di Michele Mignogna
Terremoto. Uffici bloccati e i tecnici non possono consegnare i progetti.
Che il modello Molise sulla ricostruzione post sisma sia definitivamente naufragato è ormai una certezza, che la ricostruzione si è piantata al 35% è un altro dato di fatto. Ma il problema più grave è che con la fine dello stato di calamità i tecnici e i progettisti non sanno a chi consegnare i progetti, determinando in questo modo ritardi incolmabili.
La ricostruzione post sisma in Molise è nel caos totale, un fallimento più volte annunciato ma al quale nessuno ha inteso mai porre rimedio, cosi oggi ci ritroviamo il Presidente Iorio con l’ennesimo rinvio a giudizio, questa volta sull’allargamento del cratere sismico, con centinaia di famiglie fuori casa a proprie spese nonostante non sono stati loro a provocare il terremoto del 2002, imprese ormai alla canna del gas, il tutto sommato al periodo di grave crisi che il Molise come il resto del mondo sta attraversano, rischiano di innescare una miccia che a breve potrà far saltare tutto. L’ultimo fatto, anzi paradosso direi, è che i progettisti che devono consegnare gli elaborati agli uffici regionali non possono farlo perché nessun ufficio, dopo la chiusura della struttura commissariale, si sente autorizzato a ritirarli, determinando in questo modo ritardi che saranno deleteri per quei cittadini che seppur raggiunti dal contributo non possono iniziare per questi motivi, ma da dove nasce “l’inghippo” e chi potrebbe risolverlo? Durante tutto il periodo della ricostruzione, e quindi della presenza degli uffici sisma in ogni comune, erano loro a fare un primo esame dei progetti, per poi mandarli nella sede commissariale a Campobasso dove due commissioni controllavano e valutavano i progetti, e soprattutto per snellire le procedure erano loro che rilasciavano la famosa Autorizzazione Sismica Preventiva, dopo di che convocavano la “conferenza di servizio” e li si dava il via libera ai lavori, certo anche in questo caso il tempo che passava dalla consegna del progetto fico all’autorizzazione era abbastanza lungo, oggi invece non essendoci più la struttura commissariale nessuno sa chi deve fare cosa per la ricostruzione. Attualmente infatti l’Agenzia Regionale per la Protezione Civile, quella che dovrebbe completare la ricostruzione, ritiene che non si debbano rilasciare più le Autorizzazioni Sismiche Preventive (perché non si è più nella fase di emergenza) ma bisogna procedere come prevede la L.R. 25/11 (in realtà la LR 20/96 visto che il regolamento di attuazione della LR 25/11 non è stato ancora approvato). Il problema è che se provi a depositare i calcoli di una struttura che ha usufruito, o che deve usufruire, del contributo post sisma, seguendo le procedure indicate dalla L.R.20/96 il deposito viene rifiutato dal Servizio Tecnico per le Costruzioni della Regione Molise, perché ritengono di non avere la competenza. Non solo, attualmente ci sono numerose istanze di Autorizzazione Sismica Preventiva in fase di rilascio che la struttura commissariale ha “trasferito” all’Agenzia e che giacciono da qualche parte da diversi mesi da quando a maggio è stata istituita l’Agenzia. E ancora con il Decreto del Commissario Delegato il n.°6 del 28 gennaio 2010 gli interventi di “riparazione funzionale” (i famosi 20.000 euro per intenderci) sono stati trasformati in interventi strutturali per un importo pari almeno al 90% della cifra concessa .Per questi prima non era necessaria alcuna autorizzazione perché appunto la caratteristica della procedura dei 20.000 euro era la snellezza del procedimento, oggi dovrebbe essere necessario avere l’autorizzazione sismica o il deposito. Non ci sono indicazioni in merito e, comunque, non è possibile procedere nemmeno con gli interventi di “riparazione funzionale”. Una situazione insomma, al limite della sopportazione, dove chi ha il dovere di intervenire non lo fa, ma intanto gli stipendi del dirigente e dei funzionari dell’Agenzia Regionale di protezione Civile sono stati adeguati e gli altri si arrangino, non riescono nemmeno a dire con chiarezza quando, come e in che modo il concorso per i tecnici degli uffici sisma si farà, lasciando nel limbo 250 persone che per dieci anni hanno lavorato per il sisma. Bastasse che il Presidente Iorio dicesse che questo lavoro può farlo, tranquillamente l’ufficio tecnico regionale per il momento, e poi successivamente, dopo il famoso concorso, tornare nelle competenze della struttura post sisma.
di Ivana Marino
Il 20 e il 29 maggio scorso due eventi sismici hanno colpito nuovamente il nostro Paese. La successione sismica che ne è derivata, fino al 26 giugno scorso, è stata caratterizzata da sette altri eventi principali di magnitudo uguale o superiore al 5° della scala Richter e ha interessato una zona ampia del Nord Italia. Come in occasione di ogni evento sismico, il 20 maggio è cominciata la fase di emergenza, la conta delle vittime, la stima dei danneggiamenti delle strutture, degli sconvolgimenti al tessuto socio-economico. Il terremoto in Italia “congela” un territorio, arresta il sistema, produce paura, dolore e danni inestimabili, segna le vite di chi è sopravvissuto, genera interrogativi. Nessun sentore? Nessun allarme? Nessun avvertimento? Queste le domande più frequenti.
Il tema di discussione diventa la previsione, confusa con la predizione, all’idea rassegnata che seppure non si può sfuggire alla distruzione, allarmati in tempo si potrebbe perlomeno scampare alla morte. Il punto focale è, invece, che la distruzione, e le vittime che ne conseguono, possono essere evitati.
Oggi abbiamo le conoscenze e anche gli strumenti per impedire che un terremoto come quello occorso in Emilia provochi scenari simili. Conosciamo, puntualmente oramai, la pericolosità sismica del nostro territorio ovvero la probabilità che si verifichi un evento di una determinata intensità in un determinato luogo. Non siamo in grado però di “predire” un evento naturale ovvero determinare il luogo, l’ora e la data del prossimo terremoto, non ne esiste evidenza scientifica a livello mondiale. Sono gli strumenti di conoscenza delle vulnerabilità del costruito e gli strumenti tecnici, oggi disponibili, che rappresentano il punto di svolta. Purtroppo in Italia paghiamo il prezzo altissimo di un territorio che presenta un rischio sismico elevato a causa dell’elevata vulnerabilità del nostro patrimonio edilizio, che dipende dall’evoluzione delle conoscenze, e, non da meno, dalla vetustà, dalla quasi totale assenza di manutenzione dei manufatti edilizi.
La “disordinata” classificazione sismica del nostro Paese ha influito in maniera sostanziale sulla capacità sismica delle costruzioni esistenti. Si pensi che la prima classificazione sismica “ragionata”, ovvero costruita su basi scientifiche, è stata adottata soltanto in seguito al terremoto lucano-irpino del 1980. La classificazione, fino ad allora, “inseguiva” gli eventi dichiarando sismiche le sole zone colpite. La grave conseguenza è che nella maggior parte delle zone di elevata sismicità, ovvero nel 45% del territorio nazionale, si è cominciato a costruire con criteri antisismici solo dopo gli anni Ottanta. Ciò ha prodotto la drammatica conseguenza che circa l’80% del nostro patrimonio non è stato pensato né costruito per fronteggiare azioni di carattere sismico.
Se focalizziamo l’attenzione sull’Emilia Romagna, risulta chiaramente dalle mappe sismiche riportate nel seguito che fino al 1998 la Regione, per la quasi totalità, non era classificata sismica. L’effetto è che tutto quanto costruito fino al 1998 non è stato concepito con criteri antisismici. Le strutture, seppure progettate nel rispetto delle norme vigenti, non sono chiamate a rispondere ad azioni orizzontali equivalenti del sisma atteso, ovvero di quello più probabile.
