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Giuseppe Napoli

Giuseppe Napoli

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Come cambia (se cambia davvero) il sentimento della fiducia di una comunità travolta dal terremoto a distanza di anni? Esiste una forma di accountability degli amministratori che hanno gestito la fase della ricostruzione? E cosa accade quando, terminata la ricostruzione, emergono nuovi dislivelli sociali che disgregano la comunità anzichè cementarne l'identità? A queste ed altre domande hanno risposto i cittadini di Caposele, provincia di Avellino, uno dei tanti paesini distrutti dal sisma del 1980. Interrogativi che fanno parte di un questionario redatto da Teresa Caruso, ricercatrice dell'Università di Bergamo, che ha curato l'indagine antropologica dal titolo "A trent’anni dal terremoto: fiducia, cooperazione e mutamento sociale in una comunità della Campania”. Di seguito, un'anteprima del lavoro che verrà illustrato nei prossimo mesi dall'Osservatorio sul dopo sisma.

 

 

 

Il questionario, uno strumento di ricerca antropologica: le domande di un osservatore esterno

di Teresa Caruso

Inserito all’interno del progetto di ricerca in ambito antropologico, finanziato dalla Fondazione MIdA e patrocinato dall’Università degli Studi di Bergamo, il questionario è uno tra gli strumenti della ricerca sul campo volta a interpretare i cambiamenti sociali che una catastrofe, qual è stata il terremoto del 1980, può causare all’interno di una comunità.

Realizzato dopo circa quattro mesi di osservazione partecipante nella comunità oggetto di studio, Caposele, comune in provincia di Avellino, il questionario ha come obiettivo l’approfondimento degli aspetti che vengono portati alla luce durante le conversazioni spontanee con gli abitanti del paese.

L’importanza di questo strumento non deriva soltanto dall’analisi quantitativa che da esso si può trarre, ma anche dalla possibilità che offre allo studioso di presentarsi negli ambiti più disparati: dalle scuole agli esercizi commerciali, dalla sala d’attesa dei dottori alla sede di un’associazione locale, da un bar al vicino di casa della persona intervistata due minuti prima, in quello stesso bar. Oltre a fungere da “biglietto da visita”, il questionario è lo spunto per intavolare una discussione, approfondire le opinioni, ripercorrere i ricordi, percepire le emozioni e talvolta anche le incongruenze dell’intervistato.

Proprio per questo motivo, su 370 questionari, pari al 10% della popolazione residente, circa 200 sono stati distribuiti alle famiglie attraverso il coinvolgimento degli alunni delle scuole locali, mentre il restante è stato somministrato personalmente all’intervistato.

Veniamo al contenuto. Fanno da cornice le tematiche concernenti le scelte della ricostruzione, gli effetti dei finanziamenti concessi dallo Stato, i cambiamenti nel sentimento di fiducia riposto nell’altro e nell’istituzione e, infine, la percezione del fenomeno della corruzione. I dati richiesti all’interno della parte generale servono a fotografare il campione intervistato in termini di età, sesso, titolo di studio e occupazione per poter fare poi uno studio di genere e per fasce d’età.

La sezione B riguarda la ricostruzione post-terremoto. Partendo dal presupposto che i cittadini hanno lottato per avere una ricostruzione in sito, chiedendo all’amministrazione locale di ricostruire tutto “dov’era e com’era” prima del sisma, si chiede all’intervistato se, a distanza di trent’anni, rifarebbe la stessa scelta. E quali sono stati i vantaggi.

Oltre alle case, anche la comunità è ritornata dov’era? In realtà, leggendo le domande del questionario, si può già dedurre la risposta: con la ricostruzione sono nate nuove contrade e i piani di zona.

