Stefano Ventura (1980) è nato in Svizzera, è cresciuto a Teora (Avellino) e vive a Siena. Si è laureato in Storia all’Università di Siena con una tesi dal titolo “Irpinia 1980-1992: storia e memoria del terremoto” (relatore il prof. G. Santomassimo) e ha conseguito il titolo di dottore di ricerca nel 2009 presso la scuola di dottorato in Scienze Storiche, Politiche, Giuridiche e Sociali dell’Università di Siena con progetto di ricerca su “L’Irpinia dopo il terremoto” (tutor: prof. Simone Neri Serneri).
Coordina con l’Osservatorio sul Doposisma della Fondazione MIDA (Musei Integrati dell’Ambiente) di Pertosa (Salerno), collabora con la Fondazione Officina Solidale Onlus e con altre fondazioni e enti di ricerca pubblici. E’ amministratore del sito ORENT (Osservatorio sui rischi e gli eventi naturali e tecnologici – Università di Siena). Ha svolto il ruolo di tutor per l’Agenzia Formativa Arci di Siena. Attualmente insegna Italiano e Storia nelle scuole superiori della provincia di Siena.
Ha partecipato a diversi convegni e seminari sui temi legati alle catastrofi naturali, alla Protezione Civile e alla memoria del terremoto del 1980. Tra questi si segnala il convegno internazionale “La memoria delle catastrofi” (Napoli, 25 e 26 novembre 2010, Università Federico II, Associazione Italiana Storia Orale), “Ambiente rischio sismico e prevenzione nella storia italiana” (Università di Siena, 2 dicembre 2010), “Sud, familismo amorale e crisi civile” (Fondazione MIdA, 9 ottobre 2010).
Cura una rubrica di storia locale sul trimestrale “Nuovo Millennio”, pubblicato a Teora (Av), ed è amministratore di un blog (teoraventura.ilcannocchiale.it).
Tra le sue pubblicazioni si segnalano:
- Oltre il rischio sismico. Valutare, comunicare e decidere oggi, Carocci, Roma, 2015 (con Fabio Carnelli);
- Non sembrava novembre quella sera. Il terremoto del 1980 tra storia e memoria, Mephite, 2010, prefazione di Antonello Caporale.
- Vogliamo viaggiare non emigrare. Le cooperative femminili dopo il terremoto del 1980, Edizioni di Officina Solidale, 2013, prefazione di Luisa Morgantini.
- Il terremoto dell’Irpinia. Storiografia e memoria, in Italia Contemporanea, n. 243, giugno 2006, pp. 251-269.
- Le macerie invisibili, Rapporto 2010, Osservatorio Permanente sul Doposisma, Fondazione MiDA, Pertosa (Salerno), novembre 2010.
- I terremoti italiani del secondo dopoguerra e la Protezione Civile,www.storiaefuturo.com, n. 22, marzo 2010.
- I ragazzi dell’Ufficio di Piano. La ricostruzione urbanistica dopo il terremoto in Irpinia, I frutti di Demetra. Bollettino di storia ambientale (n.22-2010).
- Prefazione a Benvenuto Benvenuti, Semiseria analisi lessicale di un disastro naturale, Montedit, Melegnano (Milano), 2009.
- Il lavoro in Irpinia negli anni del terremoto, in La storia della CGIL irpina dal 1948 ad oggi, a cura di Giovanni Marino, Avellino, 2010.
Informazioni di contatto: ventura80@libero.it
URL Sito: http://teoraventura.ilcannocchiale.it
Segnaliamo due appuntamenti che vedono coinvolta la Fondazione Mida e l'Osservatorio sul Doposisma.
Si inizia con la due giorni, dedicata al confronto sulle produzioni zootecniche e sulla sicurezza alimentare nelle catastrofi, organizzata da Regione Campania - Settore Veterinario, Provincia di Salerno, Istituto Zooprofilattico Sperimentale del Mezzogiorno, Fondazione MIdA e Ordine Medici Veterinari della Provincia di Salerno.
“L’incontro - spiega il presidente della Fondazione MIdA Francescantonio D’Orilia – sarà animato da esponenti del mondo della Sanità Pubblica Veterinaria provenienti da varie parti del Paese. Ci rende orgogliosi - continua D’Orilia - ospitare un dibattito scientifico qui a Pertosa, luogo scelto in più occasioni dal celebre prof. Mantovani come punto di riferimento nonchè centro di documentazione e formazione per le sue ricerche sulle emergenze non epidemiche . Siamo soddisfatti di poter continuare, anche con questo convegno, gli studi iniziati dal Prof. Mantovani, vivacizzando il dibattito regionale e nazionale sulle tematiche della disastrologia veterinaria”.
All’interno delle due giornate formative sarà affrontato anche il tema della continuità operativa delle strutture zootecniche e agro-alimentari durante una catastrofe. Esperti della Protezione Civile Nazionale, infatti, presenteranno al convegno due relazioni dal titolo: “La continuità operativa: modelli di riferimento, modalità di implementazione, casi di studio” e “La continuità produttiva/operativa nella nuova pianificazione di PC anche ai sensi della novella legge 100/12”.
L’evento si terrà presso il Museo MIdA 01 a Pertosa ed si svolgerà venerdì 14 e sabato 15 settembre e proseguirà il 29 ottobre a Portici presso l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale di Portici
In occasione, poi, del 13° Congresso Nazionale su “La gestione delle grandi emergenze – le strategie del cambiamento”, che si terrà a Messina – Palazzo della cultura dal 20 al 22 settembre, la Fondazione MIdA sarà presente per discutere del ruolo delle istituzioni di sanità pubblica e veterinaria nelle grandi emergenze, dal passato al futuro.
In particolare, nel corso della tre giorni organizzata dall’Associazione Italiana Medicina delle Catastrofi (AIMC), il dr. Raffaele Bove illustrerà lo studio condotto dalla Fondazione MIdA attraverso la mostra “30 anni di disastrologia veterinaria delle catastrofi”.
Per ulteriori info contattare la segreteria organizzativa – ufficio formazione IZSM tel. 081.7865218/309; fax. 081.7865254; email: Questo indirizzo e-mail è protetto dallo spam bot. Abilita Javascript per vederlo.
Marina Brancato è una giovane antropologa e docente a contratto del laboratorio di Giornalismo Internazionale; ha studiato di recente, per il suo progetto di ricerca per il dottorato di Scienze antropologiche, gli aspetti legati alla comunicazione e ai media in relazione al terremoto del 2009 a L’Aquila, con uno sguardo più ampio anche ad altri terremoti e catastrofi.
Di recente ha centrato i suoi interessi di ricerca sulla vicenda della Irisbus, un’azienda collegata al gruppo FIAT, con sede in Valle Ufita (provincia di Avellino). Questa azienda, la terza per dimensioni della provincia, ha mandato in Cassa integrazione i suoi circa 700 dipendenti e sulle sue sorti aleggia ancora l’incertezza assoluta.
In questo contributo Marina Brancato ci offre una breve riflessione che deriva dai colloqui con gli operai della Irisbus. La pubblichiamo qui come appendice e sviluppo del lavoro di ricerca e dibattito che il nostro Osservatorio ha promosso nel 2011 con “La fabbrica del terremoto” (scaricabile nella sezione Ricerche di questo sito).
