Erano più di cento i sindaci delle Langhe che lo scorso 27 aprile hanno salutato per l’ultima volta l’imprenditore Pietro Ferrero. Tre i maxischermi posti nel piccolo paese di Alba, famoso per il tartufo quanto per la nutella, e dove ha sede il colosso della Ferrero. La presenza dei sindaci, cento sindaci, pur sembrando un atto dovuto, un dovere istituzionale, dà la misura del legame, della riconoscenza tra la cittadinanza e l'azienda.
La famiglia Ferrero dell’impresa ha fatto una filosofia di vita e della riservatezza un tratto distintivo, in un mondo che da quel che sembra va nel senso opposto. Del compianto Pietro Ferrero il vescovo di Alba, monsignor Giacomo Lanzetti, durante l’omelia ha detto: “Un esempio di rettitudine, laboriosità, sensibilità e onestà, un uomo vero e serio su cui la comunità ha potuto contare”. Apparentemente impostata su un modello novecentesco d’impresa, nel concreto la Ferrero Spa si sostanzia in un colosso con oltre 20.000 dipendenti sparsi in 18 stabilimenti nel mondo.
Ma può una multinazionale (suoi i marchi Nutella, Kinder, Estathè, Tic Tac), un’azienda globale, riuscire mantenere un’etica dei rapporti, una dignità industriale, un legame forte con la comunità di appartenenza? A volte, eccezionalmente, accade. E la Ferrero rappresenta una di queste poche eccezioni.
Eppure, se davvero si vuol conoscere la Ferrero, la sua storia, il perché della reverenza nei suoi confronti, i motivi del rispetto bisogna allontanarsi dalla terra dei falò, quella che ha dato i natali a Cesare Pavese e Paolo Conte. Per capire l’unicum di quest’azienda bisogna rotolare verso sud, lasciare a Sicignano degli Alburni la Salerno-Reggio e imboccare la leggendaria SS. 407. E, basento basento, giungere a Balvano (Pz).
A Balvano alle 19.34 del 23 novembre del 1980 venne giù tutto. Nel crollo della chiesa morirono in 77, quasi tutti bambini, il resto anziani. Il futuro e il passato. A Balvano scesero a piangere Papa Wojtyla e Sandro Pertini. E poi aiuti internazionali, volontari, medici, soldati. E quando questi andarono via arrivarono i soldi, tanti soldi, forse troppi. La legge 219/81 individuò Balvano quale uno dei venti paesi in cui operare un esperimento di industrializzazione. La gente chiedeva pane e lavoro. Lo Stato portò le industrie. Ai contadini e i pastori fu offerto di lasciare campi e bestiame, per accudire i loro nuovi padroni: le macchine. Gli sprechi della 219 furono scovati nel 1990 dalla Commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Oscar Luigi Scalfaro. E dopo 10 anni messi in fila e incolonnati in 239 pagine dalla Corte dei Conti. «L’obiettivo del legislatore – si legge nelle conclusioni della sentenza – era quello di stimolare le imprese del nord a trasferire impianti e investimenti nel mezzogiorno, in modo da sollecitare la crescita dell’imprenditoria locale, ma ciò non si è realizzato visto che molte imprese hanno considerato la legge una occasione per accedere a finanziamenti pubblici, ed esse, ottenuto il consistente acconto iniziale, pari al 90%, non hanno portato a termine l’iniziativa, mentre tutti i provvedimenti legislativi successivi si sono rivelati nient’altro che un rifinanziamento delle imprese locali; infatti, gli acconti iniziali erogati nella misura del 70% del contributo concesso, pari al 75% degli importi previsti nel progetto presentato, hanno indotto, in molti casi, le imprese a non concludere gli interventi programmati.» Lo Stato scopre ancora una volta un grande canale da cui drenare avidamente soldi. «Qui al sud abbiamo avuto più soldi nel dopo terremoto che in cento anni di unità d’Italia» commentò cinicamente uno dei massimi gestori di quei fondi, Paolo Cirino Pomicino. Va da sè, allora, che in un tale sfacelo, in una tanto commiserevole stagione politica, un’ordinaria esperienza industriale rappresenti un fiore cresciuto sul cemento della ricostruzione.
Perché il caso dell’impianto Ferrero a Balvano, è allo stesso tempo un caso straordinario e normale, anzi, straordinario perché normale.
Tre delle sei aziende previste sul territorio di Balvano non hanno mai aperto, o poco dopo hanno chiuso. Dei 450 addetti, oltre ’85% sono occupati presso la Ferrero. E di tutte le aziende delle 20 aree industriali realizzate con i soldi della 219 solo l’azienda di Alba ha raddoppiato gli addetti previsti.