Si vuole poi capire quali siano stati gli effetti del terremoto sulla comunità: la caduta dei muri, quelli veri, ha comportato la caduta dei tabù e una maggiore propensione al confronto? La ricostruzione ha migliorato le condizioni di vita? Quanto il terremoto è stato interpretato, seppur nel dramma, come un’occasione di sviluppo per queste terre? I finanziamenti concessi dallo Stato sono stati impiegati rispettando le esigenze dei cittadini? La loro quantità ha influito sulla qualità della gestione da parte delle amministrazioni comunali? Quanto è importante in questi casi il controllo e la cooperazione tra cittadini? E se la gestione fosse stata inadeguata e i cittadini non avessero usufruito di tali finanziamenti in maniera equa, quanto questo potrebbe aver influito sui rapporti collettivi?

La terza parte del questionario infatti indaga il livello di fiducia riposto nell’altro, inteso come familiare, vicino, amico o compaesano, nelle istituzioni locali come l’amministrazione comunale, la parrocchia e le associazioni e infine nelle istituzioni nazionali e internazionali, quali lo Stato e L’UE. Infine, all’interno di questo contesto in cui l’amministrazione di un piccolo comune vede entrare nelle proprie casse una grande quantità di fondi per la ricostruzione, troppi per saperli gestire, è interessante capire come viene percepito il fenomeno della corruzione. Quanto i comportamenti corrispondano effettivamente a ciò che si esprime.

Ci si chiede se, dopo quanto successo, i cittadini siano ancora in grado di cooperare tra loro, partecipare alle attività di un’associazione e vedersi parte della medesima comunità. E se così non fosse bisognerà trovare nuovi punti di riferimento e la forza per essere fautori del proprio avvenire.

 

L’Ufficio del presidente del Consiglio Michele Picciano, che si avvale di ben sette collaboratori, e le quattro Commissioni consiliari permanenti della Regione Molise costano ai contribuenti 450mila euro, cinquantamila euro più della Lombardia che però ha 9 milioni di abitanti invece di trecentomila. Per il 2011 è questa la somma stanziata, come si legge sul Bollettino Ufficiale del 16 aprile.

 

di Michele Mignogna

 

Per far funzionare l’Ufficio di Presidenza della Regione Molise e le commissioni ordinarie, che sono 4, servono 450mila euro all’anno. A tanto ammonta la somma iscritta nell’apposito capitolo di bilancio come previsione di spesa per il 2011. Il provvedimento è pubblicato sul Bollettino Ufficiale del 16 aprile scorso, e riporta in dettaglio le partite economiche di cui hanno bisogno il Presidente del Consiglio Michele Picciano e il suo staff, formato da cinque membri tra maggioranza e opposizione, e dai presidenti delle 4 commissioni regionali permanenti. La buona notizia è che le commissioni a carattere temporaneo, come per esempio quella per il monitoraggio dell’andamento in Molise del virus H1N1, sono state azzerate sulla base delle disposizioni dell’ultima finanziaria, per il contenimento della spesa. La cattiva notizia è che il “piccolo” Ufficio del presidente Picciano e le quattro commissioni molisane costano, in termini di soldi pubblici, più delle analoghe realtà di una regione italiana ben più grande come la Lombardia. Possibile? Certo, e anzi è certificato dai numeri. In Lombardia l’Ufficio di Presidenza - che conta, udite udite, lo stesso numero di componenti del Molise – e le otto commissioni consiliari costano ai contribuenti 405mila euro all’anno. Cinquantamila euro meno del Molise, che ancora una volta, nelle statistiche nazionali, fa la figura dell’ingorgo. I collaboratori del presidente Picciano sono difatti sette, lo stesso numero dei collaboratori di Davide Boni, presidente del Consiglio regionale lombardo. I loro nomi sono scritti nero su bianco sul Bollettino: Marialucreazia Di Ianni, Valentina D’Uva, Anna Lemme, Floriana Loffreda, Carla Montebruno, Sonia Petrarca e Aldo Fabio Venditto. Per far funzionare tutto questa “macchina” occorrono 131mial euro l’anno.

