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Giovedì 16 Giugno 2011 11:17

Palomonte: non-luogo che amo e che voglio cambiare

Scritto da  Simone Valitutto
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Vivo a Palomonte. O meglio qui ho trascorso la prima parte della mia vita.

In questo paese ho imparato a scrivere e leggere (ho iniziato a parlare e camminare a Vespolate, agglomerato di case della Pianura Padana dove i miei si erano trasferiti per lavorare), visto i cartoni animati, festeggiato i miei compleanni più belli, ascoltato per la prima volta De André, dato il primo bacio, letto “Cent’anni di solitudine”, mi sono connesso per la prima volta alla rete, imparato a guidare, votato per esprimere le mie idee, condiviso giorni e giorni con la mia famiglia… e tante altre migliaia di cose che mi hanno reso quello che sono…

Prima per frequentare il liceo, poi per seguire l’università ho iniziato a distaccarmi sempre di più da quest’agglomerato di pietre. A volte mi pesa ritornarci, perché in questo paese mancano il cinema dove andare a vedere un bel film, il corso principale dove rincontrare gli amici, la sede del partito di cui sono tesserato in cui organizzare le attività… e altre migliaia di assenze che mi hanno reso quello che sono…

Mi sento di dire, perciò, che chi critica il mio Paese è come se criticasse, un po’, anche me. Nessun campanilismo o prosciutto sugli occhi, solo difesa di quell’essenza offuscata che m’illudo di aver colto giorno dopo giorno.

Voglio qui provare a capire perché il mio Paese non ha per i più le fattezze del borgo, la socialità del paesino di campagna, l’aura del luogo natìo.

Forse il colpevole è il terremoto che nel 1980 ha spezzato vite e scaraventato la coscienza contadina verso il nulla della ricerca di un’identità (operaio? impiegato? commerciante? artigiano?)?

Forse la colpevole è la classe politica, nazionale e locale, che ha lasciato sola questa gente, anzi, mi correggo, ha provveduto a non renderla indipendente perché sotto le loro macerie, senza che i più fessi lo sapessero, avevano una miniera d’oro?

Forse i colpevoli sono degli intellettuali e scienziati sociali che non hanno colto quanto il baratro del post-terremoto fosse tremendo ed aiutato queste persone a vivere il passaggio verso il superamento dello choc in maniera adeguata?

Forse la colpevole è la Chiesa che non ha curato le anime di quei poveri cristi, che si ritrovano senza Dio perché senza una chiesa dove celebrare la messa?

Io un colpevole specifico non ce l’ho, ma imputo la colpa ai miei concittadini, quelli venuti prima di me.

Quelli che negli ultimi trent’anni hanno venduto il proprio voto, comprato un posto di lavoro, edificato abusivamente, distrutto i reperti archeologici che sbucavano dai loro terreni, abbandonata a sé stessa la campagna, terminato la loro vita a causa dell’amianto, sfilacciato il tessuto sociale con lotte fratricide tra frazioni, preferito opere pubbliche maestose ed incomplete alla ricostruzione pietra per pietra del centro storico…

La colpa non ha nomi e cognomi, ha il viso dell’ignavia, del “è inutile fare qualcosa perché tanto tutto tornerà come prima”, del lasciare che l’acqua scorra e possibilmente non porti il cadavere del nemico, ma i suoi soldi.

L’ingordigia ha prodotto solo il vuoto, case piovute dal cielo disabitate da anni come i ruderi che le circondano, strade che non sembrano fatte per essere percorse da auto, cave che hanno bucherellato le colline come se gli abitanti del paese fossero delle tarme.

Da luogo ad a-luogo. Palomonte non trova posto nelle cartine geografiche della coscienza civile, della partecipazione, dell’altruismo.

Homo homini lupus verrebbe da dire, la ferinità è una caratteristica di tutti gli uomini, ma soprattutto delle bestie ferite ed il terremoto di trent’anni fa è solo l’ultima piaga del mio paese.

Certo l’emigrazione aveva impoverito da anni il tessuto socioeconomico, certo la Dc aveva già governato per decenni lasciando il posto al Psi per ulteriori decenni, certo la questione meridionale non s’era ancora risolta nonostante casse, leggine e promesse, certo la deriva consumistica della produzione industriale aveva colto impreparati i contadini dell’autosussitenza…

Sicuramente la forza del lottare e non scappare dell’intellighenzia e delle classi popolari, finiti gli anni ’70, hanno lasciato il posto alla rassegnazione del crepuscolo della Prima Repubblica.

E’ tutta una questione politica più che socio-antropologica allora?

Non saprei. So solo che l’unica cosa che riesco a fare è amarlo questo Paese rovinato che mi hanno lasciato. E’ questa l’essena offuscata. Nonostante tutto, Palomonte è il luogo che amo e devo amare per amare me stesso. Le azioni concrete, le riflessioni e le rivoluzioni, con questo motore, vengono da sé.

Simone Valittutto, palomontese

Pubblicato in Campania - Basilicata

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