La combinazione dei fattori “esposizione”, ovvero numero di beni presenti sul territorio, “vulnerabilità”, ovvero attitudine degli stessi a danneggiarsi, e “pericolosità”, ovvero probabilità che su un territorio si manifesti un determinato evento naturale, definiscono il rischio di un territorio, e nel caso specifico, il rischio della Regione Emilia Romagna. E’evidente che mentre la pericolosità è funzionale soltanto delle caratteristiche geofisiche del territorio, l’esposizione e la vulnerabilità sono il risultato dell’attività dell’uomo sul territorio stesso. L’impossibilità di governare il fenomeno naturale e la generale improponibilità di delocalizzare i beni vulnerabili dalle aree maggiormente pericolose mostra quale unica strada percorribile per la mitigazione del rischio, l’attuazione di interventi atti a diminuire la vulnerabilità del costruito.
L’Emilia Romagna, in questo particolare momento storico, è il simbolo di un Paese che, ciclicamente colpito da eventi naturali, continua altrettanto ciclicamente a piangere le vittime dei disastri e a subire gli sconvolgimenti del tessuto socio-economico che ne conseguono, a fronte di accurate mappe di pericolosità e di norme per la progettazione in zona sismica tra le più avanzate al mondo. Purtroppo però nonostante i progressi compiuti e gli strumenti avanzatissimi ormai disponibili, ancora oggi le politiche di mitigazione del rischio attuate sul territorio nazionale sono del tutto inefficaci.
Il susseguirsi degli eventi disastrosi, in particolare a seguito del crollo della scuola elementare di San Giuliano di Puglia, nel 2002, ha contribuito ad accelerare il processo di promulgazione delle conoscenze e introdotto l’obbligo per le amministrazioni di procedere alla verifica statica e sismica delle strutture strategiche o rilevanti, ovvero di quelle che rivestono un ruolo importante sul territorio quali ospedali, caserme o scuole, entro i 5 anni successivi. Tuttavia, ad oggi, solo un numero drammaticamente esiguo di costruzioni è stato oggetto di tale verifica.
A tre anni dalla tragedia aquilana, e a valle della crisi sismica appena occorsa in Emilia, è doveroso prendere consapevolezza che soltanto una politica che miri ad aumentare la sicurezza delle nostre case, delle nostre scuole e delle nostre strutture pubbliche e, non da meno, del nostro patrimonio culturale, potrà scongiurare la prossima tragedia, consapevoli che, intervenire puntualmente sulle strutture esistenti non permette di sollevare in maniera sostanziale la soglia del rischio. Una seria azione volta alla riduzione del rischio di un territorio è possibile e richiede la necessità di intervenire sul costruito in maniera tale da diminuire gradualmente la vulnerabilità e la fragilità del tessuto edilizio.
Resta, dunque, oggi più che mai, l’urgenza di incentivare ed adottare diffuse politiche finalizzate alla mitigazione del rischio. La scarsezza delle risorse economiche disponibili non può costituire un alibi dell’assenza di politiche di mitigazione, piuttosto, rende improrogabile un celere e attento censimento della vulnerabilità del nostro patrimonio abitativo e culturale al fine di costruire liste di priorità per investire in maniera tale da ridurre progressivamente il rischio residuo della collettività. A tal fine potrebbe essere opportuno adottare politiche di incentivazione per la riqualificazione e sostituzione edilizia che non siano gravate da cavilli burocratici. La sostituzione edilizia, nel nostro Paese infatti, è ancora guardata con una certa “resistenza”, ma spesso rappresenterebbe la soluzione economicamente più conveniente anche in considerazione delle “prestazioni” che si riescono a perseguire.
Resta, ancora oggi, da migliorare la filiera dei controlli in fase di progettazione e di realizzazione e,
l’intenzione oramai consolidata di costruire albi di esperti in Ingegneria Sismica rappresenta un’importante presa di coscienza in questa direzione.
L’introduzione di un’assicurazione obbligatoria delle proprie abitazioni nei confronti dei rischi naturali, così come già è consuetudine fare nei confronti dell’incendio o del furto per le proprie auto, potrebbe rappresentare l’occasione per aumentare la consapevolezza e la percezione del rischio nella collettività e “sfatare” il mito dell’eternità delle nostre abitazioni. La “certificazione sismica” delle nostre abitazioni, come quella energetica, rappresenterebbe inoltre l’occasione per incentivare gli interventi di consolidamento statico e sismico necessari.
E’ urgente sensibilizzare la collettività in modo che, per prima, pretendi l’attuazione di una politica di prevenzione. Rafforzare e diffondere la “cultura” del rischio affinché il terremoto non sia più guardato, con fatalismo, come un evento disastroso ma come un evento da poter fronteggiare adeguatamente, è prioritario.
È fondamentale che la prevenzione cominci adesso, mentre si è ancora impegnati nelle operazioni di primo soccorso e di messa in sicurezza, mentre ancora l’attenzione è alta, perché non succeda ancora che, terminate le fasi emergenza, restino solo le polemiche, perché investire in prevenzione significa investire affinché il disastro non accada.
Ivana Marino è Ingegnere Civile, Dottore di Ricerca in Ingegneria delle Strutture e del Recupero Edilizio ed Urbano presso l'Università degli studi di Salerno. Mail: Questo indirizzo e-mail è protetto dallo spam bot. Abilita Javascript per vederlo.
Nei giorni in cui il sisma colpisce l'Emilia, viaggio tra le macerie del terremoto d'Abruzzo. Tra palazzi senza vita e anti-città senz'anima. Una lente speciale per vedere come l'Italia affronta i disastri
di BARBARA SPINELLI da Repubblica.it
L'AQUILA - Mi sono detta che bisogna andare all'Aquila, per vedere attraverso questa lente speciale come l'Italia rischia d'affrontare i disastri: il disastro che colpisce oggi l'Emilia, ma tante altre sventure. Andare all'Aquila è scoprire che storia sciagurata c'è dietro l'oggi, se non schiviamo tutti assieme il baratro in cui è stata gettata la bellissima capitale dell'Abruzzo, dopo la scossa che l'ha frantumata il 6 aprile 2009 alle 3 e 32 di notte. Mi sono accinta dunque a una sorta di archeologia del presente: per giudicarlo nelle sue stratificazioni, per non scordare l'Aquila pensando l'Emilia. Perché di questo muore ogni giorno di più la capitale abruzzese, e i 56 Comuni franati con lei: di una diffusa amnesia, di un'ipnosi senza fine.
L'Operazione Aquila è stata questo, e se non vai e non vedi continuerai a credere nella favola raccontata per tre anni da Berlusconi, scortato da un'avida schiera di affatturatori: da Guido Bertolaso al Tg1. Da gennaio le cose sono in mano al ministro per la Coesione territoriale, Fabrizio Barca, ma non è chiaro se lo scempio iniziale - l'esautorazione di poteri locali e sovrintendenze da parte della Protezione civile, la verità occultata - sia davvero combattuto. Gli affatturatori hanno ottenuto che nelle teste degli italiani (ma non più in quelle abruzzesi) la menzogna attecchisse: l'Aquila rinata, la catastrofe vinta.
È il più gigantesco teatro d'illusioni che l'ex premier abbia apprestato, nella sua storia politica e
prima ancora. Far vivere gli italiani nell'illusione fu sempre il dispositivo centrale della sua macchina (Milano2 nacque negli anni '70 con lo stesso proposito: incapsulare gli abitanti in una specie di supercondominio, non esposto agli infiniti azzardi delle metropoli) e ogni illusionismo politico secerne l'osceno.