Settantamila è invece il budget per i vice presidenti del Consiglio e per i consiglieri segretari, mentre 141mila euro sono destinati ai presidenti di commissione. “Solo” 35mila euro invece per il presidente del collegio dei Revisori dei Conti. Le Commissioni invece sono quattro. La prima è preposta a “Ordinamento ed organizzazione amministrativa”, è presieduta da Chierchia Gennaro ed è quella in cui si decide tutta la macchina organizzativa della Regione, seguita poi dalla Commissione “Sviluppo economico” presieduta da Rosario De Matteis.Andando avanti: la terza si occupa di “Assetto ed utilizzazione del territorio” e ha come presidente Adelmo Berardo, autore anche della legge che ha liberalizzato la costruzione di impianti per la produzione alternativa di energia elettrica, mentre la quarta e ultima si occupa di “Servizi sociali”, ed è anche questa presieduta da Adelmo Berardo. Complessivamente Ufficio di presidenza e Commissioni costano ai molisani 450mila euro all’anno. Ma nel provvedimento mancano gli importi relativi alla “produttività” che, recita la delibera, «saranno in seguito determinati dalla competente Direzione Generale VI, secondo le procedure fissate in sede di contrattazione decentrata integrativa». Nel calcolo chiaramente manca il fabbisogno della Giunta e dell’intero Consiglio, con i relativi rimborsi spesa e accessori che fanno lievitare i già lauti stipendi, d’oro è il caso di dire, dei consiglieri molisani.

Nero su Nero. Il Governo apparecchia Crotone e S.Maria Capua Vetere per gli affamati. La nuova ondata di disperazione si infrange sulle terre dei disperati. Altri dannati da inviare nell'inferno di territori già devastati dalla sofferenza.

di Giuseppe Napoli

La disperazione è un contabile. Vuol far tornare i conti. Niente le sfugge. Addiziona tutto. Non molla neppure i centesimi. (…) Vuole sapere come regolarsi con il destino. Ragiona, pesa e calcola.

A Crotone, come a Palermo. Da Rosarno ad Eboli. Il Sud come un’immensa fornace dove ammassare i volti tumefatti della disperazione. Mani di burro e piedi d’argilla nelle terre imbevute di sangue. I disperati vanno con i disperati. E l’angoscia iniettata dalla decisione del Governo di inviare i migranti in fuga a Crotone e Palermo è il contrappasso che segna il “vuoto” politico di questi tempi. I lupi in mezzo ai lupi. Affamati sospinti in mezzo ad altri affamati. La sporcizia con la monnezza. Il governo, ancora una volta, ha apparecchiato la tavola dei diseredati colonizzando territori disossati e spremuti all’inverosimile. A Crotone, altri rifugiati diventano un tutt’uno con le centinaia di irakeni, afgani, pakistani, kurdi, tunisini, nigeriani, liberiani, che vivono nel più grande centro d’accoglienza del Sud. Una ferita aperta nel cuore della città, che brulica di fame e sudore. Ma i migranti studiano, e s’ingegnano. Ed al posto delle chincaglierie, vendono lumache. Aspettano le piogge per sottrarle al primo raggio di sole. E poi le vendono ai golosi crotonesi. Perché qui? Perché non al Nord? Perché non nelle risaie nebbiose della pianura padana? Perché non all’ombra della madunina?

La violenza sta con la violenza. E’ così anche per quei disperati che hanno lasciato alle spalle una guerra, quella in Libia, per trovarsene un’altra. A S.Maria Capua Vetere i profughi sono ammassati come carne da macello in una caserma dismessa, a due passi dal Cdr, ad uno dal dedalo di palazzotti dove vivono contrabbandieri di sigarette e fiancheggiatori dei clan camorristici della zona. La guerra dei rifiuti. La guerra della camorra. Il “marcio” va col marcio. Il Nord deve restare lindo e profumato. Senza puzzo. Senza dannati, perché l’inferno è già altrove. Resta l’angoscia, come misura di una vita vissuta sul cornicione della libertà. Perché è solo con l’angoscia che si prova la vertigine della libertà.