Eppure, più d’una volta l’azienda dolciaria è stata, per così dire, tirata per la giacca nelle magagne del doposisma. Lo fece, ad esempio Enzo Di Carlo, sindaco di Balvano per il lungo periodo della ricostruzione. Quando Scalfaro lo interrogò dinnanzi la commissione parlamentare d’inchiesta, chiedendogli perché dopo avere localizzato l'area industriale a Baragiano, a 300 metri sul livello del mare, è stato deciso di sdoppiarla costruendone metà lì e metà a mille metri d'altezza, in cima alla
montagna che domina la valle, il sindaco democristiano rispose che fu invitato a farlo dalla dirigenza della Ferrero. «Ce l' hanno chiesto loro. Dicevano che lassù le merendine lievitano meglio». «E lei ci viene a dire che l' area industriale è stata spostata in montagna, spendendo tutti quei soldi, per le merendine?» fu la basita replica di Scalfaro. Il conto della spesa fu fatto anni dopo dalla Corte dei Conti. Quasi un milione e mezzo di euro ad operaio impiegato. Buana parte spesi in bustarelle. Ma la Ferrero non fu nemmeno sfiorata dallo scandalo, né confermò mai le parole dell’ex sindaco.
La Ferrero sfornava merendine, mentre la politica armeggiava il pubblico denaro.
Ma la grandezza di un’impresa come poche nel mondo si misura anche dalla resistenza al passare del tempo e delle stagioni. Quella politica e quei politici sono passati, finiti nell’oblio della loro mediocrità, la Ferrero è rimasta. A stringere un legame con i luoghi. Tra gli scaffali del più sperduto negozietto di paese fino ai mercati finanziari di Hong Kong. A Balvano come a Francoforte, nelle Langhe come a Wall Street la buona impresa tira dritto, nonostante tutto.
Continuano gli scambi culturali promossi dalla Fondazione MIdA nel settore della disastrologia veterinaria. Dopo il LXV convegno nazionale S.I.S.Vet. (Società Italiana delle Scienze Veterinarie) tenutosi a Tropea il 7-10 settembre, il nuovo appuntamento al quale ha partecipato la Fondazione MIdA è stato l’evento formativo sulle emergenze non epidemiche organizzato dall’Istituto Zooprofilattico Sperimentale dell’Umbria e delle Marche e svoltosi a Perugia il 15 e 16 settembre.
In questa occasione, infatti, la mostra “1980-2010: 30 anni di Medicina Veterinaria delle Catastrofi” della Fondazione MIdA ha rappresentato uno spunto interessante rispetto alla discussione sui temi della disastrologia veterinaria.
I poster esposti hanno raffigurato le testimonianze, le procedure, i modelli di gestione delle emergenze sanitarie attivati dai servizi veterinari a partire dal sisma del 1980 fino a quello del 2009, che ha colpito l’Abruzzo.
La mostra, allestita dalla Fondazione MIdA nel 2010 per il trentennale del terremoto dell’Irpinia che colpì i comuni di Auletta e Pertosa, è stata curata dal dott. Raffaele Bove, Disaster Manager nonché Dirigente Veterinario dell’ASL di Salerno.
Durante la due giorni di formazione, presiedute da Gina Biasini - Veterinario IZS Umbria e Marche, si è discusso della necessità di tracciare un piano di gestione ma soprattutto di prevenzione sanitario-veterinario delle emergenze non epidemiche.
A tal proposito il Presidente della Fondazione MIdA Francescantonio D’Orilia ha dichiarato: “Lo scambio di riflessioni e analisi sulla disastrologia veterinaria tra la Fondazione MIdA e altri esperti del mondo sanitario come l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale dell’Umbria e delle Marche rappresenta una soddisfazione ma anche il riconoscimento che - a livello nazionale- è sempre più attuale l’attenzione alla prevenzione e alla gestione delle possibili future catastrofi naturali e/o provocate nel territorio italiano. Dunque, l’idea della Fondazione MIdA di dedicarsi a questa attività di ricerca si è rivelata lungimirante”.
