Erano i paesi della lentezza, del silenzio, della fatica, della beata ignoranza che fa diversi i giorni sempre uguali. Lavoravano e non partivano mai. I campi, la chiesa, la piazza, il bar. Stagioni, mesi e anni scanditi dalle domeniche, dal mercato, dalle feste, dalle processioni. Muscoli, tempra, e sudore sempre, negli inverni gelati come nelle miti estati. E, ogni sera, quasi all'ora della scossa, i più vecchi si addormentavano: cullati da trentacinquemila tonnellate di tritolo, perché venti chilometri sotto terra secoli di impercettibili movimenti della crosta terrestre avevano già innescato la micidiale bomba del terremoto. S
i alzavano all'alba e si coricavano poco dopo il tramonto, senza sapere, senza immaginare che alle 19,35 di domenica 23 novembre 1980, in una serata calda e con una strana luce sui crinali delle montagne, sarebbe scoppiato il finimondo. Le vecchie case, quelle nuove appena costruite da chi aveva messo su un po' di soldi e tornava con l'orgoglio di emigrante al paese. Tutto distrutto su quei crinali da presepe travolti dall'immane frustata della terra. Dopo la prima, terribile e assassina, decine di altre scosse danno il colpo di grazia, mentre tutto quello che unisce nella catastrofe 26mila chilometri quadrati, mezza Campania e mezza Basilicata è tragicamente in ritardo, dall'allarme ai soccorsi. Faceva caldo quella sera. Nei paesi come le città, molti erano a casa, davanti alla tivù, a vedere i gol di un campionato di calcio destinato a fermarsi per lutto nazionale. Pochi secondi e poi solo macerie. Paesi cancellati in una domenica passata al bar, in chiesa per la messa vespertina, al cinema, in casa a ripassare i compiti per l'interrogazione del lunedì, migliaia di storie comuni si intrecciano prima che il tritolo della terra si innescasse.
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