Disperati. Anche chi racconta lo è. Perché ha fame di dignità. Nero su nero.

 

Lunedì 18 Aprile 2011 10:45

Sprechi e ricostruzione: l'inchiesta

«Pronto, è l’ufficio sisma di Spinete? Vorremmo sapere la situazione sulla ricostruzione post sisma nel vostro comune». «Guardi, in tutta franchezza: qui il terremoto è stato solo avvertito, ma di danni non ne ha prodotti e anzi, piuttosto ha creato problemi da un punto di vista gestionale: qui ad esempio l’ufficio sisma è stato aperto cosi, tanto per, non c’è nemmeno nessuna delibera che lo certifichi…».

Possibile? Proviamo con un altro Comune. Telefonata al Municipio di San Massimo, giacché anche qui, 800 anime nel cuore del Matese, è stato istituito un ufficio sisma. «Buongiorno, vorremmo conoscere la situazione post sisma del vostro comune». Risposta: «Mi spiace, il mio collega è uscito e dovrebbe parlare con lui di queste cose, io purtroppo sono nuova in questo ufficio, ci lavoro solo da un anno e mezzo». Solo?

A ben pensarci, e al di là delle facili battute alla Brunetta, la signora potrebbe avere le sue ragioni: il terremoto in Molise risale a otto anni fa e ha fatto danni materiali in 14 centri, quelli cosiddetti del “cratere sismico”. A San Massimo, per esempio, non è crollato nemmeno un centimetro di intonaco, e la ricostruzione è una parola solo sentita in tv. Eppure anche qui, al pari degli 82 comuni della Provincia di Campobasso, esiste un “Centro Operativo Comunale”, o Ufficio Coc, istituito per fronteggiare l’emergenza e consentire la ricostruzione subito dopo il terremoto del 31 ottobre 2002.

L’iniziativa è nota, ed è firmata dal Presidente della Giunta Regionale Michele Iorio nelle sue funzioni di Commissario straordinario, un ruolo che gli ha dato ampissimi poteri consentendogli di scavalcare finanche i “suggerimenti” della Protezione Civile, che aveva avvertito sulla inopportunità di estendere il sisma all’intera Provincia portandolo anche, in termini di aiuti a imprese ed enti pubblici, fino a Isernia. Gli uffici sisma sono stati istituiti con decreto del Presidente-Commissario del 17 febbraio 2003, quando tutti gli 82 Comuni della Provincia di Campobasso sono diventati - con un colpo di penna o di bacchetta magica, dipende dalle interpretazioni - “terremotati”. Tra questi anche quei paesi dove il terremoto non ha danneggiato un bel niente.

Bisogna essere onesti, anche quando è scomodo: questo meccanismo è andato bene a tutti. Ogni sindaco ha potuto assumere “per chiamata diretta”, baipassando cioè qualsiasi criterio meritocratico o concorso (in piena emergenza, si capisce, non si può perdere tempo dietro alle graduatorie…) da due a quattro collaboratori, a seconda dei danni registrati nel Comune. Un modo facile e rapido per circondarsi di tecnici, geometri, consulenti (in genere amici) o anche persone senza requisiti specifici (in genere amici anche questi) preposti a gestire le difficoltà della ricostruzione e pagati all’incirca duemila euro al mese a testa. Potendo scegliere tra mille o duemila euro di retribuzione, il Commissario straordinario ha optato, comprensibilmente, per il tetto massimo previsto dal contratto.

