile 2009 tra gli imprenditori Francesco Maria De Vito Piscicelli, direttore tecnico dell’impresa Opere pubbliche e ambiente Spa di Roma, associata al consorzio Novus di Napoli e il cognato Gagliardi.


E conta il ruolo dei media: 1980, gli albori di Mediaset; 2009, l’impero di Mediaset. Ho imparato a capire in questi tre anni cosa riesce a fare la differenza sui trent’anni che separano le due “catastrofi”. Non è la tecnologia a fare la differenza visto che non c’è stata prevenzione né nell’uno né nell’altro caso e visto che il terremoto dell’Irpinia non ha insegnato nulla, o quasi, a questo paese. Negli anni ’80 non c’erano le intercettazioni telefoniche, in questi anni sì. In Irpinia subito dopo il sisma sono nati i comitati, anche all’Aquila. In Irpinia i sindacati furono molto attivi, qui no. Lì si occupò l’autostrada (“Terre in moto” documentario di Citoni, Siniscalchi, Landini 2006) e in alcuni centri storici si proposero ricostruzioni dal basso; qui, le 19 new town sono la prova concreta di una grande mangiatoia, dell’inganno di noi abitanti, dei massimi guadagni per alcune imprese del Nord: sembra che gli isolatori non siano antisismici! Ecco che di nuovo abbiamo toccato con mano che non siamo altro che carne da macello (Il fatto quotidiano, 23 luglio 2012). Dopo il terremoto del 1980 nasce la Protezione civile, quella che nel primo intervento sul cratere aquilano ha salvato moltissime vite, ma per il resto i terremoti restano campo privilegiato del malaffare: così è stato in terra irpina, così è in terra aquilana. Dall’Irpinia nasce, appunto, la Protezione  civile organizzata, dall’Aquila parte una proposta di legge di iniziativa popolare “Legge di solidarietà nazionale per i territori colpiti da disastri naturali” centrata sulla prevenzione, attenta alla gestione dell’emergenza e alla questione dei fondi per la ricostruzione. La legge, se mai fosse stata approvata dal Parlamento (siamo ancora in attesa!), avrebbe avuto utilità e impatto su tutto il territorio nazionale. Equamente per tutti. Perché vorremmo che quello che sta accadendo a noi non accada più. Sono state raccolte 45.000 firme da tutta l’Italia e nell’attesa che qualcosa si muova, abbiamo dovuto assistere ad altre catastrofi registrando la morte di 37 persone a Messina, 6 a Genova e 26 in Emilia. Le conseguenze sono le solite, le misure di emergenza differenti e nulla insegna.

 

Tre anni fa tanti italiani sono stati convinti che L’Aquila non avrebbe avuto la stessa sorte dell’Irpinia, e devo ammettere che anche tanti miei conterranei si sono ostinati a crederlo. Un messaggio martellante: L’Aquila sarà interamente ricostruita. L’unica cosa certa, invece, è che anche qui la decisione di svuotare i centri storici e di allargare le periferie è stato deciso dall’alto. Nella sostanza, dunque, nessuna differenza. Neanche la presa di coscienza che questo è un paese fatiscente. Vanno giù scuole e ospedali, adesso come trent’anni fa, abitazioni nuove e interi palazzi costruiti nel 2000. In Emilia vengono giù capannoni industriali e migliaia – troppe – risultano essere le abitazioni inagibili. Muoiono operai, quasi tutti migranti in cerca di migliori condizioni di vita.

L'Aquila 18 dicembre 2011Nel mio viaggio a Romagnano al Monte “nuovo”, in Irpinia, tocco con mano quello che sento da 3 anni accadere qui: famiglie che vivono in prefabbricati di legno, da oltre 30 anni. Come afferma Antonello Caporale, l’Irpinia durante il post sisma ha avuto un riscatto storico dall’isolamento e dalla povertà, anche grazie alla messa in opera di infrastrutture e vie di collegamento, ma lì come qui si è sacrificato il patrimonio agricolo per la (ri)costruzione al costo dell’identità territoriale e della storia (Convegno-mostra, L’Aquila, 18 dicembre 2011).

Di geografia e paesi mi attira e mi conforta la lettura delle tante pubblicazioni di Franco Arminio, scrittore e poeta dell’Irpinia d’Oriente. Dentro la sua produzione letteraria si trova tutto il significato del terremoto: parla e narra del “post”, dei valori sui quali si dovrebbero basare le comunità tutte, in particolare le nostre duramente colpite dai terremoti, ricercandone le origini attraverso i luoghi e i paesaggi snaturati dalle più scellerate ricostruzioni. Nelle tante riflessioni che Franco Arminio generosamente regala ai suoi lettori, anche sul web (Comunità provvisorie), ritrovo tutte le preoccupazioni che invadono il nostro vivere nel cratere aquilano vittima della stesso destino irpino: “Se vesti la taglia 42, perché compri una 52?” (F. Arminio, Scuola di paesologia).

