fondazione Mida

Sabato 25 Giugno 2011 14:41

Le case del Sud. Tra catastrofi, illeciti e autorappresentazioni

Scritto da  Simone Valitutto
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Dopo circa quarant’anni dal famoso colera napoletano e dopo più di quindici anni di commissari straordinari, presidenti di regione e sindaci discussi, esercito ed altri rappresentanti dello Stato italiano occupati a risolvere la mancata raccolta per le strade della munnezza, Napoli e la sua provincia sono ancora in ginocchio. Inchieste giudiziarie, reportage, studi analitici e statistici hanno raccontato, incriminato e quantificato un’emergenza pluridecennale in cui connivono criminalità organizzata, Stato corrotto ed inciviltà. La soluzione, per ora, pare irraggiungibile, occorrerebbe estirpare il problema alla radice, capendo come e perché i cittadini napoletani si ritrovano in crisi perenne. Probabilmente occorre solo osservare ciò che i vicoli di Napoli raccontano. La cosa che più colpisce passeggiando (tappandosi il naso) per la città e sbirciando tra le porte a livello della strada dei bassi, nelle finestre dei palazzi nobiliari, ai balconi dove penzolano, iconografici, i panni stesi è l’ordine degli arredi, i profumi di bucato e dei detergenti domestici, la lucentezza dei vetri, le casalinghe spesso colte a pulire e rassettare… mentre a pochi metri cumuli di rifiuti gettati con incuria marciscono al sole. Tanto le case di Napoli sono linde e profumate quanto le strade, le piazze, i vicoli, gli incroci sono occupati dalla munnezza ed esalano odori che solo un poeta barocco potrebbe descrivere. Questo ossimoro svela il nucleo del tipo antropologico del cittadino meridionale: il mio, poiché mi rappresenta, è curato e mantenuto in ogni simbolico dettaglio, il loro e la cura degli spazi comuni sono abbandonati a sé stessi, delegati ad uno Stato fatto assistenzialista. Una dicotomia che mostra come il cittadino napoletano  (il discorso potrebbe essere esteso comunque a tutto il Meridione) concepisca il luogo pubblico; anche se sulla strada si cresce e si mettono in atto alcune azioni sociali importanti, si impara a convivere col suo degrado rappresentato dalla munnezza, ma costituito anche da altri micro elementi.

Una città è ostaggio dei rifiuti perché ostaggio di una classe politica collusa, ma anche perché i suoi abitanti hanno altre priorità nella strutturazione della propria identità e la casa è un nodo centrale di questa particolare modalità di costruzione e rappresentazione del Sé. Nei bassi come negli attici, ogni mobile, ogni colore, ogni spazio è ragionato, così come la cura dell’abitazione serve a reiterare ogni giorno il mito di fondazione di quella famiglia tramite l’officialità femminile. Attraverso il luogo privato in cui vive il napoletano si autorappresenta, ma perché la proverbiale affabilità partenopea si ritrova rinchiusa tra quattro mura? Perché la strada, la piazza, il vicolo sono solo luoghi di passaggio anche quando si percorrono ogni giorno per anni ed anni? Perché il luogo pubblico è abbandonato a sé stesso, mentre la proprietà privata è curata con zelo certosino? Probabilmente perché questi luoghi pubblici sono gestiti da uno Stato estraneo, che ne dirige parcheggi, manutenzione, rifacimenti… o almeno dovrebbe. Probabilmente perché gli spazi collettivi definiscono la comunità e non i singoli status che in assenza di un lavoro gratificante, di un ruolo sociale definito, sono testimoniati esclusivamente dalla ricchezza e pulizia delle abitazioni. Ogni casa racconta chi la abita, ma soprattutto è il prodotto di ciò che un nucleo familiare o i singoli che la vivono vogliono mostrare di sé. Non solo a Napoli. Si prenda il caso della ricostruzione irpina, anche qui le case raccontano l’indole dei loro inquilini e sono il prodotto di una serie di azioni sociali e politiche. La casa del terremoto è il bluff del singolo cittadino allo Stato, testimonia l’abilità del proprietario che ha saputo approfittare di soldi piovuti dal cielo si, ma difficilmente reperibili, per i lunghi tempi e le file da scavalcare solo grazie all’aiuto illecito degli azzeccagarbugli locali. La maestosità delle strutture di cemento da rivestire, la magnificenza delle stanze, i colori sgargianti, i mobili all’ultimo grido. Questo è ciò per cui si commettono illeciti. Non importa che quella casa non abbia un sistema fognario, una strada agibile che la colleghi al centro nonostante sia stata costruita su un dirupo… anche quando è disabitata la casa rimane lì a simboleggiare come un diritto si sia trasformato in un aver fatto fesso lo Stato. Una ricostruzione poco oculata che ha moltiplicato metri quadri e volumi e calato dal cielo palazzi, a volte esperimenti di architettura estrema, è servita agli abitanti dei paesi e delle campagne a raccontare in che modo si siano evoluti, come siano riusciti, esasperando un proprio diritto, a raggiungere il livello di “civiltà” di chi vive in città, salire palazzi dai mille piani, avere gli stessi consumi, gli stessi mobili all’ultimo grido.

Altro caso in cui le costruzioni architettoniche significano le modalità di rappresentazione dei cittadini del Sud Italia può essere quello calabrese. Le colline d’Aspromonte e del Pollino, le coste ioniche e tirreniche sono cosparse di scheletri di cemento e ferro, magari chiusi da un grezzo strato di mattoni, ma senza tetti ed infissi. Sono le abitazioni perennemente in costruzione esiti di progetti maestosi, sono le case frutto di anni di emigrazione o sbucate per riciclare denaro sporco, sono gli abusi edilizi che vogliono urlare la terra è mia e ci faccio sopra quello che voglio senza tener conto del dissesto idrogeologico su cui stanno gettando le fondamenta. Case a metà su terreni di pastafrolla. Non importa se prima o poi la Natura provvederà a farle fare la fine che meritano, conta la loro esistenza, conta che concretino uno status ed un ruolo sociale, magari in via di costruzione. Le case incompiute calabresi, che siano in paesi fantasma o nei pressi dei luoghi di villeggiatura, mostrano ancora una volta una modalità di rapportarsi allo Stato, qui è sfidato, qui si mostra chi controlla il territorio tratteggiando le linee delle case abusive. Queste tre suggestioni nate dall’ulteriore crisi napoletana di questi giorni hanno messo in evidenza come tre piaghe socio-politiche del Mezzogiorno (crisi dei rifiuti, cattiva gestione ricostruzione post sisma, abusivismo edilizio) abbiano come cartina di tornasole la casa, in quanto modalità di auto rappresentazione del proprio status sociale. Inoltre, mostrano tre differenti modalità di relazionarsi allo Stato, anzi dello Stato con i cittadini, sempre lontano, mal interpretato, sfidato. La casa racconta chi la vive cosa vuole mostrare di sé alla comunità e allo Stato, simbolo di rapporti di potere, visioni del mondo e costruzioni identitarie messi lì, mattone su mattone.

Simone Valitutto

Pubblicato in Attualità

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