Ovviamente, se nel giro di tre anni la ricostruzione fosse stata ultimata, così come da promesse politiche, oggi non staremmo qua a discutere ancora di uffici sisma, inefficienze e costi. Ma poiché sono trascorsi otto anni dal terremoto e la ricostruzione è ferma al 30 per cento, con paesi come Colletorto o Ripabottoni dove nemmeno uno sfollato è ancora rientrata a casa, vale la pena soffermarsi sull’organizzazione della struttura sisma della Regione Molise e, soprattutto, sui suoi costi.Come sia organizzata la struttura sisma in regione lo si legge sul “libro bianco sul terremoto”, edito poche settimane fa proprio da Michele Iorio e Nico Romagnuolo, il sub commissario. «Il Presidente della Regione Molise – Commissario delegato per la ricostruzione post-sisma, ha programmato e coordinato tutte le attività, avvalendosi di una Struttura centrale, con compiti principalmente di alta direzione, coordinamento e controllo circa l’attuazione ed il rispetto delle norme e delle procedure tecnico, amministrative e contabili, in cui è tra l’altro incardinato il Gruppo Tecnico delle Verifiche, la Commissione per il rilascio del nulla osta sismico, la Commissione per la Microzonazione, il Comitato Tecnico Scientifico».

Spiegata cosi la cosa non fa una grinza, ma andando a vedere in dettaglio le caratteristiche delle sotto-strutture, ecco che saltano fuori stranezze e incongruità. Il Comitato Tecnico Scientifico (CTS), per esempio, è stato istituito dal Presidente-Commissario delegato con decreto n. 19 del 2003. Con quale obiettivo? Dettare tutte le linee di indirizzo per l’iter della ricostruzione, approvate e rese esecutive dal Commissario delegato con propri decreti. E non solo. Il Cts, si apprende spulciando il libro bianco pubblicizzato in pompa magna, «ha fornito risposta a tutti i quesiti sottopostigli, per lo più finalizzati a dirimere perplessità dei Sindaci, nell’applicazione delle normative di riferimento, con finalità di uniformità interpretativa e di chiarimenti e approfondimenti, ove necessari. I pareri del CTS hanno dato luogo a decreti e circolari a firma del Presidente-Commissario delegato». In pratica, e a dispetto della snellezza annunciata dalla macchina organizzativa del “modello Molise”, un comitato per “le perplessità dei sindaci”.

Andando avanti, si arriva a conoscere più da vicino la Commissione per il rilascio delle autorizzazioni sismiche. Con decreto n. 143 del 2007 il Commissario delegato (sempre lui, Michele Iorio) decide che tutti i progetti di riparazione e ricostruzione post-sisma devono avere, tassativamente, l’autorizzazione sismica preventiva da parte di apposita commissione istituita presso la Struttura commissariale per le attività post-sisma. Fino al 2007 questo lavoro veniva sbrigato dagli Uffici Sisma dei Comuni, che in fondo sono stati istituiti proprio per questa ragione e che continuano a esistere in parte espropriati delle loro funzioni.

Certo, il terremoto non prevede una grande facilità di gestione e procedure e verifiche subiscono gli inevitabili condizionamenti di norme speciali che si accavallano e si modificano di continuo. Però il risultato concreto della macchina amministrativa che ha gestito e sta gestendo la ricostruzione appare più simile a un grosso e lento elefante che alla gazzella annunciata da Iorio all’indomani delle scosse, quando ha preso in mano le redini del comando dell’emergenza grazie ai poteri speciali che gli sono stati conferiti. Una struttura elefantiaca che, peraltro, costa. E parecchio. Il libro bianco sulla ricostruzione qualche numero lo fornisce, e facendo due calcoli si arriva a una stima più o meno credibile di quanto la macchina amministrativa sia costata e continui a costare.

Ecco i dati: dal 2003 al 2010 mantenere in piedi gli uffici della struttura commissariale che fa capo direttamente al Commissario Iorio ci è costato poco meno di sedici milioni di euro (per l’esattezza 15.745.746,74 1.96 euro sono le spese di mantenimento degli uffici predisposti per la struttura del Commissario delegato comprensive anche delle spese per i Centri Operativi Misti di Larino e San Giuliano di Puglia).A questo bisogna aggiungere i costi di gestione delle strutture periferiche, cioè gli uffici sisma sparsi negli 82 Comuni “decretati” terremotati, e che ammontano a poco meno di trentacinque milioni di euro (per l’esattezza € 34.780.873,59 4.32). Soldi impiegati per fare cosa? Per pagare gli stipendi dei tecnici e collaboratori assunti direttamente dai sindaci per fronteggiare l’emergenza abitativa e delle strutture pubbliche e velocizzare il processo di ricostruzione. Che, va ribadito per dovere di cronaca, otto anni e un mare di denaro dopo è fermo al 30 per cento, mentre la pioggia di finanziamenti pubblici sembra essersi arrestata.

