fondazione Mida

Mercoledì 22 Febbraio 2012 16:13

Una discesa nell'Aus

Scritto da  Mariano Casciano
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Si possono leggere il terremoto e le sue conseguenze politiche e sociali nella comunità colpita ripercorrendo  le storie di lotte e sconfitte, ma soprattutto attraverso le testimonianze del singolo (ammì) che si racconta alla sua comunità ritrovata e ancora recisa in ngimma e mbier (centro storico e frazioni a valle). Il brano seguente è un intervento di  Mariano Casciano sulla “piazza virtuale” di Palomonte (Sa), un gruppo su facebook (Zompa chi pot), che riesce a raccontare il post-sisma meglio di inchieste giornalistiche o indagini sociologiche.


“Quel ragazzo studia giurisprudenza”, “un amico con una 127 blu cadaverica”.
Sò ammì.

Ho vissuto n’gimma Pal una felicissima infanzia ed estati meravigliose. Fino al 1980 quando il mondo si è scassato e non siamo stati più i palesi di prima. Ingenui, diffidenti, miti e crudeli, contadini. Questo eravamo noi. Un popolo che sbadiglia tra medioevo e modernità. Deformati in qualche settimana in esseri mostruosi che il terremoto generò mentre la civiltà contadina agonizzava.

Le rivalità tra fazioni, le scaramucce, la violenza di classe, la stessa dicotomia ngimma/mbier solidificarono un gelido, autistico inverno. Tutti per sé, Zamberletti per tutti. La lotta per la sopravvivenza divenne ferocia per l’accaparramento, la furbizia contadina scaltra avidità metropolitana. Più contributi, rimborsi, stivali, “buatte”, nelle case, nei fienili , nelle macchine, alla rinfusa, senza scopo.

Ingoiavamo tutto in un gorgo, un Maelstrom, che da noi ha un nome più stretto e cupo. Si chiama l’Aus. Terrore di noi piccoli, forse era una voragine o un antico pozzo scavato nel versante sud della collina di Palo. Ci finimmo tutti nell’Aus del terremoto. Forze potenti ne alimentavano i vortici: una legislazione criminogena che estese sempre di più i confini della nostra parossistica avidità, ambizioni politiche alimentate con l’erogazione senza fondo e senza fine di miliardi a casaccio, cifre spaventose nelle mani di persone, enti, comunità, abituate a spigolare tra magri bilance senza alcuna esperienza e coordinamento di gestione. Risultato: corruzione di animi, di culture, e alla fine, di luoghi. Strumenti urbanistici mai approvati, continuamente cambiati, amministratori di tutti i livelli sbronzati dai quattrini facili, e giù, opere mastodontiche, paradossali, mostruose. Una trattato di teratologia a cielo aperto. Approvato sostenuto, sopportato da un massiccio consenso della gente.

Questo tendiamo a rimuovere, vogliamo dimenticare. Fabbri del nostro destino, forgiammo la nostra rovina. 
Giovane e ingenuo, ero.

Litigai con i miei familiari per aver parlato, quasi da solo, contro questo scempio. Contro il ponte. Contro Manlio, amico, lo è ancora, della mia famiglia. Persi con quegli altri venti pazzi, tutte le battaglie che si potevano perdere. Sorse un altro Moloch di cemento, parallelo all’altro. Ammì m’ ricord. Nessuno disse niente. 
Si, ci scassarono il palco, ma mica solo quello. Ammì m ricord la vergognosa rimozione del bar di Nino Grisi, il sapore della colla dei manifesti che solo Peppino sapeva attaccare sui muri (noi eravamo buoni solo a riversarcela in faccia) la rabbia di Felicino Alfano alle quattro del mattino contro i vili che, mezz’ora, dopo ce li stappavano.

De Luca venne a fare un comizio in piazza. Minacciò fuoco e fiamme, dopo pochi giorni fummo sacrificati a un accordo PSI – PCI, anzi Conte- De Luca.

Il sindaco fu Presidente della Provincia. Noi fummo abbandonati. Quanti rivoli prendono le responsabilità. Come il bianco si confonde col nero. Piansi, mi arresi, chiusi la sezione. Sbagliammo. 
Certo il sindaco fu responsabile, alimentava il fuoco e teneva la barra, ma quanti remavano, come schiavi, come ossessi, senza motivo verso la rovina.

Per la doppia casa, per la strada, per un metro quadro in più, una speranza in più, un’illusione in più.
Ecco perché non sparo contro i capri espiatori e non me la prendo con quelli di noi che poi, per sopravvivere, per smarrimento, meno garantiti, meno avvertiti, hanno cambiato bandiera o mentalità. Dovevamo sopravvivere e siamo sopravvissuti. Quello che è seguito altro non è stato che il putrido cascame di queste premesse. Odio, caos, incomprensione autistica. Ciascuno ha pagato o sta pagando: noi di n’gimma lo straniamento di vivere in un centro storico che è “una piccola Battipaglia”, le frazioni un’immobilità comatosa. Il territorio, quello che di meglio avevamo da consegnare ai posteri, crocifisso dalle colate di cemento come un Cristo il Venerdì Santo. Per questo sono qua e scusate lo sfogo, magari poi continuo, rospi ce ne sono ancora tanti…

Mariano Casciano
Pubblicato in Campania - Basilicata

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