Un territorio che negli ultimi mesi ha incontrato i paradossi della globalizzazione: valle Ufita, Irpinia. Con centoventi giorni di lotta gli operai Irisbus hanno scosso, dopo circa trent’anni, una coscienza locale indolente e congelata dall’assenza di una politica economica responsabile. Negli ultimi mesi hanno protestato davanti alla fabbrica giorno e notte, bloccato l’autostrada, organizzato cortei; ma il risultato rimane la cassa integrazione per quasi settecento dipendenti.
L’Irisbus, azienda europea che produce autobus e filobus, fino al 2000 era di proprietà italo-francese, controllata in modo paritetico da Fiat-Iveco e Renault Véhicules Industriels. Dal 2001 diventa invece controllata al cento per cento da Iveco, e quindi dal Gruppo Fiat Industrial. Il 7 luglio scorso Fiat ha annunciato la chiusura dello stabilimento di valle Ufita in Campania, dopo che la produzione di autobus è passata da settecentodiciassette veicoli nel 2006 a centoquarantacinque nel 2011. Fine corsa per l’ultima azienda in Italia a produrre autobus per trasporto pubblico turistico.
Domino si chiamava il fiore all’occhiello made in Irpinia. L’Irisbus, con la Fma di Pratola Serra e un altro paio di stabilimenti, assicurava lavoro all’ottanta per cento della popolazione locale. «Nessuno ci aveva avvisati, lo abbiamo letto sul giornale che rischiavamo il licenziamento, che era la fine» racconta Silvia, cinquantun’anni, protagonista e simbolo dell’ondablu. Apre il cappotto, mostrando la t-shirt da lavoro blu con la scritta Irisbus Iveco: «Io la porto sempre questa maglia. In ogni momento può servire a far capire cosa ci è successo… Perché è veramente un paradosso: uno stabilimento fa una ristrutturazione da otto milioni di euro nell’ultimo anno ti dà l’illusione che poi dovresti lavorare. Nel suo piano industriale Marchionne non ha mai accennato all’Irisbus. Nulla faceva presagire che il 7 luglio si voleva chiudere per poi cedere l’attività a De Risio, un imprenditore molisano rivelatosi un imbroglione che non paga gli stipendi…».
Settecento persone in fabbrica che con l’indotto arrivano a duemila, perché intorno allo stabilimento si è modellata la vita della popolazione. Ed è così che l’estate scorsa l’Irpinia conosce la prima vertenza globalizzata, un brusco cambio di stagione che si abbatte su una coscienza operaia che in questa provincia non ha precedenti. E che resisteva ancora quando, anche con i sigilli alle fabbriche, gli operai si legavano ai cancelli, nonostante intorno ci fosse «un vuoto, una assenza che non è solo politica ma della società; al capoluogo interessa poco di quello che accade nella zona industriale», dice Silvia.
«Siamo stati trattati come un bacino di voti per la destra e la sinistra. Senza capire che il nostro lavoro è parte della cultura di un territorio. I nostri valori sono gli stessi che abbiamo trasmesso ai nostri figli. Da domani invece? Senza contare che la maggior parte di noi ha tra i quaranta e i cinquant’anni, chi ci darà più un posto?», si domanda Giuseppe. Dal 1 gennaio 2012 gli operai sono in cassa integrazione straordinaria, «ma per avere il secondo anno di cassa integrazione l’azienda deve necessariamente ridurre i lavoratori di centonovantasette unità. Ventitre persone sono state trasferite tra Torino e Bolzano. Ma sono tutti dirigenti e impiegati. Nessun operaio è stato ricollocato. Le proposte di trasferimento sono poche e quelle che vengono offerte non sono economicamente vantaggiose. Tanto vale restare qui», spiega Dario, cinquantacinque anni.
Voci di chi ha creduto in una possibile trasformazione culturale oltre che economica: «La cassa integrazione è un limbo, affoga il mio senso di emancipazione» dice Italia, addetta al montaggio. Il problema secondo Silvia è anche «l’individualismo ha preso corpo nella classe operaia e si manifesta nella differenza tra lavoratori stabili e non. Perché gli ostacoli e il divario nascono prima dall’interno e poi dall’esterno». Donne che sentono l’assenza delle istituzioni e del sostegno politico, ma soprattutto la mancanza di una solidarietà tra le stesse compagne. Nostalgia per quell’anello forte così ben raccontato da Nuto Revelli. «Noi donne siamo solo il dieci per cento dei lavoratori, io nel mio stabilimento sono l’unica a non esser stata assunta come categoria protetta. Nessuna donna ha mai avuto potere decisionale, nessuna è mai stata responsabile sindacale o capo squadra…». Ma nonostante sia vero che «in fabbrica ti spremono, è un lavoro duro che ti usura», rivendicano anche il valore di quella fatica quotidiana: «il governo politico dovrebbe essere fatto di operai, o meglio di operaie: gente che sa come si lavora».
Le tute blu, in Irpinia e altrove, sono inghiottite da una crisi che è anche d’identità, e nessuno si occupa veramente di loro: né il sindacato né i politici. «Avremmo voluto sederci anche noi al tavolo delle trattative. I sindacati sono diventati troppo partitici, io faccio parte della Fiom ma non risparmio le critiche: anche Landini ha preferito fare demagogia piuttosto che confrontarsi con noi, come nel caso di Termini Imerese; Camusso ha fatto un comunicato stampa. Questo fa capire molte cose» spiega Italia. Quando alla rabbia subentra la rassegnazione, dopo il collasso economico si rischia lo stagno. Scenari che si auto-fabbricano tra l’inerzia di chi governa con superficialità il nostro territorio, l’indifferenza di chi non solo non parla con queste persone, ma nemmeno prova a dargli una alternativa.
Il terremoto dell'Emilia, dopo un mese e mezzo, è già scomparso dalle pagine dei giornali. Un pò di attenzione durante gli Europei di calcio, quando i bimbi facevano domande a Buffon e ai calciatori della Nazionale ancora sudati nel dopopartita, un concertone con annesse polemiche e poco altro. Proponiamo una riflessione molto interessante di Giovanni Iozzoli, operaio di origine irpina trapiantato a Carpi da anni; l'articolo è uscito su Alias (inserto del Manifesto) sabato 16 giugno 2012.
Chi l’avrebbe detto che un terremoto di pianura, si sarebbe trascinato dietro così tanti disastri – e così tante suggestioni? Dappertutto, qui a Nord – la Bassa è il posto dove non succede mai niente. I capannoni sono bunker, fortilizi incrollabili, eroicamente in lotta contro la caduta tendenziale del saggio di profitto. Le campagne sono piatte e squadrate, come disegnate da un gigantesco ortolano maniaco della precisione. Niente mosche, niente cani, niente gente a ciondolare per strada. Anche le zanzare sono operose e ordinate.
Vai tu a pensare che un terremoto, il simbolo per eccellenza dell’anarchia della natura, mi arrivava proprio qua.
Ho 45 anni e ne ho già visto qualcuno, di sismi. E’ che nel mio immaginario il terremoto era sempre stato una roba euroasiatica – appenninica o caucasica… Il terremoto lo associavo ai tufi polverizzati trafitti da travi di legno nero, e ai vecchi secchi e scuri, con le coperte in testa, e ai maiali e ai somari liberi tra le macerie, e ai paesini nascosti tra le sottane di montagne ispide.