E ancora: bisogna aggiungere dieci milioni di euro per spese di gestione non classificabili nelle altre categorie come l’acquisto di computer e spese telefoniche e solite voci di spesa “generiche” nei vari uffici sisma i cui costi – incredibilmente elevati – non hanno gravato sui bilanci delle amministrazioni ma, evidentemente, sulla struttura sisma. Insomma: complessivamente, fino a questo momento, sono stati impiegati quasi 60 milioni di euro solo per il mantenimento di strutture intermedie, gestiti quasi esclusivamente dal commissario alla ricostruzione Michele Iorio.

Denaro che suscita brividi di sconcerto se messo in relazione alle lungaggini della ricostruzione e ai paradossi dei progetti approvati. Come quello lamentato da molti sindaci, i quali sostengono, dati e date alla mano, che dal 2007 le procedure autorizzative dei progetti per la ricostruzione hanno subito un rallentamento notevole rispetto a quando erano gli stessi uffici sisma ad istruire i progetti. Cos’è accaduto? Che la commissione cosiddetta sismica è stata divisa in due, originando – tanto per alleggerire ulteriormente l’elefante – due sub-commissioni dove lavorano le seguenti persone: Ing. Carmelo Miozzi, Arch. Giovanni Litterio, ing. Sandro Paolone, ing. Alberto Lemme che ne è supervisore, Arch. Angelo Scardullo, Arch. Barbara Fiammella, Arch. Silvia Di Rienzo, geol. Pasquale Pellegrino, geol. Odilia Petrone e Ing. Vincenzo Di Grezia, coordinatore e nume tutelare di questa mastodontica commissione spaccata in due tronconi che lavorano con ritmi ed efficiente diversi. Così succede che una delle due sotto-commissioni preposte entrambe a dare il parere vincolante ai progetti sia più solerte dell’altra nel valutare e quindi autorizzare i progetti, mentre l’altra ci metta più tempo. Risultato: progetti presentati dopo, in ordine cronologico s’intende, vengono autorizzati prima di quelli che giacciono in commissione magari dallo scorso anno, creando non pochi problemi soprattutto ai sindaci che ricevono le lamentele di quei cittadini, che a ragione, si sentono scavalcati.

Un problema ammesso anche dall’Ing. Lemme, coordinatore delle commissioni, che in una lettera ad un comune del cratere sismico, sottolinea proprio questo aspetto, scrivendo che «può capitare che una delle due commissioni lavori di più e più velocemente rispetto all’altra, creando di fatto questo meccanismo». La domanda è inevitabile: se il lavoro è lo stesso e i progetti vengono divisi nello stesso numero, come può succedere che una commissione lavori più dell’altra?

Intanto, mentre alcuni progetti finanziati attendono il parere dal 2006 e finanche dal 2005, amplificando i ritardi della ricostruzione, c’è la rogna delle conferenze di servizio per l’approvazione definitiva degli stessi. Fino a un paio di anni fa, sostengono ancora i sindaci e diversi impiegati degli uffici sisma, in 6 mesi la conferenza di servizi si riusciva a riunire e dava il nulla osta per il progetto urbanistico di ricostruzione. Oggi invece la media di tempo che trascorre dall’inizio della pratica alla sua autorizzazione in conferenza di servizio è di 18-20 mesi. Forse definirla elefantiaca, questa imponente macchina amministrativa, è un eufemismo.