Siamo abituati a chiamare osceni i festini di Berlusconi. Ma la vera pornografia è qui, nel cratere sismico dell'Aquila. Difficile descrivere diversamente un cataclisma trasformato prima in show dell'illusionista, poi in planetario spettacolo al G8 del 2009, poi in affare e malaffare. Questo è infatti pornografia: rappresentare in maniera compiaciuta, ossessiva, soggetti e immagini ritenuti sconci per stimolare eroticamente chi guarda.
Qui si trattava di stimolare la stasi dei cervelli, seducendo non solo gli abruzzesi ma tutti noi con immagini che adulterassero la rovina, la sottraessero alla vista, offrissero calmanti anziché rimedi agli abbandonati e umiliati. La pornografia suscita all'inizio eccitazione e sfocia presto in noia, quindi oblio: questo è accaduto nel cuore d'Abruzzo.
La manovra è pienamente riuscita perché proprio oggi, che in Emilia bisognerebbe far memoria dell'Aquila e salvare l'una e l'altra, quasi nessuno nomina l'Abruzzo, confermando così che l'inferno di nuovo incombe. In una rappresentazione teatrale allestita in aprile da Antonio Tucci e Tiziana Irti (Mille giorniracconti dal disastro dell'Aquila) la protagonista prima finisce in un accampamento, poi in una delle New Town pomposamente sparse attorno al capoluogo. Dice, accovacciata nella sua tenda blu: "Noi, qua, stiamo come dentro una bolla, e ci galleggiamo... Che fine faremo? Secondo me, prima o poi... Bum! scoppia! ".
È veramente scoppiata, quando Berlusconi se n'è andato ed è subentrato Monti? Di certo son cambiati gli uomini: Fabrizio Barca difficilmente accetterà l'andazzo degli affatturatori. Ma se vai all'Aquila, nei borghi ormai invasi dall'erba, nelle città satellite, ti rendi conto che tutto è fermo, che l'operazione-depistaggio non è correggibile se non la denunci a chiare lettere. Che la devastazione è lì, cadavere inalterato che s'aggiunge ai 309 morti del 6 aprile.
Esattamente come la descrive nel 2010 Sabina Guzzanti, nel film Draquila. Esattamente come la raccontano Salvatore Settis (Repubblica, La Pompei del XXI secolo, 7-4-12) o Tomaso Montanari, professore di storia dell'arte a Napoli (Il Fatto, 16-3-12), o il giornalista Giustino Parisse (sul quotidiano Il Centro), da quando nella sua Onna perse il padre e due figli. Ogni atto di seduzione si prefigge di creare mondi artificiali: nel mito, è talento demoniaco.
L'Aquila che ho visto è questo artificio, che dà il capogiro. È un enorme buco nero, un luogo di non-vita dove tutto è restato allo stadio di detrito, di avanzo. Esito, come davanti a un corpo vivisezionato, a elencare quel che s'intravvede negli squarci dei muri: una moka rimasta sui fornelli, le piastrelle illese d'un bagno, una foto appesa alla parete. L'antropologo Antonello Ciccozzi, dell'Università aquilana, spiega il naufragio della sua città, nel bel documentario di Luca Cococcetta e Iginio Tironi (Radici- L'Aquila di cemento): "Mentre in una situazione normale esiste un nucleo abitativo e un anello di circolazione, all'Aquila si è prodotto un anello abitativo e un nucleo di circolazione". La città com'era prima (come dovrebbe essere ogni pòlis) è cancellata, non solo dal terremoto: la sua metamorfosi in centro commerciale è possibile.
L'Operazione Aquila è stata una macchina mobilitata contro l'idea stessa di città, di democrazia cittadina. L'invenzione seduttiva di Berlusconi aveva questa diffidenza come fondamento: la diffidenza per la città che si fa comunità, che non è un mucchio di alloggi e individui ma relazione fra cittadini, spazio pubblico, incontro ineluttabile, e fecondo, con il diverso. Quando atterrò all'Aquila l'8 aprile 2009, e incontrò il sindaco Cialente, il Premier offrì subito un rimedio rivoluzionario che conosceva bene, dai tempi di Milano2. La soluzione erano le New Town, poi le casette o i cosiddetti Map, Moduli abitativi provvisori.
Le New Town avrebbero regalato quel che i terremotati, secondo Berlusconi, amavano di più: non la pòlis, ma la tana casalinga. Le tane sarebbero nate presto: entro sei mesi, sotto la guida colonizzatrice della Protezione civile. Son dunque andata a vedere le New Town: a Bazzano, Paganica, Onna. A volte sono immensi caseggiati spalmati su piastre antisismiche, rette da pilastri. Ce ne sono 19. Qualcuna è colorata di giallo-marrone, altre sono biancastre e paiono carceri.
Quasi ogni borgo distrutto ha, accanto, uno di questi abitati paralleli. Altre volte sono casette, allineate come loculi. Le ho osservate a Paganica: vedo tendine, stradine, fazzolettini d'erba davanti alle porte, e nient'altro. Ogni diminutivo ha dietro di sé una ferocia, sempre. Nulla accomuna le tane a una città, nulla accomuna le persone spossessate che incontro a cittadini.
Il primo gesto di verità dovrebbe consistere nell'abbandono di queste parole - città, cittadini - per salvarle. Perché non c'è civiltà urbana senza piazza, chiesa, servizi comuni, luoghi di ritrovo. Senza quelle che Leopardi, nella Ginestra, chiama le conquiste dell'uomo: riconoscere l'immane danno che può nascere dalla natura, e per questo confederare gli uomini, stringere "i mortali in social catena", dar vita al conversar cittadino, diffidare di chi annuncia magnifiche sorti e progressive, e stipa l'umana gente in New Town attizzando oblio e paura: paura di riprendersi la città, di non superare il trauma, di sapere.
Le New Town sono anti-città: sono dormitori, fanno pensare all'autistico rinchiudersi in casa che i giapponesi chiamano hikikomori. Sono un'insidia perversa, inoltre. In pratica sono regalate, in comodato gratuito: il comodante le consegna al comodatario perché se ne serva per un tempo determinato, con l'obbligo di restituirle intonse. Non puoi portare mobili della tua casa. "La gratuità è un disincentivo a riappropriarti della vecchia abitazione - mi dice Luisa Ciammitti, aquilana, direttore della Pinacoteca Nazionale di Ferrara - blocca ogni rapporto tra pari".
Se hai paura di nuove scosse, se non vuoi spendere, vivacchi senza comunità, ma vivacchi almeno. Naturalmente se sei solo e anziano, o non hai l'automobile, sei perduto: chi farà la spesa per te, nei lontani centri commerciali? È vero quel che disse Berlusconi, quando fece il miracolo di casette e New Town: il panorama è fantastico, a Paganica vedi il Gran Sasso, il verde, gli alberi. E se non vai in estasi guardando dalla finestra, volti le spalle ed ecco l'altro panorama, più vero ancora del vero: il fluorescente rettangolo della TV. Da 40 anni, è il fulcro delle città berlusconiane.
Già nel 1977, parlando con Camilla Cederna, un Berlusconi "con faccino tondo, nemmeno una ruga, un nasetto da bambola ", s'apprestava a trasmettere la sua Telemilano (futuro Canale 5) che avrebbe irrigato Milano2. (Serve una città? Chiama il Berlusconi - Espresso, 10-4-1977).
È strana, la storia delle New Town. I ministri di Monti farebbero bene a studiarla, visto che chiedono meno spese. I costi delle Città Nuove per lo Stato sono stati smisurati: ben 2800 euro il metro quadro. Le abitazioni sono perfettamente antisismiche, è vero. Ma chi sogna la ricostruzione dell'Aquila e dei borghi (una decina ridotti in polvere) ha idee ben diverse. Si poteva risparmiare molto, mi dice Mario Ciammitti, un ingegnere che ristruttura edifici distrutti nella zona.
