Pubblichiamo un contributo che ci è stato gentilmente inviato da Davide Marino, laureato in Scienze Politiche, di Brenta (Varese), che negli ultimi anni si è avvicinato allo studio dei disastri italiani e dei terremoti in particolare, e che qui considera il problema della fragilità italiana di fronte ai terremoti anche alla luce dei terremoti dell'Aquila del 2009 e del Centro Italia (2016).
di DAVIDE MARINO
Negli ultimi anni ho avuto occasione di avvicinarmi al tema dei disastri naturali in Italia, in particolare ai terremoti, spinto da una considerazione: penso infatti che le politiche volte a prevenirne e gestirne gli effetti siano una cartina di tornasole efficace della cultura e della mentalità del popolo italiano, con i suoi pregi e i suoi difetti.
L’analogia con alcuni crac del mercato finanziario (di cui mi sono occupato per lavoro) degli ultimi anni è forte: è mancata, e manca, una cultura del rischio, a tutti i livelli.
Occorre cambiare la cultura del rischio nel nostro Paese. Così Fabrizio Curcio, ex capo dipartimento della Protezione civile: «La differenza la devono fare, ogni giorno, l’educazione del singolo cittadino, la nostra maggiore coscienza del rischio, la nostra maggiore conoscenza dei pericoli e dei fenomeni naturali» (Erasmo De Angelis, Italiani con gli stivali. Storia, imprese, organizzazione della protezione civile, Polistampa, Firenze 2016, pag. 5). Un appello all’assunzione di responsabilità a cui sono chiamati tutti i cittadini. In una democrazia rappresentativa i rappresentanti sono, nel bene e nel male, lo specchio dei rappresentati. La storia, anche quella recente, ci insegna che per risolvere i problemi di un popolo non è sufficiente sostituire la vecchia classe politica con una nuova (basti pensare al caso di Tangentopoli, nel 1992). Solo con una presa di coscienza dei suoi singoli cittadini si possono, probabilmente, ottenere risultati migliori rispetto a quelli a cui si è giunti in passato: è la sfida dei prossimi decenni!
Per questo motivo le riflessioni contenute nella lettera che segue sono rivolte al Cittadino Marino Davide (me stesso) e, di riflesso, ad ogni Cittadino italiano.
Il decimo anniversario del terremoto dell’Aquila è l’occasione per fare un bilancio di come sia stato gestito il rischio sismico in Italia negli ultimi quarant’anni con l’obiettivo di individuare quali passi avanti sono stati fatti e cosa poteva essere fatto e non è stato fatto in materia di prevenzione, gestione dell’emergenza e ricostruzione. E soprattutto cercare di capirne il perché. Dal punto di osservazione del comune cittadino la sensazione e la domanda che ci si potrebbe porre riguarda il fatto che le vittime e i danni sarebbero potuti essere inferiori se si fossero attuati tutti gli accorgimenti che il progresso scientifico, pur con le sue contraddizioni, ci ha consegnato e che dovremmo esser in grado di maneggiare in maniera più proficua.
Gli innegabili progressi in tema di interventi di protezione civile si sono concentrati soprattutto per fronteggiare le emergenze conseguenti agli eventi sismici, ma non vi è stata una pari attenzione in tema di prevenzione. Si tratta di una questione culturale, di mentalità difficile da modificare: l’attuazione delle misure di prevenzione richiede una programmazione di lungo periodo e un impegno senza soluzione di continuità, i cui benefici si vedrebbero a distanza di decenni. La mentalità del “tutto e subito” e dell’intervento a fatto compiuto costituiscono senza dubbio un freno a questo salto di qualità culturale.