Cosa raccontare dei miei luoghi? Se è vero che esistono, allora io ne ho vissuti tanti, siano essi fisici o mentali. Ogni luogo col suo ricordo associato a un odore o a un suono, colorato o scolorito, luminoso o buio, distante o vicino. In condizioni di normalità uno stesso luogo può ricordarti quando eri giovane, oppure di averlo vissuto prima della nascita di un figlio e non esserci più tornato da lungo tempo, scoprendo però che in fondo quel luogo non è cambiato troppo; a volte semplicemente anche i luoghi invecchiano lentamente, e solo in certi dettagli si può vedere l’usura o l’incuria; invece a volte sono solo le stagioni a fare la differenza, ma nella sostanza restano immutati. Quel luogo del “prima” di un particolare evento lo trovi sempre là, nella stessa posizione, invecchiato o rinnovato, magari solo trasandato, o al contrario tirato a lucido e se riesci a tornarci, riconosci e rievochi ricordi di volti ed emozioni. È rassicurante tornare nei luoghi che hanno tracciato un vissuto e raramente  queste terre le ho pensate rivolte al futuro, perché per esempio la mia è una città medioevale, almeno fino a 3 anni fa.

Della storia dei luoghi, dei luoghi della mia città, in realtà, ho avuto occasione di occuparmi tredici anni fa, quando  sull’Aquila inizia un percorso editoriale promosso dall’associazione culturale  “Territori” che nel 1999 pubblica il volume Sulle ali dell’aquila dedicato alla scuola primaria e distribuito gratuitamente alle classi IV e V. L’operazione si proponeva l’obiettivo di offrire un supporto per ampliare le conoscenze dei ragazzi sulla loro città. Oggi, è il caso di riprendere quel percorso per offrire uno strumento che, partendo da alcuni punti di riferimento spaziali e temporali, aiuti a maturare la consapevolezza storica e ambientale sul proprio territorio fatto di rotture e continuità. Fino al 6 aprile 2009, quando il terremoto ha segnato in modo indelebile la geografia e la socialità del territorio aquilano. Questo strumento didattico vedrà nella seconda edizione un coinvolgimento diretto dei bambini anche perché “Le situazioni d’emergenza e di post-emergenza causate da catastrofi interrogano l’orizzonte pedagogico e didattico su quali strategie attivare a fronte delle criticità che esse generano sugli individui” (Isidori, Vaccarelli 2012). Gli obiettivi che ci proponiamo di raggiungere alla fine di questo nuovo percorso sono, da un lato, fornire uno strumento didattico per insegnanti e alunni, che ripercorra la storia della città, teatro nel passato di avvenimenti che la memoria ha il dovere di trasmettere; dall’altro, rispondere all’esigenza di ricostruire il senso di appartenenza a un territorio che da secoli ha dovuto fare i conti con la ricostruzione di un doposisma.

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Barbara Vaccarelli
è graphic designer presso un’azienda del Gruppo Telecom, nel settore della formazione. Si occupa di grafica e comunicazione visiva nel campo istituzionale, di marketing e di siti web. Cura l’organizzazione di eventi e progetti editoriali, tra i quali il libro per la scuola primaria Sulle ali dell’Aquila. Un viaggio nella storia della città (I edizione 1999, ed. Territori), attualmente si sta occupando della seconda edizione, come presidente e socia fondatrice dell'Associazione Culturale "Territori".

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“ […] ma in questa terra oscura,

senza peccato e senza redenzione,

dove il male non è morale,

ma è un dolore terrestre, che sta per sempre nelle cose,

Cristo non è disceso.

Cristo si è fermato a Eboli”

(C.Levi)

 

di ANNALISA PERCOCO

La pubblicazione di quello che Rocco Scotellaro ebbe a definire come “[...] il più appassionante e crudele memoriale” della Basilicata finì per consacrare l'immagine della Basilicata come di una terra lontana dalla storia, refrattaria ai cambiamenti. Da lì, infatti, prese avvio un filone di studi che finì per consacrare la regione come metafora del sottosviluppo, bloccata nella sua civiltà contadina, vittima del familismo amorale.