Già il terremoto di Haiti mi aveva disorientato. Le casette color pastello, sfarinate sotto il cielo tropicale, mi rimandavano un segnale inedito: si muore di terremoto anche in quelle latitudini, al ritmo della macumba più che dell’Ave Maria?
Poi questa botta modenese mi ha aperto definitivamente gli occhi. Le nostre carte sismiche sono patetici esorcismi. Non sappiamo niente della mala bestia che scava chilometri sotto terra e ogni tanto scrolla il corpaccione. La terra non chiede permesso a nessuno: la crosta, le viscere infuocate, quello che c’e’ sotto, sopra, dentro, è tutto roba sua e fa come gli pare. Se le ingenue illusioni illuministe hanno residuato ancora qualche aspettativa, niente come un terremoto ci ricolloca nella realtà. Possiamo ( e dobbiamo) scrivere nelle Costituzioni il diritto alla Felicità, ma la terra – rocciosa, argillosa, sabbiosa -, la dura terra, è l’unico materialismo possibile.
Suggestioni, dicevo. Una montagna di suggestioni, tipo: la strage operaia.
Il terremoto – didattico, paziente – si preoccupa di riflettere la realtà così com’è. E’ un terremoto ordinatamente di classe, che fa crepare i proletari mentre sono attaccati ai loro torni e ai loro banchi di lavoro. Certo, una morte operaia come la classifichiamo? Moderna, premoderna o è già post? Vai a spiegarlo ai Khaled o ai Salvatore, che sulla loro condizione non avevano mai filosofato: per loro l’ordine naturale, il loro giusto posto, era il capannone; e quindi il terremoto segue le gerarchie della vita e della Storia – non produce ingiustizia. Muoiono gli operai ma parlano e si rappresentano magnificamente gli imprenditori: un esercito di imprenditori, che sfila davanti a tutte le tv, invade onnivoro la scena; sembra un regno magico di soli imprenditori; la didascalia ti dice che è un imprenditore anche il coltivatore diretto con 40 maiali e la masseria sfregiata dal sisma. “Imprenditore” diventa una chiave di lettura esistenziale, più che una qualifica professionale. Gli operai spariscono, al riparo delle tende multietniche, nel silenzio, nella irrapresentabilità, quasi nella vergogna della loro condizione.
Straordinario l’esercito del Bene, che mette in mostra i suoi reparti migliori. Centinaia di volontari addestrati, attrezzati, fosforescenti, che arrivano in poche ore. Ci dice molto sulla dedizione dell’animo umano. Ma anche sul molto tempo libero di cui gode una fetta di popolazione delle società mature; e lo squilibrio storico delle proporzioni tra lavoro e non lavoro nel centro del capitalismo, ci rimanda all’irredimibile crisi fiscale dello Stato ( perchè un terremoto, letto in controluce, è quasi sempre un trattato di economia politica – altro che la sismologia e la geo-fisica…)
Ora, io mi ricordo che trent’anni fa, giù da noi, in Irpinia, la Protezione Civile non ce l’avevamo. C’era l’esercito di leva, i soldatini adolescenti, con le divise grigio verdi strette strette, i fazzoletti sulla bocca e le pale scheggiate. Fu sulla pelle dei nostri tremila morti, che nacque il progetto della Protezione Civile. Certo, nessuno ci recintò, nessuno si assunse la gestione “bio-politica” della nostra condizione; e anche l’esercito dei volontari arrivò fluente e disorganizzato – fiumane di giovani che venivano da Polisportive e sezioni di partito, parrocchie e comitati di lotta; c’era anche l’ultima schiuma preziosa del 77 – quella che non era in galera e non era (ancora) rifluita. Chi sono, invece, questi volontari tecnologici, che in 48 ore sbarcano e attrezzano mega campi? Li guardo ammirato, ma anche un po’ preoccupato, come assistendo all’emersione periodica di un esercito clandestino.
Nei primi giorni dopo la scossa, le pagine dei quotidiani locali erano pieni di scandalo e indignazione: pakistani, marocchini, tunisini, africani di ogni dove, secondo i pennivendoli, stavano provocando problemi nei campi; e la carne di maiale, le continue richieste, la mancanza di collaborazione: come se mettere insieme migliaia di attendati, quasi tutti poveri, di 10 etnie diverse, potesse essere una passeggiatina senza intoppi.
Poi all’improvviso i problemi sono scomparsi dalle pagine. Era solo un modo per attizzare un po’ d’odio anche dentro l’emergenza – una specie di riflesso condizionato dei gazzettini locali. Gli immigrati, dal canto loro, sono incazzati e preoccupati; non tollerano l’idea di morire in un paese che sentono estraneo. Hanno più paura e meno rassegnazione degli autoctoni – continuano a riempire le tendopoli improvvisate sorte nei parchi, persino nel capoluogo intatto. Lavorano per mangiare e pagare affitti: non gli sembra razionale rischiare anche la pelle.
Del resto me la ricordo bene, la finta indignazione civile e pelosa dei cronisti dell’Italia civile. In Irpinia 30 anni fa i pakistani non ce li avevamo; ma certe cose le scrivevano anche su di noi: eravamo selvatici, poco collaborativi, piagnoni e arraffoni. E lo credo bene, l’unica lezione di educazione civica che avevamo ricevuto era: prepara la valigia e vai in Svizzera o in Germania o dove cazzo ti pare. Oppure mettiti in fila, nelle code multiple e varibili delle grandi clientele organizzate, ad arraffare le ultime fiammate del keinesismo all’italiana – gli scampoli malati della Prima Repubblica. Che tempi, ragazzi. C’erano abbastanza soldi per comprarci tutti (e l’operazione riuscì su larga scala). Quando si chiede: – ma di chi fu la colpa delle malversazioni in Irpinia? – non è facilissimo rispondere. Quando si cementa un blocco sociale in cui i miserabili stanno stretti stretti insieme ai costruttori autoctoni e alle grandi famiglie del Nord, tutti abbracciati al grande tronco della rendita immobiliare – di chi è precisamente la colpa storica di quel grande fallimento, che è stata la ricostruzione in Irpinia? Una volta avremmo detto: delle classi dirigenti. Ma sotto le pietre irpine morì anche l’ultimo residuo del Meridionalismo, di cui non si sentirà più parlare. E allora tutti assolti e tutti colpevoli. Non c’era tempo per Giustino Fortunato e Gramsci, mentre la tavola era apparecchiata, e siedevano insieme Gavianei, Dorotei, Morotei, Cutoliani, anticutoliani e Senzaniani. Si sparava di brutto, ma si trattava anche, intorno a una torta che sembrava infinita. Il Sangue e la Trattativa sono i due ingredienti che santificano ogni grande vicenda italiana: più sangue scorre, più si sta trattando.
In quei mesi convulsi a cavallo tra l’80 e l’81 c’era da puntellare mezzo sud Italia. Si fa presto oggi a maledire il Debito Pubblico: ma senza quel fiume di denaro il Mezzogiorno sarebbe sprofondato nella guerra civile; avremmo solo anticipato il Kossovo di una ventina d’anni (ma con una più precisa direzione criminale dei processi, perché Napoli non è Pristina…)
Com’è diverso lo scenario, oggi. Non ci sono più soldi, nisba, finish. Già all’Aquila fu chiaro. Non si corre più il rischio di essere comprati da qualcuno. Nessuna Grande Trattativa si profila all’orizzonte – anche la rimozione delle macerie sarà a carico del destinatario.