Michele Mignogna

Lunedì 11 Aprile 2011 20:10

Viaggio nella tendopoli dei tunisini

di Michele Mignogna

 

Campochiaro. Siamo a Campochiaro, alle falde dei monti del Matese, Molise interno. Fuori dal centro abitato, immerso nelle campagne verdeggianti di questi giorni, c’è il centro regionale di Protezione Civile: da qui partono i convogli per intervenire in zone colpite da calamità, ma è anche un centro sperimentale dell’assessorato regionale all’agricoltura, con esperimenti sul tartufo in corso. Qui sono stati accolti i 197 migranti provenienti dalle zone di guerra del nord Africa. Tutti tunisini, tra di loro ci sono anche quattro minori affidati a una casa famiglia di Campobasso.

Il campo è molto vasto, comprende al suo interno anche una pista per aeromobili. Quando arriviamo nel primissimo pomeriggio il sole è alto e picchia forte. Una giornata estiva, che fa segnare all’ingresso del centro 23 gradi. Non sfugge l’imponente servizio d’ordine garantito dalla Polizia di Stato, dalla Guardia di Finanza e dal Corpo Forestale dello Stato: tanti agenti pronti ad intervenire in caso di problemi.

L’aria che tira non è buona, soprattutto per la stampa. Infatti il permesso per visitare il centro è arrivato dalla Prefettura solo ieri (venerdì), e in ogni caso bisogna avvisare i funzionari delegati dal Prefetto, con “congruo anticipo” come recita la nota diramata. Il che significa almeno mezza giornata prima. Nonostante i nostri permessi siano in ordine, abbiamo aspettato una buona mezz’ora prima che un funzionario della Digos e due agenti della Forestale ci controllassero i documenti per poi farci entrare lungo un percorso obbligato, che aveva tutta l’impressione di essere stato predisposto proprio per questa occasione, scortati da agenti in tenuta anti sommossa che non ci hanno mai perso di vista.

Incrociamo i primi migranti dopo una decina di metri: giocano a calcio senza maglie e soprattutto senza scarpe. «Non vogliamo rovinarle, ci serviranno per andare via» ci dice Rami in un italiano stentato. E’ uno dei pochi che parla e capisce la nostra lingua. Continuando lungo la pista di atterraggio vediamo ancora altri agenti e tante auto “istituzionali” e qui ancora un cancello, un altro percorso obbligato sotto l’occhio vigile dei Carabinieri, poi finalmente l’ingresso della tendopoli.

Sono una ventina circa le tende che ospitano i 200 migranti, e sono le tende sono le stesse della prima emergenza dopo il terremoto del 2002. Qui ci accolgono alcuni poliziotti in borghese, il funzionario della Prefettura ed il responsabile del campo di Connecting People, l’associazione che a livello nazionale gestisce i campi di identificazione ed espulsione per conto del Ministero degli Interni.

Il campo è scandito da orari ben precisi, ci comunica il funzionario: «la mattina dopo aver fatto colazione, aspettiamo quelli che pregano, dopo di che si fanno 2 ore di lezioni di italiano, durante le quali i mediatori di Cottecting People cercano di insegnare loro almeno le frasi più comuni, per chiedere informazioni, per prendere un mezzo pubblico, cose di questo tipo». Poi pranzano e dopo aver riposato iniziano le visite mediche e lo svago. Ma è solo quando cerchiamo di parlare direttamente con i migranti che riusciamo a capire anche altre cose. «Noi non siamo abituati a mangiare sempre pasta – ci dice Chokri, che avrà si e no vent’anni – noi siamo abituati a mangiare fagioli, ceci piselli, legumi insomma, non pretendiamo cibi sofisticati, ma che si avvicinino un po’ alle nostre abitudini, e poi – continua Chokri – da quando siamo arrivati siamo senza sigarette, non possiamo uscire per comprarle e loro non ce le danno». Come non potete uscire? «E’ cosi, noi non possiamo uscire, non so perché ma è così». A Manduria, in Puglia, i migranti possono circolare liberamente, possono andare a telefonare e a comprarsi le sigarette, ma qui a Campochiaro evidentemente no. Un particolare che lo fa assomigliare più a un campo di reclusione.