L'immagine della Basilicata isolata, da un punto di vista sociale e culturale, oltre che fisico e arretrata in termini economici, trovava, in realtà, fondamento in alcuni elementi caratterizzanti il sistema territoriale regionale. Innanzitutto, la regione doveva fare i conti, come appuntò già Giustino Fortunato, con tre piaghe: malaria, frane e terremoto, in riferimento alla particolare conformazione fisica del suo territorio, definita da asperità del rilievo, diffuse forme di dissesto idrogeologico, che per lungo tempo hanno condizionato in negativo il controllo delle acque, tanto da aver reso la Basilicata terra di malaria (Boenzi, Giura Longo, 1994).

A tale conformazione naturale nel tempo si sono sovrapposte forme negative di intervento antropico (diboscamento, distruzione dell'originaria copertura vegetale, pratiche agricole errate), determinando, già a partire dalla fine della fase magnogreca e fino alla fine del Novecento, l'esodo delle popolazioni dalla pianura verso la montagna, dove vennero a formarsi grossi centri compatti. Tanto che al 1936 l'86,35% della popolazione lucana risultava agglomerata nei centri e solo il 13,65% sparsa nel territorio, nonostante il carattere prevalentemente rurale dell'economia regionale.

L'abitudine consolidata a vivere accentrati non poteva essere interrotta “[...] se non da un deciso intervento statale, che avesse reso possibile la diffusione stabile nelle campagne dei rurali già abituati a vivere nei centri... In effetti, l'opera di riforma fondiaria fu orientata appunto verso l'aumento della ricettività della campagna...” (Ranieri, 1972, p.179).

Proprio agli interventi di bonifica, in parte realizzati dalla Cassa per il Mezzogiorno, e alla Riforma fondiaria del 1950 si deve il disegno di un nuovo assetto del territorio lucano e l'avvio di lente ma strutturali trasformazioni sociali oltre che economico-produttive. Alla vigilia della riforma, la Basilicata presentava il più alto grado di occupazione agricola rispetto al resto delle regioni italiane. Il 73% della popolazione attiva regionale, infatti, era occupata nel settore primario, mentre solo l'8,3% risultava assorbito dal settore industriale (estrattivo e manifatturiero), il restante 18,7% dal terziario (piccolo commercio e professioni): tale struttura della popolazione era sinonimo di sottosviluppo (Telleschi, 1974).

Nelle aree collinari e pianeggianti l'organizzazione della distribuzione della proprietà fondiaria faceva emergere una persistenza di vasti latifondi, cui si contrapponeva, sul resto del territorio regionale, una elevata frammentazione e polverizzazione della proprietà.

Le tecniche agricole impiegate erano arcaiche, buona parte della produzione (per lo più seminativi semplici e piante legnose) non veniva commercializzata ma era destinata all'autoconsumo e i livelli di vita dei contadini erano disumani. Due le possibilità che si aprivano ai contadini lucani: ci fu chi si rassegnò alla vita di stenti che quella Basilicata poteva garantire e chi, al contrario, scelse l'esodo.

A interrompere, se pure solo in parte e solo in alcuni contesti territoriali, l'immobilismo della struttura sociale e dell'economia regionale concorsero due interventi di politica economica statale, l'approvazione nel 1950 della legge stralcio con cui si dava attuazione alla riforma fondiaria in parte finanziata dalla Cassa per il Mezzogiorno (istituita nello stesso anno), e il riconoscimento, sulla base della legge n.634/57 istitutiva dei nuclei e delle aree industriali, dei due nuclei industriali lucani siti lungo la valle del Basento, l'uno ai piedi del capoluogo regionale e l'altro gravitante sui giacimenti di metano rinvenuti a Ferrandina.

La legge di riforma agraria, a lungo dibattuta in sede di politica nazionale, fu pensata proprio come uno strumento per mutare in profondità la struttura del paese, in modo da risolvere la questione della polarizzazione fondiaria, definita da Segni il grande problema sociale dell’agricoltura (discorso che tenne nel maggio 1948 al Consiglio Nazionale della Dc).

La riforma fondiaria, intesa come un intervento finalizzato al ridimensionamento dei monopoli fondiari, con successiva distribuzione della terra tra i contadini, connessa agli interventi di bonifica (irrigazioni, miglioramenti fondiari, infrastrutturazione, appoderamenti e colonizzazioni) realizzati nei territori sottoposti a esproprio ebbe un impatto notevole sul paesaggio italiano, meridionale e, quindi, lucano.