L'alternativa c'era: i container hanno dato ottime prove nell'80 in Irpinia. "Oggi ce ne sono di molto accoglienti. Costano circa quattro volte meno delle New Town (800 euro il metro quadro) ed essendo davvero provvisori spingono a ricostruire la città perduta, e non modificano il paesaggio in modo definitivo".
Quanto tempo si resterà invece nelle New Town? Quanto durerà quella che tanti, qui, chiamano "deportazione"? Una signora dislocata nelle tane di Bazzano con marito e due figlie mormora che la voglia di ritorno è grande, ma lo è anche il vantaggio della rinuncia: "E poi il terremoto ci ha cambiati dentro. Di continuo ci snerviamo, ci spazientiamo".
Le New Town sono sedativi potenti, e questo spiega forse l'inane spreco. Non meno inane l'aeroporto di Preturo, inaugurato da Berlusconi il 2 luglio 2009 ("Sarà il punto di partenza della rinascita dell'Abruzzo e della sua economia!"). È stato usato per i viaggi del Premier, poi per una visita di Paolo Barilla nell'agosto 2009. Costo: 30 milioni di euro. Dice ancora Mario Ciammitti: "Con quei soldi si potevano rifare almeno 100 abitazioni in Aquila centro". Lo stesso si dica per le operazioni-spettacolo: il G8, e ben tre auditori tra cui quello di Renzo Piano (costo: 6 milioni).
Anche qui, Eventi e Show hanno ignorato i bisogni dei cittadini- non più cittadini. E L'Aquila vera, e i borghi? Fasciati in scatole di ferro, le case se ne stanno buie, scheletriche: insensate e dispendiose scatole, visto che tanti palazzi occorre abbatterli per rifarli. Giri nel centro dell'Aquila e senti un silenzio come in un non-luogo: non utopia ma distopia, mondo indesiderabile sotto tutti i punti di vista. Dagli spiragli dei portoni escono folate di freddo, eppure è quasi estate.
Si capisce che da tre anni non sono abitate da calore. Ancor peggio a Onna, ma Onna ha avuto una fortuna in mezzo alla sfortuna. È quanto confida un dirigente della Proloco: "Senza l'aiuto dei tedeschi e del comune di Trento non ce l'avremmo fatta a ottenere le casette qui accanto, dove gli onnesi son restati vicini, i nuclei familiari non sparpagliati come in genere è avvenuto ". Con gratitudine si evoca una persona, in particolare: l'ex ambasciatore Michael Steiner, che adottò il borgo dissolto. Che ha vegliato, puntiglioso, sulla sopravvivenza del sentimento di comunità. Che ha insistito perché nel villaggio artificiale ci fosse una chiesa di legno dove gli onnesi resuscitano una parvenza di conversar cittadino. Un eccidio avvenuto l'11 giugno 1944 - furono fucilati 17 abitanti - è all'origine di questa solidarietà. "La strage ha creato un legame", dice un onnese.
Gli occhi gli si riempiono di lacrime, non sa come continuare. La gratitudine, il ricordo di chi si spese aiutando e sorreggendo: è una stampella che tiene in piedi quasi più dei ponteggi. Ovunque, sulle mura di case e palazzi, i vigili del fuoco hanno lasciato tracce del loro passaggio. Angeli, li chiamano qui. Ma la riscossa c'è. È scattata subito dopo la lettura delle intercettazioni sulla cricca che profittò del terremoto.
Ricordo quando Carlo Bonini, su Repubblica, pubblicò la famosa conversazione fra Piscitelli, direttore tecnico dell'impresa Opere pubbliche, e il cognato Gagliardi, la notte del sisma ("Io stamattina ridevo alle tre e mezzo dentro al letto"). Era l'11 febbraio 2010. Il 14 febbraio, a san Valentino, centinaia di aquilani sfondano le transenne della zona rossa presidiata dai militari, si mettono a raccogliere e catalogare detriti, ricominciano la città. Nasce il popolo delle carriole. È l'equivalente delle Trümmerfrauen ("donne dei ruderi") che nel dopoguerra tedesco ricostruirono le città bombardate.
Dice Eugenio Carlomagno, del comitato Centro storico da salvare: "Chiusi nelle case antisismiche, nei moduli abitativi provvisori, abbiamo capito che non sapevamo dove andare: non c'è un teatro, non c'è una biblioteca, non ci sono più i bar del centro. Ci siamo accorti di essere persone che debbono solo comprare cibo al supermercato, mangiare e guardare la televisione. Abbiamo detto basta". Speriamo che la loro battaglia sia ascoltata, a Roma. Solo così rinascono le civiltà, e il conversar cittadino.
di Michele Mignogna
Quasi 5 milioni di euro per una bretella di 700 metri, e 15 milioni di euro per i canali di scolo intorno al piccolo centro terremotato. Mentre in Emilia si continuano a contare i danni e a cercare soluzioni per ricostruire e ripartire, in Molise il terremoto ha rappresentato un’occasione per pochi, e San Giuliano è l’esempio degli sprechi legati all’emergenza.
La ricostruzione a San Giuliano di Puglia il piccolo centro molisano colpito dal sisma del 2002, è ormai giunta al termine, e tra sprechi e inutilità, rappresenta ormai, a ragione, l’emblema di come le emergenze in questi anni in Italia hanno arricchito solo alcuni soggetti, alcune imprese ed alcuni tecnici, a spese della collettività. Cosi succede che a San Giuliano di Puglia, il costo per le opere pubbliche sia più del doppio delle opere private, in poche parole hanno speso quasi 200 milioni di euro tra palestre, piscine, strade, canali di scolo e via dicendo, mentre decine di famiglie vivono ancora nel villaggio provvisorio, costato anch’esso diversi milioni di euro.
La strada d’oro massiccio
Andiamo con ordine e vediamo ad esempio come sia possibile spendere la bellezza di quasi 5 milioni di euro per 700 metri di strada. La bretella, perché tale è, in sostanza gira intorno al piccolo centro fortorino, e poteva diventare un’ottima “circonvallazione” in cui deviare il traffico più o meno pesante, 700 metri dicevamo, che in macchina si percorrono in qualche minuto, Soggetto Attuatore del progetto il famoso Claudio Rinaldi, uomo di Bertolaso e della famosa cricca della Protezione Civile, Rinaldi nell’incontro in cui si decise di spendere questi soldi per la strada disse che ci sarebbero voluti pochi mesi per rendere fruibile la strada, e soprattutto che doveva diventare una via di sfogo per il traffico, che poteva non essere tutto convogliato nel centro del paese. Ebbene, a dieci anni dal terremoto, e a otto anni dall’inizio dei lavori la strada non è ancora terminata, ed è costata, tra varianti e imprevisti, la bellezza di quattro milioni e settecentomila euro, non un solo problema rispetto a prima del terremoto è stato risolto, e nemmeno una casa è stata messa in sicurezza, infatti, le case che si trovano su questa stradina d’oro, hanno le porte d’ingresso proprio su di essa, insomma prima di uscire di casa bisogna guardare a destra e a sinistra, e stare attenti a che, una macchina non entri dentro, e pensare che nel progetto iniziale era stato previsto anche lo spostamento di quella famosa casa, per far guadagnare metri in più alla strada, ma cosi non è stato. Un’enormità se si pensa che la strada sia stata rifatta tal quale a com’era prima del sisma, e per non spostare di mezzo metro una casa, la strada diventa percorribile solo per utilitarie e due ruote, a fronte dell’annuncio fatto dal Sindaco Luigi Barbieri, e dal genio Claudio Rinaldi, di volerci deviare il traffico pesante. Uno spreco che messo accanto ad un altro e più grande spreco, fa riflettere su come, la ricostruzione in Molise, abbia effettivamente arricchito solo alcuni soggetti.