Cavezzo è a 20-25 minuti da casa mia. Prendi la strada del Canaletto, fai un po’ di curve, passi S.Prospero e arrivi subito in mezzo all’epicentro. Non c’ero mai andato a Cavezzo, lo riconosco. Del resto cosa ci va a fare uno, a Cavezzo? Nella Bassa o ci vivi, o ci lavori – non sono posti da farci gite. I campanili e i palazzi dei vecchi signorotti, i cippi partigiani, nessun folclore locale che ti rimandi a Peppone e don Camlllo: bruttezza dei luoghi e operosità vanno sempre a braccetto. Anche S.Felice, anche Mirandola sono località bruttine. Oggi Napolitano è andato in quei posti e l’hanno pure fischiato, un oltraggio al rinomato civismo della zona. E anche a sentire stà notizia, si riattizzano i ricordi e il gioco impietoso delle differenze. Anche il vecchio Pertini si prese maleparole e insulti quando arrivò tra le macerie irpine…Pianse e passò alla storia per la sua sfuriata a reti unificate, trasmessa anche dalla compassata BBC. A quell’epoca Napolitano era il cinquantenne capo dei nascenti miglioristi e lavorava nell’ombra per segare la sedia a Berlinguer. Per che cosa passerà alla storia, Napolitano? Per il pareggio di bilancio inserito in Costituzione?
Ecco, se vuoi capire la differenza tra terremoti, non devi guardare l’ago del sismografo (è più forte questo o quello?). Devi guardare il contorno, gli interpreti secondari, il coro. Il terremoto in Irpinia fu raccontato da Moravia, Sciascia e Geno Pampaloni; i grandi scrittori si mettevano in macchina e e raccontavano la tragedia dell’arretratezza meridionale, a un Italia colta, attenta e popolare.
Il terremoto dell’Aquila, invece, è stato raccontato da Vespa.
E quello modenese passa prevalentemente nei TG – mediato da inviati minori. Una narrazione povera, piatta, la stessa retorica sulla sobrietà emiliana e “la voglia di ripartire”, cucinata e riscaldata ogni giorno. La lenta parabola verso il basso di un paese è ben rappresentata dalla caratura dei “narratori” ufficiali che dovrebbero immortalarne i momenti cruciali. Nell’epoca dell’intellettuale massa, non ci sono più gli intellettuali. Solo un democraticissimo cicaleccio orizzontale di gente che twitta a tutto spiano. Ma la trasformazione antropologica di un territorio, non te la raccontano i social network o “Youreport”.
Cosa cambia, da queste parti, in definitiva (perché un sisma è sempre uno spartiacque solenne)?
Se eri attento alla forza delle cose, potevi accorgerti che il terremoto era già cominciato da tempo, almeno 4/5 anni fa. Il terremoto era la crisi, serpeggiante, insistente, che rosicchia i bordi del tessuto urbano e produttivo, e punta dritto al centro, alla sua coesione, alla sua ragione sociale. Già ampiamente terremotato era il meccanismo d’integrazione sociale che non integra più niente; era già scardinata la tenuta produttiva dei Distretti e della piccola-media manifattura, che prima aveva flirtato con la globalizzazione e oggi ne viene travolta; già pesantemente lesionata era l’etica del lavoro, l’unica cinquantennale religione che aveva permeato queste laicissime terre. Il Modello Emiliano se ne stava già andando, languido, lento, come un meccanismo sbeccato che non gira più. Le botte continue di questi giorni accelerano i processi e sottraggono residue sicurezze a gente già perplessa e disorientata.
Le scosse ci mettono davanti alla realtà nuova.
Non era zona sismica, questa.
Non era terra di disoccupazione.
Eppure la liquefazione della Padania – quegli inquietanti soffioni di mota sabbiosa, che irrompono nelle tavernette e nelle cantine, e sommergono dispense stracolme e pavimenti in cotto – proiettano un presagio oscuro sul futuro di tutti.
Si stava bene, nella Bassa. Non succedeva mai niente.
Giovanni Iozzoli
Alias, Il Manifesto, 16 giugno 2012
Il decreto n.59, in vigore dal 16 maggio scorso, cambia le regole di risarcimento in caso di calamità naturali e mette mano alle norme che regolano l'intervento in emergenza della Protezione Civile.
Giuseppe Ceglia, laureando in giornalismo economico, analizza per l'Osservatorio sul Doposisma il decreto e le possibili evoluzioni che derivano dalla sua entrata in vigore.
I danni provocati dalla spaventosa serie di eventi sismici che stanno interessando l’Emilia in questi giorni potrebbero essere gli ultimi che lo Stato dovrà risarcire ai cittadini. Questo perché il decreto legge n.59 relativo alla riforma della Protezione Civile – già pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 16 maggio e entrato in vigore il giorno successivo – contiene una norma che potrebbe cambiare radicalmente il modo di affrontare le calamità naturali. “Potrebbe” perché prima di diventare operativa, dovrà essere disciplinata da un regolamento che sarà emanato entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore del decreto legge La norma, specificamente all’art. 2 comma 2, prevede che in caso di calamità naturali (terremoti, alluvioni, frane etc.) lo Stato non debba più intervenire economicamente, neanche parzialmente, alla ricostruzione e riparazione dei fabbricati danneggiati.
2. Con regolamento emanato entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, ai sensi dell'articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri, di concerto con il Ministro dello sviluppo economico e il Ministro dell'economia e delle finanze,sentiti la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano e l'Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni private (ISVAP), che si esprimono entro trenta giorni, sono definiti modalita' e termini per l'attuazione del comma 1 senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, anche sulla base dei seguenti criteri:
a) estensione della copertura assicurativa del rischio calamita' naturali nelle polizze che garantiscono i fabbricati privati contro qualsiasi danno;
b) esclusione, anche parziale, dell'intervento statale per i danni subiti da fabbricati;
c) incentivazioni di natura fiscale, nel rispetto del principio dell'invarianza di gettito, tramite regimi agevolativi all'imposta sul premio di assicurazione ovvero la deducibilita', anche parziale, del premio dalla base imponibile ai fini IRPEF e IRES dell'assicurato;
d) previsione di un regime transitorio, anche a fini sperimentali ovvero di prima applicazione.
I cittadini che vorranno vedere ricostruita la propria abitazione o la propria industria dovranno perciò fare da sé, stipulando preventivamente una polizza assicurativa (con detrazioni fiscali), come esplicitato nel primo comma dell’art.2
1. Al fine di consentire l'avvio di un regime assicurativo per la copertura dei rischi derivanti da calamita' naturali sui fabbricati, a qualunque uso destinati, ed al fine di garantire adeguati, tempestivi ed uniformi livelli di soddisfacimento delle esigenze di riparazione e ricostruzione di beni immobili privati destinati ad uso abitativo, danneggiati o distrutti da calamita' naturali, possono essere estese ai rischi derivanti da calamita' naturali le polizze assicurative contro qualsiasi tipo di danno a fabbricati di proprieta' di privati.
Non è chiaro ancora se l’assicurazione dovrà essere di tipo volontario o obbligatorio. Nel primo caso, quello a cui si riferisce la legge, si creerebbero disparità tra chi abita in zone ad alto rischio sismico/idrogeologico e chi no, senza contare le ingenti cifre che richiederebbero le compagnie assicurative agli abitanti dei luoghi a rischio elevato. Nel secondo caso, quello meno improbabile, tutti i cittadini pagherebbero una cifra intorno al centinaio di euro.
