Gli anniversari vanno sempre rispettati, specie se per molte comunità e per molte persone sono momenti in cui si corre con la mente a un evento luttuoso e tragico, il terremoto del 23 novembre 1980.
Le date da ricordare sono utili anche a guardare indietro e rendersi conto del cammino fatto, ma anche a fare una pausa per capire se il presente è realmente quello che ci aspettavamo e quale prospettiva di futuro si delinea all’ orizzonte.
Per i 36 comuni nei quali i danni furono disastrosi, e dove morirono circa tremila persone, il 23 novembre è ancora una ferita aperta, e 32 anni non sono bastati a ricucirla e a lenire il dolore.
Per l’Italia delle polemiche e dell’opinione pubblica alimentata a dovere dai media il terremoto dell’Irpinia significa ancora oggi scandalo, enorme spreco di denaro, ruberie e quei centesimi che ancora vengono pagati sull’ accisa sulla benzina.
E’ quello che è stato ricordato qualche mese fa in qualche servizio televisivo e giornalistico, quando il CIPE ha ripartito tra i comuni terremotati 33,4 milioni di euro per il completamento di opere e progetti collegati alla ricostruzione in Campania e Basilicata. Questi erano fondi decisi dalla finanziaria del 2007 e nel 2010 era stato formalizzato il decreto ministeriale, ma ancora non erano stati ripartiti tra i comuni per la realizzazione delle opere.
Alla notizia, su molti siti e su qualche giornale sono uscite parole di condanna e sdegno per l’ennesimo scandalo targato Irpinia, e ancor di più le polemiche si sono fatte sentire dopo il terremoto in Emilia, soprattutto per iniziativa della Lega Nord.
Sicuramente tutto il capitolo di spesa direttamente o indirettamente al terremoto e alla ricostruzione ha rappresentato una pagina difficilmente ripetibile per la quantità di denaro impiegata (più di 32 miliardi di euro) e per i tempi nei quali la ricostruzione è avvenuta.
Ma la memoria pubblica deve anche contemplare quei tremila morti dei paesi dell’Appennino, che abitavano in piccoli centri inadatti a sopportare una scossa così violenta (6.9 scala Richter) e che, per di più, dovettero aspettare tantissime ore prima di veder arrivare i soccorsi.
Una novità che si può cogliere, quando si parla di rischio sismico o dissesto idrogeologico, è il fatto che si sta parlando sempre più diffusamente di prevenzione, di piani complessivi per evitare che la prossima catastrofe ponga in pericolo l’incolumità di chi vive in territori a rischio. Si vedrà se alle buone intenzioni seguiranno azioni concrete, investimenti e progetti.
I dati dicono che il 36% dei comuni italiani è a rischio sismico e il 58% della superficie del paese è a rischio frana o alluvione. Dal 1944 al 2012, si è speso circa 3,5 miliardi di euro di media annua per i danni provocati da terremoti, alluvioni e frane ( sono i dati del rapporto ANCE sullo Stato del territorio italiano).
Nell’ultimo anno, dall’alluvione che ha colpito Genova il 4 novembre 2011 e la Lunigiana qualche giorno prima, fino alla sentenza sulla commissione Grandi Rischi a l’Aquila, passando per il terremoto in Emilia e a quello del 26 ottobre scorso sul Pollino, il problema di come fronteggiare e, se possibile, evitare i pericoli derivanti dai disastri è diventato di attualità e fatto comprendere che sono diversi i nodi da sciogliere.
Ad esempio, i comuni devono predisporre i piani di protezione civile, divulgarli, fare esercitazioni e lavorare affinchè funzionino. Quanti sono i comuni italiani che su questo aspetto sono pienamente in regola?
L’anniversario del 23 novembre 1980 serve a discutere, ancora una volta, di prevenzione, di azione comune tra chi opera per quella che una volta si chiamava “pubblica incolumità” e oggi protezione civile.
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