fondazione Mida

Domenica 29 Maggio 2011 15:33

L'ora scura. Napoli raccontata da una storia inedita - ultima parte

Scritto da  Sandra Paturzo
Valuta questo articolo
(46 Voti)

Fulvio quella mattina si alzò tardi. Dalla sua casa un po’ più su dei Vergini, e quasi all’Osservatorio Vesuviano, si vedeva dall’alto un bel pezzo di città. Poteva dirsi in collina, ma in una Napoli in cui tutto si mescola e si trasforma, non nella collina elegante e borghese del Vomero, ma innestata e avviluppata alla radice della Napoli popolare e più antica, tra i Vergini ed il rione Stella, salendo verso Capodimonte.

Il padre, professor Labriola, cazzutissimo docente di diritto, l’aveva scelta per la sua bellezza, trattandosi di un antico palazzo, il cui colore rosso cupo, conferma a Napoli i palazzi del potere, e sperduta su una punta, godeva perfino di un giardino; ma al professore era piaciuta anche per la sua naturale vocazione ad appartenere al centro storico. La famiglia Labriola veniva dalla provincia, e si era trasferita in città per l’avvento del rampollo all’Università. Fulvio aveva respirato in casa, fin da bambino la cultura e la politica, quella alta, influenzata dal carattere liberal e progressista dei suoi genitori. Ma non aveva fatto mai in vita sua un solo giorno di lavoro, e la sua provenienza dalla vita tranquilla della provincia, gli faceva sembrare elettrizzante la naturale commistione delle diverse provenienze e appartenenze, che caratterizza gran parte della città.

Si era svegliato tardi, e dalla finestra non aveva visto nulla di nuovo. Eppure scendendo di casa, si accorse che qualcosa era dovuto succedere, o stava per accadere. Inizialmente non riusciva a capire cosa, aveva come una strana sensazione appiccicata addosso, tolse le cuffiette dell’Iphone, e si accorse che era nell’aria quel qualcosa di nuovo, o diverso, che lo inquietava. Quasi non c’era rumore. Le macchine erano poche, e circolavano scorrevolmente, ed i motorini erano del tutto assenti. Mancava del tutto il rumore di quei motori truccati e stridenti, che grattano l’aria ad ogni momento del giorno e della notte. La città sembrava presa da un incantamento. Leggera, ovattata, semplice, come non era mai stata. Lui stava andando al Museo Nazionale, per prepararsi una lezione di storia dell’Arte, ma fu come attratto, preso da una foga, e ripiegò verso Via Costantinopoli. A metà strada lo fermò un suo collega.

Il sole già quasi estivo gli imperlava la fronte, saliva in direzione opposta, ed ansimava.

“ Ma hai saputo, che è successo?” gli disse senza neanche salutarlo.

“ Cosa?!” chiese Fulvio allertato, e sorpreso dalle condizioni in cui si trovava l’amico.

“ Da Port’Alba a Porta Capuana hanno chiuso tutto”.

“ Chiuso in che senso?”.

“ Chiuso, nel senso che non si entra più, e nessuno ne esce”.

Cercò di riflettere, “ Nel senso che stanno facendo dei lavori?”.

“Macché! C’è stata una rivolta. L’hanno dichiarata territorio franco. Come uno stato asserragliato all’interno della città”.

“ Ma chi? Chi è stato? Come è successo? E la polizia?”, disse tutto insieme, e tutto d’un fiato, tanto che l’eccitazione lo aveva pigliato.

“ Ne hai fatte tante di domande, ma hai mancato quella più rilevante”.

“ E sarebbe?”.

“ Come hanno fatto a chiudere tutto un pezzo di città?”;

“ Esatto, sarebbe stata la prossima domanda”;

“ Hanno foderato, letteralmente foderato, con sacchetti della spazzatura le porte e gli accessi ai vicoli del centro storico. Sono diventati dei veri e propri muri, sopra i quali hanno innestato le loro bandiere a strisce azzurre, rosse, gialle e verdi. Hanno emesso un proclama, si sono dichiarati comitato civico di salvezza comunale. Vogliono trattare direttamente con Roma.”

