Una riflessione sulla conferenza che si è svolta il 18 Dicembre 2011 all'Aquila, con Antonello Caporale.
di Lina Calandra
“Ma com’è la situazione all’Aquila, adesso?” Mi capita di sentirmelo chiedere quando vado in giro da qualche parte, anche se, per la verità, mi capita sempre meno e ammesso che qualcuno ricordi ancora o sappia che la mia città non è ricostruita, che il mio quartiere è per gran parte vuoto, che la mia casa deve essere abbattuta. Puntualmente, e in maniera un po’ stizzita, rispondo: “Non lo so”. Per tagliare corto, per trattenere l’urlo, per vergogna.
La verità è che io sto bene: ho la mia famiglia, ho un lavoro, non ho più il problema di parcheggiare in centro, ho molti più amici di prima, sono molto più lucida e consapevole. Ecco, la consapevolezza: dono prezioso del terremoto. Non tornerei indietro, ma, questo sì, vorrei andare oltre: oltre la paura, oltre i morti, oltre le macerie, oltre quello che non c’è più, che non ci sarà mai più e che, francamente, non voglio più.
L’ho studiato sui libri, ma ora ho la fortuna di averne coscienza avendone fatto esperienza: siamo inadeguati e profondamente ignoranti. Inadeguati perché pensiamo che si possa “governare il rischio” pretendendo, però, che lo facciano altri, gli “esperti” e i “politici”; e siamo inadeguati perché poi, puntualmente, quello che invece ci ritroviamo a fronteggiare, senza poterli veramente governare, sono gli effetti del rischio fattosi tragedia. Siamo ignoranti perché non sappiamo che non è il rischio che domina le nostre vite, ma è l’incertezza. Pioverà o non pioverà? E dove pioverà? E quanto pioverà? E per quanto tempo pioverà? E come pioverà? … e la mia casa, resisterà?
E poi, siamo in malafede perché piuttosto che ammettere di essere inadeguati e ignoranti, diamo la colpa al terremoto, al governo, alla politica, ai giudici, a Dio, ai mercati. Saranno “nervosi” o avranno “fiducia”? La borsa salirà o scenderà? E dove scenderà? E se scenderà, quanto scenderà? Come scenderà? Per quanti giorni scenderà? … e la mia casa, resisterà?
E poi, siamo arroganti perché pur essendo stati sfiorati o, per alcuni, toccati dalla morte; e pur essendo stati sconvolti, chi più e chi meno, dalla distruzione, piuttosto che rimettere in discussione i nostri punti di vista, preferiamo lagnarci, protestare, rivendicare, vedere solo il nostro orticello, chiuderci in casa. L’idea che la responsabilità di quello che è successo e di quello che continua a succedere non sia della natura o di qualcuno in particolare, ma delle nostre forme di pensiero e di comportamento, fa molta fatica ad affermarsi. E tanto eravamo ciechi prima, tanto siamo irragionevoli oggi, nonostante quello che è successo.
D’accordo. Queste sono opinioni. Ma alla fine, di cosa ha bisogno L’Aquila per essere ricostruita? Di cosa ha bisogno L’Aquila? Di cosa hai bisogno tu, aquilano?
Di “intelligenza collettiva”. Questa è la proposta della Fondazione Mida e dell’Osservatorio Permanente sul Doposisma che il 18 dicembre, insieme a Rena e Snark, hanno presentano, appunto, l’esperimento di “intelligenza collettiva” in corso per la riqualificazione, valorizzazione, trasformazione del Parco a Ruderi di Auletta e del suo territorio. Strumento principale di tale sperimentazione è un Bando per un Concorso di Idee, dai caratteri innovativi e originali.
Nel “modello Auletta” lo sviluppo viene concepito come percorso e non come “progetto di sviluppo”: non si tratta di elaborare il migliore progetto del mondo, del migliore esperto del mondo, per poi calarlo in qualche modo e in qualche parte su questa terra; e non si tratta di elaborare il migliore progetto del mondo, del migliore esperto del mondo, per chiedere, poi, a chi abita da qualche parte sulla terra e a garanzia delle procedure democratiche e di partecipazione: “Che ne pensate?”.
Concepire lo sviluppo come percorso è un atto di umiltà che riconosce quanto sia illusoria la capacità tecnica e politica di pianificare il sociale, l’economia, il territorio o, peggio, la capacità di governare il rischio (di fallimento, di disastro, di morte fisica e sociale).