In modo particolare, in Basilicata la riforma agraria ha segnato in positivo le sorti dell’unica vera pianura della Basilicata (Boenzi- Giura Longo, ivi, p. 34), il Metapontino, a quella data terra di  malaria e di degrado fisico e sociale. Dall’altro lato, la “svolta industriale” nella politica meridionalista, che ha portato tra il 1959 e il 1960 alla nascita dei due nuclei industriali lucani, ha se non altro imposto all’attenzione delle classi politiche locali la necessità di programmare lo sviluppo della regione in maniera integrata, contribuendo, in qualche misura, alla definizione di un nuovo assetto territoriale.

Sull’impatto dell’industrializzazione per poli in Basilicata in termini di occupazione alquanto critico è il giudizio di Biondi: “A circa quindici anni dal suo avvio, la politica di industrializzazione per poli non sembrava aver mantenuto fede a quelle aspettative che la forte demagogia che un’ampia parte politica aveva alimentato presso le popolazioni locali. Rispetto alla auspicata creazione di circa 1.500 posti di lavoro per anno, ne erano stati attivati poco più di un terzo per un totale in un decennio di circa 6.100, dei quali il 60% in Val Basento e la rimanente parte nell’agglomerato potentino” (Biondi, 1997, pp.227-228).

Nel decennio successivo gli sforzi progettuali furono, dunque, tesi da un lato al rafforzamento dell’articolazione infrastrutturale della regione, già avviata dal programma di industrializzazione (la costruzione della S.S. Basentana), dall’altro al potenziamento del sistema produttivo regionale attraverso investimenti per settori (Comitato per la programmazione economica della Basilicata, 1967). Nelle aree della regione in cui si erano concentrati i grandi investimenti realizzati nell’ambito dell’Intervento straordinario (Metapontino, Val Basento, capoluogo regionale), nel corso degli anni Settanta cominciarono a farsi evidenti gli effetti positivi delle politiche di sviluppo intraprese negli anni precedenti, che avevano avviato la grande campagna, come era definita la Basilicata negli anni Cinquanta, verso la modernizzazione e lo svecchiamento del suo modello economico (Viganoni, 1989).

Purtroppo, però, l’andamento demografico nel periodo considerato faceva registrare un continuo decremento della popolazione, che aveva condotto a un progressivo impoverimento di molte aree di montagna e di collina (soprattutto in provincia di Potenza) e a una discreta vitalità demografica per lo più concentrata nei due capoluoghi e nelle fasce costiere (ionica e tirrenica) (Viganoni, 1992). Un altro momento di cesura nella storia socio-economica della Basilicata è rappresentato dal violento sisma che l’ha scossa nel novembre del 1980, a seguito del quale sul territorio regionale si sono concentrati interventi connessi con nuove forme di sostegno pubblico. “Nella scia dell’ si collocano, infatti, sia i finanziamenti destinati dallo Stato alla ricostruzione edilizia sia quelli convogliati nel settore industriale con la legge 219 del 1981” (Viganoni, 1997, p.18).

Tale legge, che esemplificava lo “slogan coniugare ricostruzione e sviluppo” (Sommella, 1997, p.252), ha costituito un’ulteriore occasione di destabilizzazione del precedente assetto territoriale, attraverso una politica di “industrializzazione diffusa” che ha portato alla definizione di otto aree industriali nel Potentino (Nerico, Melfi, Vitalba, Baragiano, Balvano, Tito, Viggiano e Isca Pantanelle) per un totale di ottanta iniziative progettate e finanziate. L’intervento ha, se non altro, contribuito a delineare, come elemento di novità, un polo agro-alimentare tra i comuni del Vulture (Atella, Melfi, Rionero), grazie alla presenza di alcune grandi imprese nazionali del settore (Parmalat di Atella, Barilla di Melfi), che ha costituito anche una prima forma di valorizzazione dei prodotti dell’agricoltura.

Alla fine degli anni Ottanta, dunque, sembrava stesse per compiersi un processo di trasformazione, per quanto lento e parziale, della base produttiva della regione; si registrava, infatti, un moltiplicarsi di iniziative locali, anche grazie agli incentivi previsti dalla legge sull’imprenditoria giovanile (44/86), un fiorire dei commerci, un incremento nel numero di occupati nella pubblica amministrazione, oltre a un tasso di industrializzazione più alto in entrambe le province lucane.

Agli anni Novanta risalgono le due iniziative industriali più importanti degli ultimi trenta anni per l’economia regionale, destinate ad avere un peso rilevante in termini di trasformazione territoriale: l’insediamento FIAT-SATA a S. Nicola di Melfi e il distretto del salotto, a cavallo tra alcuni comuni del Materano e parte della Murgia pugliese. A queste iniziative va aggiunta l’attività estrattiva di petrolio in Val d’Agri, avviata nel 1996.