Come afferma Stefano Ventura nel contributo pubblicato nel Rapporto 2010 dell’Osservatorio permanente sul dopo sisma «Uno stato come il nostro, incredibilmente fragile dal punto di vista geofisico, deve dotarsi di strumenti e antidoti sia assumendo la tutela del territorio come consapevolezza primaria sia adottando strumenti di intervento super partes non piegati a interessi contingenti e temporanei» (Stefano Ventura, Trent’anni di terremoti italiani: un’analisi comparata sulla gestione delle emergenze, in: Osservatorio permanente sul dopo sisma (a cura di), Le Macerie invisibili – Rapporto 2010, (Fondazione Mida, Pertosa (SA), pag. 83, acquisito il 29/07/2018). Una fragilità del territorio cui si somma quella socio-politica e che ha come risultato quello di porre l’accento sull’emergenza e non sulla prevenzione. Una pianificazione preventiva di lungo periodo degli interventi ridurrebbe gli effetti negativi dei terremoti in termini di vite umane e di danni materiali. Permetterebbe di predisporre misure volte a limitare fenomeni come la corruzione e la speculazione, i quali trovano terreno più fertile nei momenti ad alta emotività, come lo sono quelli successivi al sisma.
La telefonata intercettata nella quale, poche ore dopo il terremoto in Abruzzo, l’imprenditore rideva col cognato per l’accaduto pregustando i lauti ed immediati guadagni che la ricostruzione avrebbe dato loro, costituiscono un esempio emblematico di questa subcultura. Un episodio che ha trovato un seguito indegno con il terremoto del Centro Italia del 2016 (Raffaello Binelli, Terremoto Amatrice, imprenditore rideva pensando ai futuri affari. Proprio come a L'Aquila, in «il Giornale.it», 19/07/2017, ultimo accesso 22/02/2019). Senza dimenticare l’abusivismo edilizio, difeso pubblicamente dagli stessi autori, e denunciato da Legambiente, che ha amplificato le conseguenze negative del terremoto di Casamicciola nell'isola d'Ischia del 2017 (Lodovica Bulian, Il dolore di Casamicciola (che difendeva l’abusivismo), in «il Giornale.it», 23/08/2017, ultimo accesso 22/02/2019). O il crollo della scuola Francesco Jovine di San Giuliano di Puglia che nel 2002 provocò la morte di 27 bambini e un’insegnante a causa di una sopraelevazione dell’edificio scolastico, costruita poco prima del terremoto, per la quale, come ha sentenziato la magistratura, non erano stati effettuati gli adeguati collaudi (Autori di Wikipedia, Terremoto del Molise del 2002, Wikipedia, https://it.wikipedia.org/wiki/Terremoto_del_Molise_del_2002, ultimo accesso 22/02/2019).
Del resto anche la gestione dell’emergenza può e deve essere migliorata. A proposito del terremoto del Centro Italia l’on. Giuseppe Zamberletti, padre fondatore della Protezione civile venuto a mancare il 26 gennaio scorso, argomentava che la gestione della prima fase dell’emergenza, in sintesi il primo soccorso, aveva funzionato perfettamente. Era, però, mancata la gestione della seconda fase: l’emergenza non si esaurisce estraendo le persone dalle macerie, ma arriva fino al reinsediamento della popolazione in alloggi provvisori e alla ripresa della vita economica e sociale. In questo senso rispetto, ad esempio, alla gestione dell’emergenza in Abruzzo è stato fatto un passo indietro (Stefano Mensurati, Ricordo di Zamberletti, in «Tra poco in Edicola», Rai Radio 1, 29/01/2019, ultimo accesso 26/02/2019).
Proprio nella fase più delicata, quando cala l’eco mediatica e l’impulso spontaneo ad aiutare le popolazioni e le aree in difficoltà si allenta, la presenza di una legge quadro sulle emergenze contribuirebbe a gestire le fasi successive al primo soccorso in maniera più razionale e coordinata. Aiuterebbe le popolazioni colpite dal terremoto a guardare al futuro con più fiducia, requisito fondamentale per pianificare nel lungo termine.