Lo sviluppo come percorso è in linea con le riflessioni sui limiti del paradigma sviluppista e con le riflessioni sulla necessità di disporre di nuove visioni della realtà che assumano non il rischio, ma l’incertezza come dato inalienabile dell’esistenza, di ognuno di noi come dei nostri sistemi sociali nel loro complesso. E l’incertezza, che non può essere misurata, prevista, cartografata, eliminata, si governa attivando relazioni, tante e di vario tipo. Perché più sono le possibilità di combinare e connettere soggetti, idee, attività, luoghi, e più possiamo sperare di resistere, durare, auto-gestirci. È la visione sistemica: maggiore è la flessibilità del sistema, maggiore sono le possibilità di risposta.
In questo senso, nel “modello Auletta” non c’è spazio per posizioni ideologiche o per logiche di appartenenza che restituiscono visioni manichee e semplicistiche del reale (bello o brutto, buono o cattivo, giusto o ingiusto). Nel “modello Auletta”, piuttosto, sono contemplati comportamenti orientati alla fiducia, creatività, sperimentazione, apertura, collaborazione. Si scardinano le logiche della contrapposizione di valori, posizioni e interessi e le logiche della competizione di idee, gruppi, progettualità.
Allo stesso modo, non c’è spazio per principi astratti e universalistici tanto incontestabili su un piano generale quanto controversi, problematici, paradossali nel momento in cui si calano in contesti specifici di luogo e di tempo. Chi oserebbe mettere in discussione principi quali sicurezza, sostenibilità, eco-compatibilità? Nessuno, certo. Ma quando, poi, in nome di “prestazioni” generali (sicurezza sismica, risparmio energetico, produzione di energia da fonti rinnovabili, utilizzo di materiali ecologici, ecc.) ci si ritrova nel proprio territorio con 19 Complessi Antisismici Sostenibili Ecocompatibili (C.A.S.E.) per un totale di 4.500 abitazioni, il dubbio che le visioni del mondo basate su principi astratti siano pertinenti e utili rispetto ai bisogni di chi vive un contesto specifico di tempo e di luogo, dovrebbe insinuarsi con prepotenza nella mente. Eppure, non è quello che avviene, e non avviene all’Aquila come in tanti altri contesti dell’Italia, dell’Europa e del mondo; e non avviene nonostante il numero enorme di casi in cui principi astratti incontestabili calati nel concreto finiscono per impoverire o distruggere comunità e territori.
E allora? Ben vengano esperimenti di “intelligenza collettiva” all’Aquila sul modello Auletta?
Troppo facile. All’Aquila non ci sono i prerequisiti. Ma poi, quali sarebbero i prerequisiti che il modello Auletta dovrebbe prevedere?
Ho bisogno di sentir raccontare altre storie: “I soldi ci sono! Non è vero, i soldi non ci sono!”; “È colpa di tizio! No, non è vero. È colpa di caio!”.
Ho bisogno di avere la possibilità di raccontare un’altra storia di me terremotata e dell’Aquila terremotata. Una storia che sgombri il campo da facili e falsi alibi (il terremoto, la crisi, la politica, gli aquilani, gli italiani …) e che racconti senza ipocrisia come in realtà siamo tutti preda di una sorta di “follia collettiva”. Siamo chiusi in casa, compriamo casa (qualcuno ha idea di quanti aquilani dopo il sisma abbiamo comprato casa sulla costa?), costruiamo casa, inauguriamo case. Dal sisma, ho perso il conto di quante case sono state “inaugurate”: Casa dello Studente, Casa Onna, Casematte, Casa famiglia Immacolata Concezione, Casa degli Alpini, Casa del Volontariato con annessa Casa dell’Associazionismo, Casa della Croce Rossa, Casa del Teatro, Casa Massonica … E di quante case si insegue spasmodicamente l’apertura: Casa della Solidarietà, Casa delle Donne, Casa della Città … scambiando per “obiettivo politico” quella che in realtà è una cecità mentale causata dall’uso distorto, cinico e perverso delle parole: casa, case, C.A.S.E.. Ma poi, in tutte queste case, chi ci sta, chi ci va? Qualcuno ha idea di quante case riparate, di quelle non gravemente danneggiate, siano vuote oggi all’Aquila?
Abbiamo bisogno di altre parole per descrivere e spiegare la realtà, perché le parole creano mondi e visioni e traduco idee, hanno la forza di orientare i comportamenti, possono cambiare il modo di porre i problemi e di trovare le soluzioni. Insomma, abbiamo bisogno di altre parole perché le parole sono gli “attrezzi” con i quali costruiamo conoscenza e competenza, e con i quali confezioniamo il sapere.