Oltre a queste disposizioni, il decreto contiene anche un importante comma (art .1 comma1, lettera c, numero 2) che riduce la durata dello stato d’emergenza a 60 giorni, prorogabili in altri 40.
2) dopo il comma 1 e' inserito il seguente: "1-bis. La durata della dichiarazione dello stato di emergenza non puo', di regola, superare i sessanta giorni. Uno stato di emergenza gia' dichiarato, previa ulteriore deliberazione del Consiglio dei Ministri, puo' essere prorogato ovvero rinnovato, di regola, per non piu' di quaranta giorni."
Questo significa che lo Stato si accollerà le spese per un massimo di cento giorni, dicendo definitivamente addio alle emergenze pluriennali del passato.
È evidente che il motivo per cui si è legiferato su un argomento così delicato è la scarsità di fondi nelle casse del Tesoro, ma è altrettanto evidente che dopo gli ultimi eventi sismici sarà davvero difficile far passare queste disposizioni così come pubblicate in Gazzetta Ufficiale. Soprattutto perché il regime transitorio a cui sarà sottoposta la norma potrebbe non renderla immediatamente operativa e allungarne parecchio i tempi di entrata in vigore.
Anche in futuro, perciò, è probabile che in caso di calamità il mezzo privilegiato per affrontare sia l’emergenza che la ricostruzione sarà l’aumento delle accise sui carburanti, che le Regioni ora possono alzare ulteriormente (sebbene sia caduto l’obbligo) a un massimo di 5 centesimi al litro:
9) il comma 5-quater e' sostituito dal seguente:"5-quater. A seguito della dichiarazione dello stato di emergenza, la Regione puo' elevare la misura dell'imposta regionale di cui all'articolo 17, comma 1, del decreto legislativo 21 dicembre 1990, n. 398, fino a un massimo di cinque centesimi per litro, ulteriori rispetto alla misura massima consentita."
Il caso emiliano, con l’istituzione di un’accisa di 2 centesimi per affrontare l’emergenza sismica, sembra apparentemente confermare questa ipotesi.
Il testo integrale del DL 15 maggio 2012, n.59
L'atto della Camera con la Relazione
Articolo di approfondimento de Il Sole 24 ORE sull’argomento
Giuseppe Ceglia (1987) è nato e cresciuto ad Avellino. Nel 2005 si è trasferito a Siena dove si è laureato in Scienze della Comunicazione. Dopo la laurea triennale si è trasferito a Roma per specializzarsi in giornalismo alla Sapienza Università di Roma. È laureando in giornalismo economico con una tesi dal titolo “IRPINIA ANNO ZERO: Come il terremoto del 1980 ha cambiato l’economia del territorio negli ultimi trent’anni” (relatore: prof. Stefano Lepri). Ha scritto per il Corriere di Siena e Termometro Politico. Attualmente collabora con il magazine webYouTrend.
Le due scosse del 20 maggio e del 29 maggio, con epicentro nella zona tra le province di Bologna, Modena e Ferrara, hanno causato 23 morti (7 nella prima scossa alle 4 e 03 del 20 maggio, 16 nella scossa delle 9 del 29 maggio); i senzatetto sono circa 14mila, i feriti circa 350.
A caratterizzare fatalmente le morti per sisma, questa volta, è il crollo dei capannoni e la morte degli operai, alcuni dei quali extracomunitari da tempo in Italia. Grossi e significativi danni al patrimonio storico artistico diffuso del territorio colpito, più limitati i danni alle abitazioni private.
La quantità di approfondimenti, informazioni e canali di comunicazione è tale da poter aggiungere poco; si replica il triste scenario di ogni tragedia e emergenza, come a novembre con le alluvioni in Garfagnana, Lunigiana e a Genova, come la nevicata di febbraio 2012. Siamo molto capaci e efficaci nel portare soccorso, non abbiamo le stesse capacità o volontà di investire risorse e energie nella prevenzione, sia nei suoi aspetti materiali e strutturali, sia in quella culturale e didattica. E perdiamo la memoria dei fatti e degli insegnamenti del passato troppo rapidamente.
Di seguito alcuni links ad articoli sul terremoto.
Gian Antonio Stella, Le fatalità prevedibili
La memoria aiuta a prevenire i terremoti (intervista a Romano Camassi)
Il mio terremoto....Dietro la lavagna
Sergio Rizzo, Il nostro territorio ferito
Michele Serra, I contadini e gli operai della mia terra ferita
Gerarda Nesta ha da poco conseguito la laurea per educatori professionali extrascolastici. Ha discusso una tesi di laurea su "Caposele tra sisma e ricostruzione", affrontando attraverso le testimonianze orali un viaggio nei giudizi e nella memoria dei suoi compaesani.
Riportiamo con piacere una piccola sintesi dei suoi studi.
CAPOSELE TRA SISMA E RICOSTRUZIONE
Gerarda Nesta
Il lavoro di ricerca è stato svolto sulla ricostruzione di Caposele, comune irpino notevolmente danneggiato dal sisma del 1980. Per ripercorrere la storia di questo paese tra il sisma e la ricostruzione ci si è avvalsi del racconto orale volto a recuperare dati che altrimenti rimarrebbero privi di narrazione e una gamma di sentimenti che il testo scritto non è in grado di restituire.
La scelta dei soggetti e del contesto in cui effettuare le interviste (Caposele e i rappresentanti della comunità) rappresenta quindi il tentativo di raccontare la vicenda del terremoto attraverso strumenti inediti: il punto di vista, l’esperienza e le parole di chi la rinascita e la ricostruzione le conosce bene perché le affronta nella propria quotidianità.
Caposele prima del sisma, conservava le caratteristiche tipiche di paese medioevale mentre oggi è quasi del tutto trasformato, avendo assunto l’aspetto di paesino interno di collina con manifesti i segni del progresso e della civiltà come la frazione di Materdomini sede del Santuario di San Gerardo Maiella, che vanta una storia di quasi 600 anni e dove sono custodite le ossa del santo, protettore delle mamme e dei bambini.
Il Comune irpino che contava 4.077 abitanti nel 1980, è stato dichiarato “disastrato” dal D.L. del 13/2/81 n. 19 per i danni riportati a causa del sisma del novembre 1980. Il Ministero del Bilancio e della Programmazione Economica valutò infatti in quell’occasione, una percentuale di danni pari all’80%. In quei giorni tutti vollero portare aiuto, comprese la stampa e l’opinione pubblica, a quasi un anno dal terremoto però, molta della presenza nazionale (politica e non) aveva abbandonato il campo: il terremoto diventava una faccenda solo ed esclusivamente dei paesi colpiti e la seguente citazione di un cittadino di Caposele tratta da un giornale locale, indica chiaramente le preoccupazioni di quei giorni:
«Il gemellaggio con un comune come Milano, aveva riempito di gioia e di speranza il cuore dei Caposelesi, dando loro l’illusione che l’industria, la tecnica, l’organizzazione e la forza di una grande città, avrebbe dato sollievo, ordine e forza ad un piccolo paese come Caposele. A distanza di un anno invece, serpeggiava profonda amarezza e delusione in quanto il paese, semidistrutto dal terremoto, non aveva compiuto un solo passo avanti, regnava infatti il caos più profondo con sperpero di danaro pubblico, dilagava l’assistenzialismo e il clientelismo. Non uno studio sull’assetto del territorio, non un piano di ricostruzione, non un tentativo di riconnessione del tessuto sociale ed urbano, non un tentativo di recupero di edifici pubblici e religiosi, non un accertamento serio e responsabile del danno reale al patrimonio edilizio. Una sola consolazione, quella del prefabbricato.