Un’adeguata prevenzione e un’efficiente gestione dell’emergenza rappresentano elementi basilari per mitigare gli effetti negativi dei terremoti fino quasi ad azzerarli, in questo modo favorendo una più rapida e meno costosa ricostruzione materiale e sociale. All’indomani del terremoto di Campania e Basilicata del 1980, in una relazione indirizzata al Presidente della Repubblica Sandro Pertini, il prof. Franco Barberi scriveva: «È in generale possibile intervenire su una vecchia costruzione per ottenere che la sua sicurezza sia paragonabile a quella di una nuova costruzione eseguita secondo le norme oggi vigenti; ma il costo di tali interventi è maggiore dell’extra-costo di una progettazione antisismica fatta all’origine. Una stima di larga massima conduce a ritenere che intervenire oggi sul patrimonio edilizio esistente nelle zone sismiche italiane per ottenere una sicurezza sismica omogenea comporterebbe un intervento dell’ordine di 40.000 miliardi. Si tratta di un investimento imponente che deve essere verificato con ricerche sulla consistenza effettiva del patrimonio edilizio ed affinando le tecniche di intervento già oggi disponibili. Deve essere tuttavia detto chiaramente che il non affrontare questo problema significa adottare una decisione precisa: la situazione di regime sarà raggiunta aspettando che le vecchie costruzioni in zona sismica vengano distrutte dai futuri terremoti, quando non saranno demolite dall’uomo per altre ragioni. Questa decisione ha un costo sociale immenso. Adottarla di fatto, attraverso la politica dello struzzo, non è degno di una classe dirigente responsabile» (Andrea Barocci, Rischio sismico, Grafill, Palermo 2015, pag. 44).
Oggi, più di allora, esistono gli strumenti per valutare i costi e i tempi necessari per realizzare un simile progetto. Ciò che sembra ancora mancare è la volontà, o meglio la mentalità. La “politica dello struzzo”, denunciata dal prof. Barberi nella sua relazione, è un retaggio culturale del nostro Paese difficile da estirpare: prima gli sconvolgimenti politici di inizio anni novanta (Tangentopoli), poi la crisi economica del 2008 hanno confermato l’incapacità delle componenti politico-sociali ed economiche di perseguire una linea comune di lungo periodo, l’unico vero modo per poter ideare ed attuare la messa in sicurezza del nostro patrimonio edilizio. In questo contesto il cittadino deve assumere un ruolo attivo, non subire passivamente le decisioni della classe dirigente, peraltro divisa, ma contribuire a creare l’unità di intenti, alla cui base c’è la condivisione dei valori, indispensabile per pianificare un futuro nel quale il prossimo terremoto non sarà vissuto come un dramma dalle conseguenze ineluttabili. L’alternativa è quella di proseguire a gestire bene l’emergenza in conseguenza di un terremoto grazie all’operato di un sistema di protezione civile all’avanguardia, senza però analizzare a dovere in quale misura un’appropriata pianificazione avrebbe permesso di impiegare le stesse forze in via preventiva, evitando o diminuendo, in molti casi, vittime e danni materiali.
In questo contesto Io, in qualità di cittadino, cosa posso fare concretamente?
Nell’estate del 2017 mi trovavo ad Orvieto, comune in provincia di Terni classificato in zona sismica 3, un’area marginalmente colpita dal terremoto del Centro Italia: chiesi ad un albergatore se il sisma avesse causato danni economici all’attività commerciale e mi rispose di sì, addebitando la colpa ai mass media, rei di “scrivere troppo” sul terremoto. Io Cittadino ho il dovere di informarmi, Io Cittadino ho il diritto di essere informato. E i mass media hanno il compito di informare. Io Cittadino devo e voglio conoscere cosa si intende per rischio, cosa posso fare per ridurlo, quanto rischio se non metto in atto le misure atte a limitarlo. Non voglio “nascondere” la realtà e non voglio che mi venga nascosta: temere di rivelarla perché si pensa possa avere effetti negativi non fa altro che acuirli.