L’Ofantina era bloccata: frane, crepe sull’asfalto, colonne di soccorsi che si ingorgavano confuse senza una meta ancora definibile. Un caos di sovrapposti dispacci, frammenti di telefonate gracchianti, qualche eco di radioamatore che - via Lecce o Parigi - avvisava: «È un disastro, sono tutti morti, aiutateci». Ma dove? Avellino sì, e poi?
«Benvenuti a Sant’Angelo», recitava il cartello blu all’ingresso del paese. Sì, benvenuti nel nulla. Sant’Angelo non c’era più. Il corso vecchio, che si prolungava in via del Rione Nuovo, altro non era che un percorso di pietre, fanghiglia di fogna e resti di tetti e travi, costeggiato da due lunghi promontori di macerie. La mattina del 24 novembre, dopo mezzogiorno, non era arrivato ancora un soccorso. Padri, fratelli, madri, nonne lavoravano con le mani alla ricerca di chi stava vicino e all’improvviso era stato inghiottito dall’abisso. Una donna di cui in quel momento non seppero dire - o ricordare tra lacrime terrose - il nome, aveva chiesto aiuto per sedici ore: la tirarono fuori come uno straccio cianotico, morta asfissiata.
Arrivò il sottosegretario all’Interno, Angelo Sanza, lucano, per un sopralluogo. Era terrificato: «Ma è un disastro immane, una tragedia senza fine... Bisogna fare qualcosa...». A Roma, come ovunque, ancora non avevano capito l’immensità della catastrofe. Sant’Angelo, 5000 abitanti, in quelle ore cominciava a calcolare che i suoi morti erano un migliaio. Da una jeep scesero tre volontari con delle tende da montare ai margini delle rovine. Un uomo sulle pietre della casa chiamava inesausto: «Anna, Anna, Anna...». La moglie? La figlia? Non sappiamo se mai gli abbia risposto una pur flebile voce.
Allegati
Racconti e testimonianze da Il Mattino | |
Irpinia sito di raccolta materiale e testimonianze | |
Il terremoto e la prima fase dell’ emergenza di S. Ventura | |
Appunti di un volontario |