In tale situazione gli interventi del comune di Milano apparirono alquanto discutibili per non dire anacronistici ed in netto contrasto con le distruzioni, le demolizioni, i lutti, la miseria ed il buonsenso. Esso offrì infatti una piscina olimpionica da un miliardo quando ancora non si riusciva a riattare le case riparabili per mancanza di fondi. Un intervento del comune sul vecchio centro storico, sugli edifici pubblici, su un vecchio quartiere, sarebbe stato più comprensibile e più rispondente alle reali esigenze dei caposelesi. La ricostruzione di un pezzo di città, sia esso un singolo edificio o un aggregato di essi, avrebbe rappresentato infatti la riconquista del “luogo” da parte dei cittadini, la riappropriazione di quegli spazi collettivi in cui essi si sono sempre identificati e verso i quali si sono sempre proiettati, adesso invece l’alternativa era la chiusura nella frustrazione dei ghetti prefabbricati o di insediamenti pseudo-turistici. Un intervento in tal senso poteva pilotare l’intera operazione di recupero e rappresentare un segno concreto di ricostruzione. I caposelesi allora avevano bisogno di una casa e non di piscine o villaggi per ipotetici turisti del futuro, “visitatori” delle loro macerie.»
Nel 1982, con l’ultimo caposelese che riceve il prefabbricato, la fase dell’emergenza vera si concluse. Seguì la così detta “partita della ricostruzione”, alquanto complicata dal momento che Caposele è un comune notevolmente colpito dal sisma, che non possedeva strumenti urbanistici, in zona franosa e con l’ acquedotto a ridosso.
A questo si aggiunse l’attrito tra maggioranza e opposizione e la forte sensazione di sconfitta della popolazione, dovuta al fatto che si stava ampliando al massimo la zona del cratere, più per decreto che per danno vero e che di ricostruzione vera e propria si vedeva ben poco.
In quel periodo l’amministrazione propose uno strumento urbanistico che prevedeva il recupero del centro urbano e la realizzazione di tre piani di zona con conseguente delocalizzazione delle abitazioni che per motivi urbanistici o di sicurezza non potevano essere ricostruite sul precedente sito. L’impostazione che si intendeva dare al progetto di ricostruzione prevedeva di seguire i punti cardine del vecchio impianto urbanistico tentando allo stesso tempo di rendere il paese più vivibile delocalizzando circa 700 persone nei piani di zona.
Furono individuati dei punti nevralgici che opportunamente modificati, avrebbero consentito un miglioramento dello stile di vita ad esempio ampliando la piazza antistante la Chiesa Madre oppure costruendo dei portici lungo il corso principale del paese. La minoranza che appoggiava un’idea della ricostruzione detta del “là dov’era e così com’era”, si oppose duramente a tale idee di rinnovamento accusando la maggioranza di voler svuotare il paese e vi fu uno scompiglio tale da generare un importante sgretolamento nell’amministrazione che condusse al commissariamento del comune. Venne quindi approvato e consegnato un nuovo piano di recupero, via intermedia tra le due precedenti e contrastanti proposte.
Nel 1984, vigilia delle elezioni comunali, furono approvati i decreti sui vincoli della Sovrintendenza, richiesti da cittadini che non accettavano il fatto che la propria abitazione, specie se con una certa importanza storica, dovesse essere demolita. Il piano di ricostruzione prevedeva infatti demolizioni funzionali a una nuova idea di paese mentre per l’opposizione ciò accadeva spesso senza tener conto di elementi storici ed architettonici di un certo valore; i cittadini dunque si rivolsero alla Sovrintendenza che riconobbe i vincoli classificandoli in diretti ed indiretti. I primi relativi ad abitazioni ancora in piedi, gli altri ad edifici crollati. Questo fece scatenare un ulteriore conflitto nel comune tanto che la campagna elettorale del 1985 ruotò integralmente su tale faccenda.
Nel 1985 a Caposele era da poco partita la ricostruzione rurale ed urbana mentre a Materdomini era iniziato solo qualche intervento di riparazione: ciò indispettì alquanto i cittadini, anche perché i comuni vicini avevano cominciato i lavori già da tempo mentre Caposele fu uno degli ultimi ad avviarsi alla ricostruzione. Nel 1986 in seguito all’approvazione del piano di zona, esplose la ricostruzione che interessò fin da subito e con particolare immediatezza la frazione Materdomini, questione che non comparve all’ordine del giorno di alcuna riunione in quanto l’amministrazione precedente si era guardata bene dal proporre comparti nuovi lì dove ogni metro è prezioso per l’economia legata al turismo per cui non era pensabile proporre la demolizione delle preesistenze (spazi riservati alle attività commerciali private) per la costruzione di palazzine. In quello stesso periodo si verificò un incremento dell’occupazione in una logica di incoraggiamento dell’economia locale. Gli anni cruciali della ricostruzione furono quindi quelli compresi tra il 1986 e il 1989, anni in cui era in vigore la legge n. 219 fondata sul meccanismo della cantierabilità.
Dalle testimonianze raccolte sono evidenti divergenti valutazioni, espresse in base a diverse esperienze e sensibilità, in particolare riguardo le scelte della ricostruzione di tipo conservativa e i nuovi insediamenti abitativi sorti dopo il 1980.
Molti giudicando la qualità della ricostruzione, arrivano a conclusioni spesso sconfortanti che tuttavia paragonate ad altre realtà vicine, risultano meno devastanti. La scelta di non aver puntato sulla nascita di aree industriali rimaste spesso “cattedrali nel deserto” è ad esempio, un elemento che emerge in diverse analisi raccolte, oltre alla diffusa idea che l’improvviso scenario economico, modificatosi grazie ai fondi della ricostruzione, abbia finito per incattivire i rapporti tra le persone. Oggi, a distanza di più di trenta anni dal sisma del 1980, sia da parte di chi fin dal primo momento ha pensato ad un ammodernamento del paese, sia di chi sosteneva il recupero della memoria storica come poi è avvenuto, emerge un dato univoco: insoddisfazione per i risultati ottenuti.
Chi appoggiava un’idea di rinnovamento, oggi sostiene che la ricostruzione dal punto di vista qualitativo non sia delle migliori e che quando si ha la sfortuna di vivere una tragedia come il terremoto, si debba cercare di recuperare il passato coniugandolo al progresso della zona, mentre a parere di molti è stata privilegiata in maniera esasperata la ricostruzione del passato a discapito della ricerca di soluzioni di sviluppo per il futuro.
A questa analisi del comune di Caposele va aggiunto un ultimo dato: in seguito al sisma e alle vicende dei soccorsi qualcosa di molto diverso dell’annebbiamento delle coscienze dovute alla corsa all’accaparramento è accaduto in alcune persone. Il secondo giorno successivo al terremoto, iniziarono ad arrivare a Caposele i primi volontari. Non pochi quelli che ricordano che in quell’occasione si creò una integrazione tale tra settentrione e meridione d’Italia che stentano a credere possa ripetersi nella storia. I volontari a Caposele, portarono significativi contributi: raggiunsero le famiglie nelle campagne periferiche, crearono associazioni giovanili e momenti di animazione strutturate per bambini e anziani, fondarono comitati istruendo la popolazione sui propri diritti oltre a dare voce ai dimenticati dinanzi all’amministrazione comunale. Tutto ciò fece scattare nei caposelesi la voglia di imparare come organizzarsi per non dover perennemente ricorrere all’esterno in caso di necessità.