Canali di scolo di platino
Come per altre zone terremotate, uno dei primi interventi che solitamente vengono effettuati nei comuni pesantemente colpiti dal sisma, è quello per risistemare i canali di scolo delle acque piovane, semplici canali che raccolgono l’acqua quando piove e la convogliano verso i corsi d’acqua, il tutto per evitare infiltrazione e altri problemi. Il Comune di San Giuliano per questo intervento ha speso la bellezza di 15 milioni di euro, il paragone che possiamo fare, l’ultimo in ordine di tempo, è con il sisma dell’Umbria, ebbene in questa regione, nel 1997 ad essere colpiti dal sisma sono stati poco più di 100 comuni, ognuno dei quali per risistemare i canali di scolo ha speso, a lavoro terminato, 1,3 milioni di euro, il solo comune di San Giuliano ha speso come 11 comuni umbri che non sono proprio piccoli, non male per chi accusa certa stampa di cercare visibilità sulla disgrazia che ha colpito la scuola Jovine. Ma perché si è arrivati a tanto, e come mai sono stati spesi tutti questi soldi? Nel Comune di San Giuliano, e anche questo è al vaglio degli inquirenti della Procura frentana, a gestire la ricostruzione sono stati davvero in pochi, infatti ci si aspettava che con tutti questi denari impiegati, le imprese operanti siano state tante, invece no, sono solo due le imprese, tutte e due della Provincia di Isernia ad aver realizzato le opere a San Giuliano, tanto che in una relazione dettagliata che riposa nei cassetti della Procura della Repubblica di Larino si chiede come mai nessuno dei lavori assegnati da Claudio Rinaldi, all’epoca della sua permanenza in terra molisana, sia stato affidato a ditte e imprese locali, attendiamo pazientemente le adeguate risposte. Questa è la prima stranezza, la seconda stranezza sono gli stati di avanzamento, e relativi progetti di variante che sono stati utilizzati, in alcuni casi, si parla di 10 varianti presentate nell’arco di 24 mesi di lavoro, questo è il metodo, più semplice e più remunerativo per spillare soldi pubblici della disgrazia, infatti, ad ogni stato d’avanzamento corrisponde un aumento del prezzo del lavoro in essere, e più stati d’avanzamento ci sono, più aumenta il prezzo, ma i lavori realizzati restano sempre quelli, anzi le case che si trovano a valle del paese, ogni volta che piove sono invase da acqua e fango, in quanto gli argini costruiti sono molto piccoli rispetto alla portata dell’acqua. Insomma per quattro canali di scolo ed una stradina di 700 metri sono stati spesi 20 milioni di euro, per questo motivo San Giuliano rappresenta in Molise il cuore pulsante della ricostruzione fatta con metodi discutibili, non lo diciamo noi ma le inchieste in corso, coordinate dalla Procura della Repubblica di Larino, che a breve daranno anche i frutti che tutti sperano.
da Abruzzo24ore.tv
L'Italia è una terra a rischio sismico e tre anni dopo il terremoto dell'Aquila, secondo tre diversi studi sismici (uno dei quali prodotto da Vladimir Kossobokov, scienziato dell'Accademia delle Scienze Russa) resta molto elevata la possibilità che in un'area di 400 km di raggio, tra la Calabria e la Sicila, possa avvenire un terremoto di magnitudo 7.5.
Una intensità migliaia di volte più forte di quella del terremoto che colpì L'Aquila tre anni fa. Alcuni esperti insistono anche sul rischio che i nuovi eventi sismici possano essere amplificati dalla devastazione di stabilimenti industriali e chimici. Si chiamano RIR in gergo tecnico, un acronimo che sta per Rischio Incidente Rilevante.
Un'inchiesta di Rainews, firmata da Mario Sanna e Maurizio Torrealta, andata in onda due giorni fa, racconta quali sono le previsioni, come sta avvenendo il monitoraggio sugli eventuali terremoti e in quale situazione versano gli impianti RIR.
Carlo Doglioni, docente di Scienza della Terra dell’Università di Roma, Antonella Peresan, ricercatrice dell’Università di Trieste, Alessandro Martelli, direttore dell’Enea di Bologna, Giuliano Francesco Panza, professore di sismologia dell’università di Trieste, Vladimir Kossobokov, scienziato dell’Accademia delle Scienze Russa e altri esperti, hanno presentato nuovi esperimenti e studi realizzati indipendentemente che portano tutti alla stessa conclusione: al Sud Italia, e soprattutto in Calabria e Sicilia, c’è il rischio che si verifichi un terremoto di magnitudo 7.5 Richter.
E precisamente a Milazzo e a Priolo (vicino ad Augusta). Mentre gli altri Paesi si dotano di normative specifiche per la progettazione sismica degli impianti RIR, in Italia la normativa attuale è insufficente e i controlli affidati solo ai gestori. Per questo la Commissione Ambiente della Camera ha presentato una interrogazione parlamentare e una Risoluzione per prevenire per quanto possibile ogni rischio.
L’inchiesta racconta quali sono le previsioni, come sta avvenendo il monitoraggio sugli eventuali terremoti e in quale situazione versano gli impianti RIR.
“Il Sud cambierà, uscendo dallo stallo, solo quando le persone decideranno di rischiare”. Lo ha dichiarato Fabrizio Barca, ministro per la Coesione Territoriale, anticipando i temi che toccherà nel corso degli incontri di sabato 15 ad Auletta e Pertosa. “Non vale più la pena andare in cerca di privilegi, la partita è ora collettiva
– ha proseguito - Bisogna convincersi che il mondo può migliorare, ma ciò accadrà soltanto se coloro che hanno delle idee saranno messi in condizione di emergere”.
Il ministro sarà ospite della tre giorni dedicata al concorso “Co/Auletta. Le tue idee abitano qui”. Dal 14 al 16 aprile 2012 i cinque gruppi finalisti si confronteranno ad Auletta e Pertosa con i giurati e con gli attori locali nell’ambito del workshop finale.
“Mi riempie di soddisfazione che i progettisti e in particolare i finalisti abbiano colto gli assi portanti della visione strategica di MIdA – ha sottolineato il presidente della Fondazione MIdA Francescantonio D’Orilia - La Fondazione sta lavorando, ormai da dieci anni, all’implementazione di un efficace modello di sviluppo locale. Tutto ciò indica che stiamo andando nella direzione giusta, quella della sostenibilità e della
replicabilità del modello stesso”.
Ricco ed interessante il programma. Sabato 14 aprile alle 9,30 presso la Casa delle parole ad Auletta inizierà il confronto tra partecipanti, organizzatori e giuria. Ospite Gianni Pittella, vice presidente vicario del Parlamento Europeo. Alle 17,30, presso il Museo MIdA01 a Pertosa, si terrà l’incontro “Chi ci accompagna nell’internazionalizzazione” con Silverio Ianniello (consigliere Fondazione MIdA), Antonio Marino (direttore generale BCC di Aquara), Stefano Aumenta (direttore generale BCC di Sassano), Carlo Barbieri (ICCREA Holding), Pietro Celi (direttore del Dipartimento per l’impresa e l’internazionalizzazione del Ministero dello Sviluppo Economico), Nicola Falcone (presidente API salerno), Virgilio Gay (direttore Fondazione MIdA), Massimo Lo Cicero (economista).
Domenica 15 aprile alle 10,00, invece, il presidente dell’associazione RENA Francesco Luccisano e la direttrice scientifica della Fondazione MIdA Mariana Amato incontreranno ad Auletta i finalisti. Ospiti i governatori Stefano Caldoro (presidente Regione Campania) e Vito De Filippo (presidente Regione Basilicata), nonché Fabrizio Barca (Ministro per la Coesione Territoriale).