Nel corso di un quarantennio (1950-1990), dunque, l’impianto economico-territoriale della Basilicata ha subito un graduale processo di articolazione e differenziazione delle sue trame, a partire da un omogeneo stato di arretratezza.

Nello specifico, già negli anni Novanta sembrava di poter distinguere sul territorio regionale quattro sub-aree, ciascuna delle quali “[…]impegnata a far emergere un proprio autonomo potenziale, con tempi e risultati tutt’altro che analoghi e sincronizzati” (Coppola,Viganoni, 1999, p.197). I sistemi locali individuati allora, da cui oggi provengono ulteriori conferme, sono: il Potentino; il Vulture-Melfese; il Materano; il Metapontino.

La tendenza alla polarizzazione dello sviluppo in poche aree strategiche (i centri urbani maggiori o i sistemi territoriali “di cerniera” come il Vulture o il Metapontino) ha, però, nel tempo accentuato gli squilibri interni alla regione. Mentre, infatti, i comuni interni, da sempre connotati con l’espressione metaforica di “presepi”, continuavano a perdere popolazione e risorse, i “poli” di sviluppo, al contrario, fungevano da contrappeso allo spopolamento interno facendo registrare sensibili incrementi demografici.

Tuttavia, l’immagine appena delineata di una regione articolata in alcune polarità insediative e funzionali sembrerebbe trovare ulteriore conferma dall’analisi di alcuni dati relativi agli anni più recenti. Le performances positive in termini sia demografici sia produttivi riguardano, infatti, ancora i due capoluoghi e parte dei loro intorni, soprattutto i comuni di cerniera con le altre regioni, alcuni centri della Val d’Agri e del Metapontino, mentre le aree più interne continuano a svuotarsi e a perdere potenziale umano (Stanzione, Salaris, Percoco, 2007).

Per quanto non sia riuscita a incidere strutturalmente sul territorio lucano, tuttavia è innegabile che questa parabola evolutiva abbia dato un impulso notevole agli spazi lucani nel processo di articolazione interna e di sperimentazione di direttrici di sviluppo diversificate. Tale articolazione, come già emerso, ha finito per acuire i divari interni al territorio regionale, senza, per altro, trovare soluzione alla latitanza urbana di cui da sempre soffre la Basilicata.

Si impone, quindi, la necessità di individuare e attuare politiche di potenziamento dell'armatura urbana e strategie volte al rafforzamento della coesione territoriale, allo scopo di ridimensionare i divari centro-periferia, interno-esterno che ancora definiscono il territorio lucano, come per altro impongono le politiche comunitarie.

 

Riferimenti bibliografici

Bernardi E., La Riforma Agraria in Italia e gli Stati Uniti. Guerra fredda, Piano Marshall e interventi per il Mezzogiorno negli anni del centrismo degasperiano, Bologna, il Mulino, 2006

Biondi G., Dalle “Cattedrali nel deserto” alla “Fabbrica integrata”,in Viganoni L., (a cura di), op.cit., 1997, pp.225-249

Boenzi F., Giuralongo R., La Basilicata. I Tempi. Gli Uomini. L’Ambiente, Bari, Edipuglia, 1994

Comitato regionale per la programmazione economica della Basilicata, Schema di sviluppo regionale per la Basilicata. Quinquennio 1966-70, Potenza, 1967

Coppola P., Viganoni L., Basilicata: il modello dei piccoli ?, in Viganoni L.(a cura di), Percorsi a Sud. Geografie e attori nelle strategie regionali del Mezzogiorno, Fondazione Giovanni Agnelli, 1999, pp.187-219

Ranieri L., Basilicata, Torino, UTET, 1972

Sommella R., Dal terremoto alle fabbriche, in Viganoni L., (a cura di), op.cit., 1997, pp.251-268

Stanzione L., Salaris A., Percoco A., Le sottili trame del tessuto urbano lucano, in Viganoni L. (a cura di), Il Mezzogiorno delle città. Tra Europa e Mediterraneo, Milano, Angeli, 2007, pp.222-245

Telleschi A., Esodo agricolo e trasformazioni agrarie nel Metapontino, in Atti XXII Congresso Geografico Italiano, vol.II, tomo 1, 1977

Viganoni L. Basilicata: positiva articolazione delle trame regionali, in Landini P., Salvatori F.(a cura di), I sistemi locali delle regioni italiane (1970-1985), Memorie Società Geografica Italiana, Roma, 1989, pp.480-486

Viganoni L. (a cura di), Città e metropoli nell’evoluzione del Mezzogiorno, Milano, Angeli, 1992

Viganoni L. (a cura di), Lo sviluppo possibile. La Basilicata oltre il Sud, Napoli, ESI, 1997

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