La co-costruzione di conoscenze: questo è il primo prerequisito dal quale un modello come quello proposto per Auletta non può prescindere, pena la sua riduzione a semplice e tautologico esercizio di stile, tanto vuoto quanto inutile, manipolativo e, in definitiva, “mimetico” di logiche d’interesse legittime, ma che nulla hanno a che fare con l’obiettivo dichiarato di innescare processi di sviluppo attraverso esperimenti di “intelligenza collettiva”.
E come si fa a co-costruire la conoscenza, e cioè i quadri interpretativi della realtà entro i quali si definisce poi l’azione politica? Non c’è una sola ricetta, e per la verità, la ricetta la si può scrivere solo dopo aver preparato la pietanza e verificata la sua bontà. Alcuni ingredienti di base, comunque, si possono indicare: i saperi “profani” e i saperi “esperti”.
Prima di elaborare qualunque progetto (di sviluppo o, come più spesso accade, di un’opera) o qualunque percorso di sviluppo, la necessità di far emergere i saperi “profani” di chi abita il territorio e la necessità di farsene in qualche modo carico, è nei fatti: o lo fai prima del progetto e ci fai i conti prima, o comunque dopo, in occasione dell’annuncio o dell’avvio del progetto, ti toccherà affrontare l’irruzione sulla scena tecnica e politica del “profano”. No Tav, No Dal Molin, No Gasdotto, No Gassificatore, No Inceneritore, No Discarica ... cosa sono se non l’irruzione della conoscenza “profana”, ossia della conoscenza dei singoli che abitano un territorio, sulla scena della progettazione e realizzazione tecnico-politica?
Si tratta di un atto di umiltà da parte dei saperi “esperti” e di una assunzione di responsabilità rispetto al fatto che una parte importante della conoscenza umana è necessariamente dispersa tra gli individui; di riconoscere al sapere “profano” lo stesso statuto della conoscenza “esperta”; della necessità di aprire il sapere “esperto” (centralizzato) alla contaminazione “profana”, diffusa e dispersa nella quotidianità di ogni singolo abitante. È in questa, del resto, e cioè nella quotidianità di ogni abitante, che si costruisce la memoria e che dovrebbe affondare le sue ragioni più profonde la partecipazione dei singoli alla costruzione di visioni comuni. Ecco, la partecipazione: riconduciamola alla sfera della co-costruzione della conoscenza per l’elaborazione dei quadri interpretativi della realtà entro i quali definire, in seconda battuta, l’azione politica. E sottraiamola alla lotta politica o, peggio, all’affronto elettorale e alla costruzione del consenso se non vogliamo che la partecipazione si traduca in pratiche manipolative, dissimulative, mimetiche.
Secondo prerequisito: la politica come arte raffinata e sofistica di “tenere insieme” le persone su un territorio e di tenerle insieme non con la “forza” (troppo facile) o, peggio, con le “lusinghe” e le “promesse” (troppo facile anche questo), ma attraverso la “cura dei luoghi”. Perché è la qualità dei luoghi che orienta i comportamenti delle persone (vado via o rimango?); perché è il “dove” si prendono le decisioni che definisce la loro pertinenza rispetto a chi abita un territorio (a chi e a cosa serve questo progetto?); perché è la terra che calpestiamo tutti i giorni che può farci sentire bene, felici, sicuri, partecipi, operanti.
Perché dovrei tornare a vivere a Pettino dopo che avranno ricostruito la mia casa, dopo che avranno ricostruito tutte le case? Diciamoci la verità: Pettino non era un quartiere (come non lo sono i C.A.S.E.), ma una accozzaglia informe di edifici costruiti su terreni noti agli “esperti” per la scarsa qualità; costruiti parallelamente alla faglia di Monte Pettino; costruiti in buona parte con criteri antisismici insufficienti… I servizi? Mah, sì. Bene o male c’erano. Ma comunque, a Pettino, senza macchina non vai da nessuna parte. Ma no, che dico: anche con la macchina, dove vai a Pettino? Non una piazza, non un parco, non un mercato, non un campo sportivo. I marciapiedi? Qualche panchina? Non so, non ricordo. Potrei immaginare di tornare a Pettino se potessi dire la mia, se potessi decidere con altri che forma dare ai luoghi dell’abitare e non solo se riavrò una casa nuova!