Caldoro, De Filippo e Barca interverranno poi alle 11,30 presso il MIdA01 a Pertosa al dibattito “SUD – Liberare le energie, far vincere le idee”, a cura di Antonello Caporale, giornalista di Repubblica e direttore dell’Osservatorio permanente sul dopo sisma. Al tavolo dei relatori lo scrittore Pino Aprile, il presidente della Fondazione per il Sud Carlo Borgomeo, il direttore della Fondazione MIdA Virgilio Gay, il giornalista Gianluigi Paragone e il presidente di Symbola e presidente onorario di Legambiente Ermete Realacci.
di Gian Antonio Stella dal Corriere della Sera del 26 marzo 2012
In media 1.333 morti l' anno. Il bilancio degli studiosi Emanuela Guidoboni e Gianluca Valensise sul peso economico di 34 grandi sismi
Colpite le stesse zone: stessi errori su prevenzione e ricostruzione
«H iiii! Volete portare jella?» Così rispondono gli abusivi ad Aldo De Chiara, se il magistrato che combatte gli obbrobri edilizi di Ischia ricorda loro il terremoto catastrofico del 1883. Ma è l' Italia tutta che non vuole sapere, non vuole ricordare, non vuole affrontare il tema. Pur avendo avuto in media, dall' Unità ad oggi, almeno 1333 morti l' anno sotto le macerie dei disastri sismici. Sei volte i morti dell' Aquila. Lo documenta il libro di due studiosi, Emanuela Guidoboni e Gianluca Valensise, «Il peso economico e sociale dei disastri sismici in Italia negli ultimi 150 anni», un volumone di 551 pagine edito da Bonomia University. Racconta che dal 1861 ad oggi nel nostro Paese, tra i più martoriati, ci sono stati 34 terremoti molto forti più 86 minori. Anzi, il regno italiano si trovò subito in carico le rovine di altre catastrofi appena accadute nei territori che erano stati pontifici e napoletani: del 1851 e poi del 1857 in Basilicata, del 1853 in Campania, del 1859 in Val Nerina. E come scrivono gli autori, in quel Mezzogiorno dove «su 1.848 comuni, 1.321 erano privi di collegamenti stradali» (a dispetto dei rimpianti per il meraviglioso Regno delle due Sicilie), «la sfida delle ricostruzioni fu forse una delle prime perse dal nuovo regno». Avrebbe potuto fare un figurone, l' Italia, dimostrandosi più materna ed efficiente, ad esempio, di Ferdinando II che dopo il terremoto del 1857 aveva mandato in Basilicata l' intendente Rosica col mandato di dar fondo alla beneficenza e alle casse comunali, che già erano vuote. Di più: la somma «irrisoria» raccolta senza che i regnanti mettessero mano al portafoglio «fu impiegata in modo a dir poco singolare, se si pensa che più di 20.000 ducati furono spesi per il restauro di chiese, cappelle e monasteri di suore». Peggio: un anno dopo un «rescritto» reale «stabilì che per reperire i fondi necessari per la ricostruzione delle chiese parrocchiali della provincia di Basilicata si riutilizzasse il legname impiegato nella costruzione di baracche finanziate dalle casse comunali». Scelta indecente accolta dalle proteste della popolazione terremotata, «che si vedeva privata anche di un alloggio precario». Avrebbe potuto fare un figurone, l' Italia, con intellettuali come Giacomo Racioppi scandalizzati dall' inefficienza borbonica: «Il governo di Napoli sovvenne a tanta jattura scarsissimo e male». Ma non andò così, scrivono gli autori: «La cura per le ricostruzioni non fu certo un elemento a favore del nuovo governo, che non seppe o non volle valutare la portata e le conseguenze di quegli impatti devastanti, né l' importanza di una risposta adeguata». Ovvio: «Altri erano i problemi da risolvere per i nuovi regnanti: stroncare ogni spirito di rivolta, ogni aspirazione di autonomia». Un errore fatale. Come di errori è costellata tutta la storia degli interventi di soccorso, delle ricostruzioni, delle regole antisismiche via via dettate per evitare nuove tragedie ma mai fatte applicare. Al sud, come al Nord. Spicca, tra le storie infami, la decisione delle autorità militari, dopo il sisma del 23 febbraio 1887 a Bussana, vicino a Sanremo, di sgomberare il paese prima ancora di scavare tra le macerie e «ordinare la fucilazione per chiunque fosse rientrato nel borgo». Una scelta malvagia: «Nella notte alcuni uomini tentarono di forzare il blocco attorno a Bussana, furono scoperti dalle sentinelle che aprirono il fuoco, ma quattro riuscirono comunque a penetrare nel paese, dove cominciarono a scavare tra le macerie, estraendo tre donne ancora vive». C' è da vergognarsi, a rileggere quanto fece l' Italia per la gente di Bussana rimasta senza casa sugli Appennini a fine inverno. Niente. Un mese dopo «ai superstiti, circa 700 persone, fu concessa una quantità di legname sufficiente solo per costruire 50 baracche. Divennero la casa dei bussanesi per cinque anni, ma non furono gratuite. Infatti, fu richiesto il pagamento del trasporto e l' affitto delle tavole di legno, a fronte dell' impegno a restituirle integre, pena il pagamento delle stesse». E come dimenticare il terremoto di Messina del 1908? Mentre i marinai d' una flottiglia russa di passaggio si precipitavano a scavare distribuendo agli scampati l' acqua delle caldaie e gli inglesi giunti da Malta si dannavano a spegnere incendi e curar feriti, la «Regina Elena» e il «Napoli», rimasero per ore ferme in porto con i terremotati che li invocavano dal molo. Scrisse la «Gazzetta» che «c' erano ufficiali e marinai messinesi che avrebbero voluto scavare con le unghie fra le macerie. Ufficiali che si vergognavano della loro inazione forzata...». Perché restarono fermi lì? Dovevano aspettare l' arrivo del re. Il disastro del 1908, scrivono Emanuela Guidoboni e Gianluca Valensise, «lasciò un' impronta indelebile nella realtà complessiva delle aree distrutte e nella memoria storica dell' intero Paese, colpendo la coscienza civile non solo degli italiani, ma anche dell' Europa e dell' America». Fu dopo quella catastrofe, che uccise 58mila persone e demolì «una città moderna, economicamente e culturalmente molto attiva», che si tentò infine di mettere in ordine le regole anti-sismiche già abbozzate nei decenni precedenti dall' Italia, dai Borbone, dallo Stato pontificio. Neppure il terremoto che nel 1915 avrebbe annientato Avezzano (dove morì il 95% dei diecimila abitanti e restò su un solo edificio: uno) e quelli del 1920 in Garfagnana, del 1928 in Carnia, del 1930 nel Vulture, del 1962 in Irpinia, del 1968 nel Belice, del 1976 in Friuli, del 1980 ancora in Irpinia, del 1990 in Val di Noto, del 2002 nel Molise e del 2009 in Abruzzo, più decine di scossoni minori, sono riusciti però a conficcare nella testa degli italiani ciò che è chiarissimo ai giapponesi. E cioè che è sciocco invocare la buona sorte e toccare «' o curniciello ' e corallo»: occorre costruire le case in un certo modo, educare a scuola gli alunni, fare esercitazioni pubbliche, stare sempre in guardia. Il contrario di quanto, per riprendere l' esempio iniziale, accadde a Ischia. La catastrofe di Casamicciola del 1883, quando morirono 2.313 abitanti su 4.300 tra cui il padre, la madre e la sorella di Benedetto Croce che restò sepolto per ore, è entrata perfino nelle commedie di Eduardo: «qui faccio una casamicciola!». Eppure, spiega il vulcanologo Giuseppe Luongo, che in «Storia di un' isola vulcanica» ricorda i rischi sismici e idrogeologici, «nove case su dieci