Per ulteriori info www.disastrologiaveterinaria.it
Non bastano trent’anni per riavere una casa degna di questo nome. “La storia insegna, ma non ha scolari”, sosteneva Gramsci. Quanto sia vero lo si capisce in giornate come queste e in luoghi come questi, segnati da grandi drammi collettivi. A trent’anni dal sisma che ha cambiato le vite e la storia di un intero territorio, a Campagna (Sa), a pochi chilometri dall’epicentro, la Guardia di Finanza sequestra un cantiere di novanta appartamenti destinati ai terremotati dell’80. Motivazione: gravi carenze strutturali. In particolare, la struttura si stava edificando con cemento di pessima qualità (con una tenuta dell’85% inferiore alla norma) e con il 40% di ferro in meno rispetto alla legge. In più la costruzione, quattro palazzine in tutto, è localizzata in una zona altamente sismica. Campagna nel 1980 subì la distruzione dell’intero centro storico e la morte di cinque persone. Il sequestro, peraltro, avviene nel giorno del secondo anniversario del terremoto aquilano, dove proprio i difetti strutturali degli edifici sono stati tra i motivi della scomparsa di tante persone. A denunciare le inadempienze delle ditte appaltatrici, tutte locali, gli stessi operai: «Anche io abito in una casa popolare, ma non voglio costruire una casa dove chi vi abiterà correrà pericolo - dice uno di loro – Denuncio tutto per scrupolo, so che perderò il posto di lavoro».
Lo perderà senz’altro il posto di lavoro, ma nel contesto generale il suo è un gesto eroico. Perché l’eroe è qualcuno che compie un atto di coraggio, al solo scopo di proteggere il bene altrui o comune, malgrado questo comporti il consapevole sacrificio di sé stesso. «Eseguite i lavori di notte, perchè di giorno potrebbe arrivare un controllo – si sentivano dire gli operai – questi sono gli ordini e bisogna rispettarli altrimenti si va a casa». Allora, tutti a casa, come nel film di Comencini, perché il terremoto è come una guerra e il doposisma come un dopoguerra.
Tutti, meno loro: i terremotati di Campania e Basilicata, che dopo trent’anni dovranno ancora aspettare.
A Calabritto su circa 2800 abitanti ne morirono cento. Il paese cadde al suolo come sotto un bombardamento. Da queste parti i soccorsi arrivarono dopo quasi tre giorni. A mani nude e con la forza della disperzaione i sopravvissuti cercarono di salvare i loro congiunti, gli amici, i vicini di casa. Dopo i soccorsi, con la primavera, arrivarono i container: vi restarono per 25 anni. La ricostruzione, lentissima, ha spazzato via il centro storico, sostituito oggi da una grande (ma desolata) piazza. Anche per questo, la ricostruzione della comunità, malgrado i soli 1800 abitanti attuali, pare non essere mai del tutto partita.
Ventidue morti, decine di feriti, il paese distrutto. Fu questo il lascito del sisma dell’80 sul paese di Muro Lucano. Posto al confine con la provincia di Salerno, Muro è un paese ricco di storia e di fascino: un paese-presepe con le case disposte a schiera. La sera del 23 novembre 1980 fu messo in ginocchio. Morti, feriti, e l’80% delle case gravemente danneggiate. Trent’anni dopo Muro si è risollevata. Oggi l’emigrazione e la disoccupazione sono le grandi tragedie. La ricostruzione, infinita, attende invece d’essere ultimata.
Per Muro un buon pezzo di strada è stato compiuto, ma altra ne resta da fare.
Calitri è un paese cartolina. La sua conformazione piramidale, da modello presepiale, la rende una perla di bellezza dell’intero meridione d’Italia. Il magazine online «International Living» ha inserito la piccola cittadina nella prestigiosa lista dei «Nine places where you can retire and live like a king» (letteralmente: I nove posti dove puoi andartene in pensione per viverci come un re).
In bilico su una frana antichissima, il paese, secondo i geologi, scende di alcuni metri ad ogni terremoto. La sua congenita instabilità, probabilmente, servì a tenere in piedi le antiche case anche la sera del terremoto: incredibilmente Calitri, quel tragico 23 novembre del 1980, fu appena danneggiata e alla fine contò “solo” cinque vittime.
23.11.1980 ore 19.34
Tra i primi luoghi citati da radio e televisioni nelle ore seguenti la scossa delle 19.34, Balvano è un paese segnato nella sua storia recente da grandi tragedie collettive.
Il 2 marzo del 1944 in una galleria ferroviaria tra le stazioni di Balvano e Bella-Muro avvenne il più grave disastro ferroviario della storia d’Italia. La Galleria delle Armi fu il teatro della tragedia: 517 persone (secondo i dati ufficiali) asfissiate dalle esalazioni di monossido di carbonio provenienti delle locomotive, dopo che il treno, per via della pendenza della linea ferrata e del carico eccessivo, s’era arrestato.
Ma Balvano, come detto, fu uno dei luoghi simbolo anche del sisma dell’80. La maggior parte delle vittime (77 in totale) morirono nel crollo della chiesa di S.Maria Assunta, dove il cedimento di tutta la parte anteriore e del portale di ingresso (dovuto ad uno sciagurato restauro) bloccò la fuga dei fedeli. Quei fedeli, 66 tra bambini e adolescenti, segnarono il più feroce tributo della Lucania al sisma del 1980.
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