Alcuni cittadini infatti affiancarono i volontari accorgendosi che si trattava di persone comuni che non possedevano particolari preparazioni o qualifiche e questo incoraggiò non poco l’idea di creare simili associazioni anche qui. La vicinanza di persone nuove, fornite di un bagaglio esperenziale diverso, contaminò positivamente il paese che avvertì finalmente il bisogno di reagire dopo periodi di totale apatia e assistenzialismo esasperato fino a fondare alcuni anni dopo, un’associazione di volontariato, ancora oggi fonte di risorse e servizi per la popolazione locale.
Sono state inoltre raccolte informazioni relative al tessuto sociale del comune di Caposele oltre che al danneggiamento e ricostruzione urbanistici, ed è opinione diffusa che il sisma abbia provocato totale disorientamento e vi siano stati giorni di completo e generale intontimento. Molti riconoscono che vi sia stata una prima fase, durata molto poco, forse qualche settimana, in cui di fronte alla calamità e al lutto emerse la parte più solidale di ognuno. Tale fenomeno si affievolì di lì a poco, qualcuno sostiene che ciò accadde in corrispondenza dell’arrivo degli aiuti materiali prima e delle roulotte poi., che diedero inizio alla corsa all’accaparramento.
Altri hanno osservato come l’evento stesso del terremoto abbia chiuso le persone in se stesse perché preoccupate a garantire una sistemazione dignitosa alla propria famiglia col passaggio in secondo piano della parte altruistica di ogni abitante. Molti credono che su questo si sarebbe innestato l’aspetto più spiacevole del carattere umano che ancora oggi prevale, ossia quello legato al “malefico dio denaro” considerato pericoloso qualora non gli si riconosca il giusto e moderato valore.
Alla luce dei dati emersi si nota che l’esperienza della ricostruzione a Caposele rappresenti un’occasione mancata per trarre il meglio da un evento tanto triste e luttuoso come può essere un terremoto. Un appuntamento non rispettato con una opportunità di crescita che ha finito invece per provocare invidie, dissapori e allontanamenti dalla propria comunità e dal proprio territorio.
Sic stantibus rebus, trenta anni sembrano ancora insufficienti per un bilancio di quanto e come il terremoto abbia influito anche sulla dimensione sociale dei paesi colpiti, dal momento che è ancora nell’aria nei ricordi che come folate di vento, riportano di tanto in tanto il sapore acre della polvere di quella triste domenica sera di novembre.
Proponiamo qui un'intervista al ministro per la Coesione Territoriale, Fabrizio Barca, curata da Antonello Caporale e pubblicata oggi su Repubblica - Affari e Finanza.
Barca sarà tra gli ospiti della tavola rotonda sul Sud che l'Osservatorio sul Doposisma e la fondazione MIDA hanno organizzato per il prossimo 15 aprile a Pertosa, in occasione del workshop finale del concorso di idee "Co/Auletta. Le tue idee abitano qui".
BARCA: "NEL SUD 3,5 MILIARDI DI INVESTIMENTI ENTRO L'ANNO"
Il ministro della coesione territoriale sui ritardi del mezzogiorno: "Per ignavia è stato speso appena il 20% dei 40 miliardi dei fondi comunitari dei fondi per le regioni meridionali stanziati per il periodo 2007 - 2013".
Nel suo programma la priorità a scuole e ferrovie.
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"Destabilizzare il Sud, il suo endemico equilibrio tra clientela e rendita parassitaria, liberare energie intellettuali e imprenditoriali con un conflitto di idee anche duro ma vivo, partecipe. Non un rito, il solito che si conosce. E non un euro se non ci sono idee ma solo palmi di mano che si tendono nel segno dell'elemosina"
Il sud dell'Italia ha bisogno di essere shakerato dice Fabrizio Barca a cui Mario Monti ha affidato un tema di faticosa illustrazione: la coesione territoriale. Il mondo cambia veloce e il ministro, talentuoso figlio della pubblica amministrazione, si ritrova seduto nella stanza nella quale, con ben altri propositi, ha sostato anche Umberto Bossi.
Ministro, intanto il premier l'ha mandata a L'Aquila a tentare di dare una speranza a quella città e una logica ai soldi da spendere. L'Aquila è a sud o è a nord?
"Direi sud, il territorio non marittimo dell'Abruzzo è afflitto dalla secolare convinzione che lo Stato abbia due facce: quella centrale, romana, come entità di pura erogazione d'aiuti, un benefattore cieco e assente dal tuo destino, e quella locale, divoratrice di risorse, da cui bisogna diffidare (dopo essersela fatta amica naturalmente), sempre e comunque"
L'Aquila ha fatto i conti prima con il terremoto e poi con i tremori dei suoi dirigenti: molte parole e poche idee, molte proteste e poca energia
"Bisogna sbrogliare la matassa legislativa, alleggerire la somma di norme e cavilli che bloccano la ricostruzione e soprattutto intaccare il monopolio dei professionisti locali. Se si liberano energie positive si libera L'Aquila dalla sua afflizione e si inizia finalmente a prendere la cazzuola in mano"
Trova il modo di spiegare agli amministratori meridionali che i soldi a volte affamano?
"Senza una strategia culturale prima che politica ed economica gli investimenti non producono benessere, alimentano i soliti canali. I fondi Mezzogiorno 2007 - 2013 ammontavano a circa 40 miliardi di euro"
Spesi?
"E qui viene il dispiacere: siamo al 20 per cento delle risorse disponibili"
Ma com'è possibile, si è fatto un'idea delle ragioni di questa ignavia primordiale?
"La mia idea è che non basta stanziare soldi, bisogna essere vicini ai destinatari di quei fondi. Invece Roma e Bruxelles hanno firmato l'assegno e girato le spalle, impegnati in faccende più serie e fatto intendere che quei finanziamenti forse sarebbero stati revocati, deviati, rimodulati. Il pensiero che insomma non era tutto oro che luccicasse ha mietuto vittime e ucciso la speranza. A questo aggiunga che la leadership politica meridionale è ancora sotto di una modestia significativa"
Lei ha meno di un anno per far vedere cosa sa fare. In un anno cosa riuscirà a spendere e come?
"Tre miliardi e mezzo di euro. Non sono molti, ma abbastanza per segnare l'inversione"
Il primo miliardo lo dà alla scuola
"Ecco, si fermi un attimo: il primo miliardo va alla scuola perché il mondo della scuola ha promosso una rete di intelligenze, di dirigenti capaci che sono pronti, hanno una visione, conoscono la necessità e i destini delle risorse. Per questo dico che senza le idee i soldi non servono"
Le idee sulla scuola
"Formazione, qualità dell'insegnamento, nuova proposizione del sapere, dignità dell'habitat. Ho bisogno che i diciassettenni e i diciottenni di Enna e di Bitonto, di Matera e di Reggio Calabria godano di un pacchetto supplementare di istruzione. Gli facciamo imparare bene l'inglese, li facciamo viaggiare. Gli diamo supporto e allungamento dell'orario scolastico, gli insegniamo meglio e più a lungo greco e latino. Gli coloriamo la scuola, la facciamo divenire più bella, confortevole, gradevole. Non solo le aule digitali ma il complesso dei muri deve divenire decente, deve mandare un messaggio di speranza e di ripresa"
Quando inzia a spendere il miliardo?