sono state tirate su (spesso abusivamente) senza regole. Anzi, guai a parlare dei rischi: fa male al turismo». Ventottomila abusi edilizi per 62mila ischitani. Manifesti elettorali con scritto «Io voto abusivo». Rivolte di interi consigli comunali. «Per abbattere una casa abusiva che non è solo illegale ma pericolosa», sospira il procuratore Aldo De Chiara, «devo passare attraverso il sindaco che magari ha fatto la campagna elettorale promettendo di salvare gli abusivi!» Eppure sono stati almeno 200mila i morti, dall' Unità a oggi. E che sono stati 1.560, tra cui dieci capoluoghi, i comuni bastonati più o meno duramente: uno su cinque. Anzi, diciamolo a dispetto della scaramanzia autolesionista: i terremoti tipo quelli di Messina o Avezzano, un paio al secolo, sono perfino «in ritardo» sulla media. Quanto indurrebbe un paese serio a dedicare il massimo sforzo al rispetto delle regole e alla prevenzione. Il bilancio di Emanuela Guidoboni e Gianluca Valensise è invece amaro: «Colpisce la perseverante miopia nella programmazione del territorio». Tanto più che «le aree colpite dai disastri sismici sono quasi sempre le stesse». Insomma, i terremoti «ci sono stati e ci saranno sempre». E fingere di ignorarlo non è solo irrazionale: è inutile. E suicida. RIPRODUZIONE RISERVATA **** La scheda Il bilancio Secondo i calcoli di tutti i terremoti, dal 1861 a oggi, fatti da Emanuela Guidoboni e Gianluca Valensise, sono stati almeno 200 mila le vittime dall' Unità d' Italia fino ai giorni nostri e 1.560 (tra cui 10 capoluoghi) i comuni colpiti, uno su cinque 1857 Il sisma che colpisce la Basilicata e la Campania uccide circa 12 mila persone. Tutti i comuni coinvolti vengono quasi rasi al suolo 1908 Il 28 dicembre un terremoto e l' onda di maremoto distruggono Reggio Calabria e Messina. Muoiono in 120 mila (foto sotto) 2009 Il 6 aprile la provincia dell' Aquila viene colpita da un sisma, sentito in tutto il Centro Italia. Le vittime sono 308. Il capoluogo abruzzese (nella foto grande sopra) a tutt' oggi è inagibile
Un evento traumatico lascia tracce indelebili nella personalità e nell’animo di chi lo ha vissuto. E’ così per le guerre, è stato così per chi è stato coinvolto nell’Olocausto. Anche chi sopravvive a una scossa devastante di terremoto conserva in maniera nitida immagini, impressioni e ricordi di quel momento.
L’Osservatorio permanente sul Doposisma intende aprire una finestra sulla memoria, archiviando e raccogliendo il materiale sparso per la rete, custodito dalle singole persone, da associazioni, comuni e altri enti.
“Il filo della memoria” si dipanerà, per il terremoto di Campania e Basilicata, con una scheda per ogni paese disastrato, e contemplerà poi gli altri terremoti degli ultimi anni (Umbria e Marche, Molise, l’Aquila).
Questa sezione è in continuo divenire, è aperta al contributo di tutti e offre il suo contributo alla costruzione di percorsi collettivi e aperti per la tutela, la conservazione e la trasmissione della memoria delle comunità e dei singoli cittadini, per ognuno degli eventi segnalati e per altri che si proporranno strada facendo.
di Michele Mignogna
Le richieste: 12 mesi di proroga, una legge regionale sulla ricostruzione e un incontro col sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega alla Protezione Civile, Antonio Catricalà. Intanto lunedì i primi cittadini dei Comuni molisani e pugliesi, si recheranno dai rispettivi Prefetti per restituire la fascia tricolore.
Chi si aspettava dichiarazioni di guerra o minacce di proteste estreme, nell’ultimo incontro dei sindaci del cratere terremotato, si sbagliava di grosso. Infatti, dopo più di un’ora di conclave a porte chiuse nella sala consiliare di Santa Croce di Magliano, lasciando fuori cittadini e giornalisti, i sindaci hanno deciso di ripercorre il film dello scorso anno quando in massa si recarono in Prefettura per restituire la fasce tricolori, e quindi rassegnare in quella sede le proprie dimissioni. Dimissioni che rientrarono l’ultimo giorno utile perché ottennero in quell’occasione la proroga di un anno dello stato di calamità. Ma allora al Governo c’era Silvio Berlusconi che concesse la proroga. Oggi no, oggi bisogna fare i conti con un Governo tecnico che se non sei una banca non hai nessuna concessione, e tanto meno puoi sperarne di avere. Tanto è vero che la proroga immaginata dal Governo nazionale è di appena 4 mesi, i sindaci invece chiedono almeno altri 12 mesi, fino al 31 dicembre di quest’anno, e contemporaneamente chiedono al presidente commissario Michele Iorio, di fare una legge regionale in modo da proseguire, seppur in forma di ordinarietà, la ricostruzione. Ma non solo, i sindaci chiedono alle istituzioni di poter incontrare direttamente il delegato del Governo alla Protezione Civile, Antonio Catricalà, in modo da esporre direttamente le problematiche dei propri Comuni. All’incontro erano presenti anche i sindaci dei 10 Comuni pugliesi colpiti dal sisma del 2002: lì le cose però sono leggermente diverse, nel senso che la ricostruzione della classe A, quella delle principali abitazioni, è giunta all’80% del totale, e parliamo di Comuni che messi insieme fanno gli stessi abitanti della Provincia di Campobasso. Allora è qui in Molise che qualcosa, evidentemente non ha funzionato. Non ha funzionato innanzitutto allargare il terremoto per decreto, non ha funzionato il controllo dell’accaparramento dei progetti nelle mani di pochi tecnici, anche se le ordinanze non lo permettevano, che hanno inevitabilmente ed irrimediabilmente allungato i tempi tecnici dei progetti. “La mancata proroga – dice Montagano sindaco di Bonefro – significa allungare ancora di più i tempi della ricostruzione. Faccio l’esempio del mio comune: per arrivare al 50% dei progetti presentati, abbiamo impiegato 10 anni, questo significa che per terminare tutto ce ne vogliono almeno altrettanti”. Non solo, Bonefro è il comune terremotato ad avere il numero maggiore di abitanti alloggiati nei prefabbricati “Anche in questo senso – continua Montagano – voglio dire ai miei concittadini di pazientare (come se fosse facile ndr), i progetti delle loro case sono già in commissione a Campobasso e credo di poter dire che nel giro di un paio d’anni riavranno le loro case”. Dichiarazione audace quella del sindaco, che evidentemente non conosce bene i tempi, non solo della politica, ma delle imprese che devono mettere in piedi un cantiere e portare a termine i lavori. In tutto questo però manca il soggetto principale, cioè i cittadini che non sono coinvolti in nessuna occasione, mai.
L'intervista
Ermete Realacci, parlamentare-ecologista, è senza dubbio tra i maggiori promotori in Italia della "strada verde" per l'uscita dalla crisi. Politico che proviene dal mondo dei movimenti e del volontariato - è stato per trent'anni mente e cuore di Legambiente, di cui è oggi Presidente onorario - conosce il Paese reale, con le sue eccellenze e i suoi drammi. Ha creato Symbola, Fondazione per le qualità italiane, e dato di recente alle stampe il libro "Green Italy. Perchè ce la possiamo fare". Il prossimo 15 aprile sarà tra i relatori di un convegno organizzato dal nostro Osservatorio per parlare di Sud. L'abbiamo incontrato per porgli qualche domanda.