La signorina Pina si alzò presto quella mattina, c’era il sole, e aveva davvero voglia di fare una passeggiata sul lungomare di via Caracciolo, prima però doveva passare al Cimitero, a Napoli chiamato la Città del Pianto, in sintonia con la tendenza napoletana alla drammatizzazione. Quando arrivò sulla residenziale non c’erano autobus in arrivo, ma questo dopotutto era normale. Le si avvicinò un signore di mezza età in automobile, accostò, e si sporse dal finestrino, già solo questo le indusse paura.

“ Signora, ma lei non sa niente?”;

“ Niente di che?” rispose la signorina Pina, sempre più allarmata;

“ Di quello che è successo a Napoli”;

“ No, non so niente, e che è successo?”

“ Stanotte hanno fatto la rivoluzione”;

“ Ma tenete voglia di pazzià?”, che in napoletano gioco e pazzia alle volte si confondono;

“ Proprio per niente signora, hanno chiuso tutto il centro storico, e hanno dichiarato un comitato di liberazione della città. Sapete, un po’ come nel dopoguerra.”;

“ E che guerra c’è stata?”;

“ ‘A guerra ra munnezz signò” disse quello riguadagnando la strada.

La signorina Pina rimase interdetta tra la voglia di andare a vedere con i suoi occhi, e la prudenza che le consigliava di tornare a casa. Ma era sempre stata curiosa, e quindi decise che sarebbe andata. E allora Fulvio si mise a correre, corse a perdifiato, e correndo si sentiva leggero e con la testa vuota, completamente vuota. Corse fino a che non arrivò davanti a quella fortificazione così strana, così assolutamente unica, unica come è questa città pensò, e davanti alla plastica che proseguiva la linea dei muri settecenteschi, davanti a tutti quei colori e quel fetore, si mise a piangere, di gioia e di entusiasmo.

Era inverosimile lo spettacolo che gli si parava dinanzi.

“Là dentro deve esserci Carmen”, pensò, e solo allora si ricordò che una volta quella ragazza gli aveva lasciato il numero di un telefonino.

E provò a chiamare, e lei rispose, sì era lì, e sembrava indaffarata e felice. Carmelina non si era mai sentita così in vita sua. Per la prima volta sentiva di poter prendere delle decisioni, di poter incidere nella realtà che aveva intorno, e questo la faceva sentire bene, molto meglio di quando il dottor Tolone le dava di nascosto la paga, quella al nero. Carmelina era nel coordinamento e aveva molte cosa da fare, andava avanti e indietro, e c’era sempre qualcuno a chiederle qualcosa. Con sua stessa meraviglia, lei sapeva rispondere, rispondeva in maniera naturale, come se quelle cose emergessero da dentro di lei, le sapeva senza essersene mai accorta, e questo per lei era una meraviglia, lei che a scuola aveva sempre sofferto e stentato le interrogazioni. Avevano deciso in assemblea, ed anche quello era stato semplice e naturale, come se le differenze delle posizioni di ognuno, sempre critiche e  polemiche, per un momento si fossero annullate, ed il pensiero fosse diventato comune, come un fiume che rompe gli argini ed invade la campagna. Era felice Carmelina, forse per la prima volta in vita sua, e adesso la chiamava anche Fulvio, Santa Patrizia!, che non l’aveva mai fatto fino ad allora.

“Carmen? Ma perché la bandiera ha quei colori?”

“Ma ci hai pensato che nella bandiera nazionale non c’è il nostro mare e nemmeno il nostro sole? E poi il verde, sono le nostre campagne, quelle che vogliamo salvare, e rosso…che t’ho dicco a ffa, il rosso è il sangue, la passione nostra, accussì forte.”

Sorrisero entrambi, dalla parte opposta del muro, sorrisero e si portarono, senza sapere dell’altro, il telefonino sul cuore, sospesi a guardare il cielo. Il cielo che si stava addensando di elicotteri.

(3 parte - fine)

Pubblicato in Dossier

Il Filo della Memoria:racconti, storie e testimonianze

Login

FIL - Il sentimento dei luoghi

L'Aquila emotion