L’età media dei tunisini si aggira sui trent’anni, anche se non mancano quelli più avanti con l’età. Incontriamo davanti ad una tenda uno che ha tutta l’aria di essere un po’ il capo dei migranti, un punto di riferimento visto che per parlare con lui dobbiamo aspettare che dirima una lite tra due tunisini. Si chiama Samir e ha lasciato in Tunisia la moglie e tre figli. «Lavoravo in un centro turistico prima, poi di colpo il turismo è calato di molto e i proprietari, europei, hanno licenziato 25 persone tra cui me». Come hai imparato la nostra lingua? Ci guarda divertito: «Grazie ai tanti italiani ricchi che frequentavano il complesso turistico». E aggiunge: «Finchè stavamo lì e li servivamo andava bene, poi quando scoppiano queste tragedie fanno finta di non vedere, non vogliono vedere i barconi che attraversano il mediterraneo per fuggire dalla fame, dalla disoccupazione e dalla persecuzione dei nostri governi, quello tunisino, algerino, libano ed egiziano, nei confronti di chi la pensa diversamente».

Parole amare che raccontano la tragedia che questi popoli, a poche centinaia di chilometri dalla Sicilia, soffrono per il desiderio di libertà e di riscatto sociale. Nessuno è felice di lasciare il proprio Paese, i propri affetti per andare in una nazione straniera.

Karim ci fa entrare nella sua tenda e ci mostra che a lui i soldi glieli hanno mandati, ma non può andarli a prendere perché non può uscire, ci mostra con molta gratitudine una bottiglia di bagnoschiuma ed una di shampoo che gli hanno dato appena entrato nel campo di Campochiaro. Ha 22 anni e negli occhi l’ombra della nostalgia, soprattutto per la mamma che non sente da 10 giorni. Storie uniche legate tra di loro da un filo sottile, quello dei ricordi, ma soprattutto quello della grande incognita per il futuro. A breve infatti tutti riceveranno un permesso di soggiorno temporaneo di 6 mesi, dopo di che non si sa, è incertezza completa.

In un italiano a pezzi e boccini, i ragazzi della Tunisia cercando di spiegare quello che molti dimenticano: «da noi la rivolta è scoppiata non perché Tarak Aziz continuava a negare la democrazia al popolo, ma per l’aumento del prezzo del pane». Un aumento iniziato quando gli organismi internazionali come il WTO hanno deciso che il grano poteva essere scambiato in borsa, diventando così non un bene comune acquistabile da tutti, ma un investimento soggetto a speculazioni. Contraddizioni e paradossi di un mondo dove c’è chi ancora muore di fame e chi butta il cibo nei cassonetti dell’immondizia.

Il tempo è passato in fretta, così ci avviamo per uscire dal campo facendo lo stesso percorso al contrario, sempre sotto lo sguardo degli agenti. Fuori dal campo intanto un gruppo di persone e associazioni ha organizzato un presidio, e noi usciamo proprio mentre sono in corso le trattative affinchè una delegazione possa entrare e verificare le condizioni dei migranti che secondo loro sono “detenuti”. Hanno uno striscione di benvenuto in arabo, italiano inglese e francese. La negoziazione non dura molto e la spuntano loro: possono entrare e vedere come si vive nel campo. Dopo un po’ escono e in una riunione improvvisata informano il resto del gruppo, organizzandosi per future iniziative che verranno prese per far sentire la loro vicinanza ai tunisini, i quali li hanno ringraziati commossi per il gesto e per l’attenzione che una parte dei molisani hanno avuto nei loro confronti. Intanto si è in attesa di altri 150 migranti che dovranno arrivare nei prossimi giorni, qui nella tendopoli di Campochiaro.


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