Onorevole, lei ha contribuito in maniera determinante alla nascita e all'avventura della più diffusa e radicata associazione ambientalista italiana, Legambiente, di cui oggi è Presidente onorario. Qual è la cosa più importante che ha imparato in trent'anni di impegno per l'ambiente?
Credo ci sia un filo conduttore che unisce questi decenni, a partire dalle esperienze giovanili, poi alla Legambiente, passando per Symbola, fino all’impegno nella politica. Un tentativo di vedere i problemi e affrontare le questioni, non guardando attraverso il buco della serratura, ma cogliendo le tante sfaccettature che, di volta in volta, si presentano. Sapendo che il bene e il male raramente ci fanno il favore di essere distinti con nettezza, ma non per questo possiamo esimerci dalla responsabilità di scegliere. Non fosse altro per ottenere quello che il mio amico Adriano Sofri, chiamerebbe riduzione del danno.
In un momento in cui il Paese è guidato da “tecnici” e i partiti sembrano essere relegati al mero giudizio delle decisioni politiche più che al loro compimento, ha ancora senso l'impegno civile dei cittadini nel mondo del volontariato e della politica?
Ovviamente sì. Pensiamo solo, per fare un esempio, all’esperienza del milione e trecentomila volontari che scendono in campo da nord a sud ogni volta che un disastro colpisce il Paese per portare soccorso ai territori e ai cittadini piegati da catastrofi naturali. Quello è un serbatoio irrinunciabile di valore e qualità su cui l’Italia può contare, una punta di eccellenza del nostro paese a livello internazionale. E’ questo uno dei tanti casi che la politica e l’economia fanno fatica a leggere. Una risorsa che di certo non leggono le agenzie di rating.
Nel 2005 ha creato la Fondazione Symbola di cui è oggi presidente. Ci spiega in poche battute le ragioni che l'hanno portata a crearla e i progetti su cui questa è oggi impegnata.
La fondazione è stato un modo nuovo per cogliere e mettere in rete la parte migliore del nostro paese, fatta di talenti, di imprese grandi e piccole, di persone, di territori, uniti nella sfida della qualità. Tra gli ultimi progetti il PIQ, il Prodotto Interno Qualità e la ricerca sulle Industrie Culturali.
Il suo impegno da parlamentare ha puntato spesso verso la salvaguardia dei piccoli comuni, riuscendo a dare alla luce anche una legge ad hoc che li tutela e li valorizza. Cosa rappresentano per la nostra nazione i comuni della “piccola grande Italia”?
Ho sempre pensato che i piccoli comuni rappresentino una straordinaria opportunità per l’Italia. Lo scopo della legge è quello di indicare con chiarezza una direzione ed una politica: considerare i piccoli comuni non un peso per il nostro Paese, un’eredità del passato, ma una straordinaria occasione per difendere la nostra identità, le nostre qualità e costruire il futuro. Per valorizzare i tanti talenti dei nostri territori, per tenere presente che la coesione delle nostre comunità è indispensabile anche per affrontare con successo la difficile crisi che stiamo vivendo. Per tutte queste ragioni i piccoli comuni non possono essere impoveriti indebolendo i servizi essenziali come scuole, presidi sanitari e delle forze dell’ordine, uffici postali, piccoli esercizi commerciali, parrocchie.
Ha da poco dato alle stampe per i tipi di Chiarelettere “Green Italy – Perchè ce la possiamo fare”, una sorta di via ecologista per l'uscita dalla crisi. Un viaggio che l'ha portata a conoscere da vicino esperienze di eccellenza di cui non si parla mai abbastanza. Qual è l'Italia che racconta?
C’è già molto più green nell’economia italiana di quanto si creda. E’ un cuore verde, dinamico e vigoroso. Secondo il Rapporto GreenItaly 2011 presentato recentemente da Symbola e Unioncamere emerge che non parliamo di un settore legato esclusivamente ai comparti tradizionalmente ambientali – come per esempio il risparmio energetico, le fonti rinnovabili o il riciclo dei rifiuti – ma un vero e proprio “filo verde”, che attraversa e innova anche i settori più maturi della nostra economia, perché la peculiarità della green economy italiana sta proprio nella riconversione in chiave ecosostenibile dei comparti tradizionali dell’industria italiana di punta. In Green Italy, attraverso 25 casi, provo a raccontare dal Nord al Sud, queste storie di un’alleanza tra imprese e comunità, tra ambiente e nuovi modi di vivere che possono traghettarci verso un paese più desiderabile e più competitivo. Dove ci sono valori immateriali che non si misurano in Borsa e dove molte delle storie che raccontiamo sarebbero state impossibili senza passione, coraggio, intelligenza, caparbietà, onore.
Il nostro Osservatorio indaga le trasformazioni economiche e sociali intervenute nelle comunità colpite negli ultimi 30 anni da grandi terremoti. Quale crede sia stato il maggiore sbaglio della politica nella gestione delle ricostruzioni?
Quello di aver dimenticato che il nostro è un paese fragile, costantemente a grave rischio sismico e con gran parte del patrimonio edilizio di qualità scadente. Una condizione che richiederebbe la massima attenzione quando si costruisce e che invece viene costantemente disattesa quando si da il via libera alla deregulation edilizia, alla cementificazione senza qualità, a costruzioni lontane dagli standard antisismici indispensabili in un paese dove la terra trema. Se si avviasse immediatamente un piano straordinario di consolidamento e miglioramento sismico degli edifici pubblici e privati, non solo si potrebbe mettere in sicurezza gran parte della popolazione, ma si potrebbe rilanciare un'economia legata all'edilizia di qualità, in grado di produrre anche un rilevante effetto sul terreno occupazionale. Più di un occasione ho avanzato la richiesta di una misura concreta attivabile da subito; quella di stendere il beneficio fiscale del 55%, non solo a chi ristruttura la proprio abitazione nel segno dell’efficienza energetica, ma anche a chi vuole intervenire con requisiti antisismici.
Ad aprile sarà nostro ospite nell'ambito di un dibattito sul Sud. Cosa dovrebbero fare, secondo lei, il Governo e il Parlamento per riportare l'Italia e in particolare il nostro meridione ai livelli dei grandi Paesi europei?
Il Paese, ne sono convinto, ha le energie per vincere questa sfida. Dovremo, però, imparare a guardare la nostra terra negli occhi, con la simpatia e l’affetto necessari a cogliere i suoi tanti talenti. La crisi finanziaria è una questione ineludibile, certamente. Ma non è la sola. Possiamo fronteggiarla, se liberiamo le energie positive del Paese, che non mancano: ritrovando nell’Italia migliore le radici del nostro futuro, attenti a che nessuno resti indietro. Ce la possiamo fare, se perseguiremo con convinzione la riconversione ecologica della nostra economia, dei consumi e degli stili di vita, scommettendo su una green economy tricolore, che sposa i saperi e le vocazioni nazionali. Che tiene insieme le tradizioni secolari con l’elettronica e la meccanica di precisione. Che punta su ricerca e conoscenza per produrre un’economia più sostenibile e avanzata. Che si apre ai mercati globali e rinsalda i legami con il territorio, che lega la competizione alla cura della coesione sociale, del capitale umano e dei diritti dei lavoratori. Che coniuga la testarda ostinazione sulla qualità artigianale dei prodotti alla bellezza e all’hi-tech. Che a una maggiore qualità della vita associa un minore impatto sull’ambiente. Ce la faremo, se sapremo innovare senza dimenticare chi siamo e senza dimenticare i più deboli. Se torneremo, insomma, a fare l’Italia.
intervista di Valerio Calabrese
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