"Circa un terzo se ne va via quest'anno, due terzi l'anno prossimo. Sono 500 scuole. Sono tante ma ce la faremo"
Faccia anche le ferrovie per mandare i ragazzi a scuola
"Un miliardo e mezzo liberato. A sud di Salerno, fino a Reggio, ad est fino a Bari. Poi la dorsale jonica. Questi sono impegni di spesa (il totale fa sette miliardi) decisi, validati, possibili"
Che siano impegni decisi non c'è alcun dubbio. Il problema è quando li vedremo convertiti in buone azioni
"In dieci anni vedrà tutte le ferrovie realizzate. Ma da subito saprà quale tratto relizziamo entro il 2012, quale nel 2013. Quale opera si concluderà domani, quale altra dopodomani"
Bisogna essere ottimisti, ma non c'è ragione sufficiente
"All'interno del rumore antico delle compensazioni solite, dei soliti crediti d'imposta, dell'identica forma di raccolta delle risorse, c'è un nucleo imprenditoriale, umano e culturale che parla una lingua nuova e diversa. A Napoli mi chiedono di rompere i monopoli, a Barletta gli industriali hanno visioni chiare e avanzano richieste possibili. Noi dobbiamo fare in modo che il bene collettivo, il bene comune abbia un senso comune, sia sulla bocca di tutti"
C'è bisogno di shakerarlo un po' questo Sud
"Agitarlo un pochino come quei drink. Fargli cambiare idea, imporgli un passo diverso. Ma c'è Sud e Sud. C'è la Lucania che va forte e la Calabria che patisce. Ci sono zone del ragusano dove l'assistenza per la terza età è a livelli formidabili e il campo della tutela dell'infanzia e della vecchiaia, i due poli della vita, è arato. E poi la nuova formazione: ci sono 500 milioni di euro. Altri soldi che spenderemo presto"
Presto, e possibilmente bene
"Bisogna giungere a modelli efficienti di comunicazione e controllo popolare. Con una parola grossa: democrazia partecipata"
Il Sud si può redimere?
"A Sud dell'Italia vive un terzo della popolazione ma si produce un quarto del Pil nazionale e un decimo dei beni esportati. Significa che questa recessione peserà ancora e di più sulle spalle già fragili di questa parte del Paese. Non c'è altra possibilità che cambiare assetto di marcia e modo di pensare"
Dammi un'dea e io ti do i soldi
"I soldi vengono alla fine. Dimmi cosa ne vuoi fare e in quanto tempo li vuoi spendere. Raccontami della tua filiera produttiva, e ce ne sono alcune di vera eccellenza, e convincimi che il tuo proposito è dentro la logica del bene comune"
Familismo amorale, scriveva Banfield
"Se riusciamo a innestare un conflitto positivo, ampliare la base dell'elaborazione progettuale, dare schemi e offrire realtà che possano essere emulate, romperemo i tanti monopoli locali, i feudi che si elevano grazie al malgoverno. C'è bisogno di mobilità del pensiero, di dare potere alla conoscenza e gambe ai talenti del Sud".
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Da: la Repubblica - Affari e Finanza, 26 marzo 2012 pag 3
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Adriano Mantovani, un ricordo
di Marco Leonardi e Raffaele Bove
Nella notte tra il 5 e il 6 marzo 2012 è mancato Adriano Mantovani.
L’espressione “mancato” in questo caso non è un eufemismo per lenire la durezza della notizia della morte di una persona.
Si tratta invece della rappresentazione di un vuoto che non sarà facile colmare, dal punto di vista scientifico, politico e umano.
In Mantovani queste tre dimensioni non sono mai state separabili, e hanno plasmato una personalità forte, con la quale ci si poteva anche scontrare, ma che non era possibile ignorare.
Una personalità così forte che è stata capace di fare scelte ben al di fuori degli schemi della sua biografia.
Contadino emiliano, cresciuto tra le “condotte”, ha intuito che il futuro della sanità pubblica veterinaria era nelle grandi aree urbane.
Bolognese orgoglioso di parlare il dialetto come “prima lingua”, più di ogni altro ha portato la veterinaria italiana nel mondo, e il mondo nella veterinaria italiana.
Veterinario fiero della sua professione, ha affermato la medicina unica e la formazione interprofessionale non come momento occasionale, ma come regola per la crescita degli operatori di sanità pubblica.
Infettivologo e parassitologo di livello mondiale, ha dato vita alla medicina veterinaria delle emergenze non epidemiche.
Partigiano e militante comunista, padre della riforma sanitaria del 1978, ha collaborato con i più diversi esponenti politici e alti funzionari, avendo come unico punto di rotta la coerenza e il rispetto delle proprie idee.
Grande “tecnico”, coltivava la storia e le scienze umane, non come accessorio della propria cultura, ma come strumento per capire anche la materia veterinaria.
Frequentava ministri e premi Nobel, ma ne parlava con la stessa semplicità e ironia che usava quando raccontava dei suoi gatti e delle sue tartarughe.
L’eredità scientifica e spirituale di Mantovani dovrebbe essere oggetto di un libro a ciò dedicato.
Ci sia permesso solo ricordare il grande impulso alla cultura e all’organizzazione della protezione civile nel nostro Paese.
Inviato in Irpinia dal Ministero della Sanità dopo il sisma del 23 novembre 1980, Mantovani ha individuato un nuovo orizzonte della sanità pubblica veterinaria. Dopo quell’esperienza, soprattutto attraverso l’attività del Centro di Collaborazione OMS/FAO per la Sanità Pubblica Veterinaria, ha dato impulso alla produzione di linee guida e corsi di formazione sulle emergenze non epidemiche, in ambito italiano e internazionale, in particolare con i Paesi dell’area del Mediterraneo. E’ stato membro della Commissione per la previsione e la prevenzione dei grandi rischi dal 1992 al 2001.
I frutti dell’attività di Mantovani si possono apprezzare in tutta Italia, e anche fuori dall’Italia. Ma la terra devastata dal terremoto del 1980 ha mantenuto con “il Professore” un rapporto speciale. Grazie all’attività dei colleghi campani e al contributo della Fondazione Mida, è stato fatto un importante lavoro di raccolta della documentazione sulle emergenze non epidemiche sviluppata dopo il 1980. In questo ambito, è stata costruita la mostra di poster “Trent’anni di medicina veterinaria delle catastrofi”, che nel 2011 ha percorso oltre 5000 chilometri in tutta Italia (più una trasferta a Cuba).
Questo affetto era ricambiato, e l’ultima apparizione pubblica del Professore (purtroppo in videoconferenza da Bologna per problemi di salute) è stata in occasione del conferimento della cittadinanza onoraria da parte del Comune di Pertosa, in provincia di Salerno.
Ci mancheranno molto i ragionamenti del Professore, ma anche la compagnia di un maestro che ci ricordava lo zio di una canzone di Giorgio Gaber, dal cuore molto tenero e la testa (una grande testa) molto dura.
Si è svolta lunedì 20 febbraio ad Avellino la presentazione del rapporto 2011 dell’Osservatorio sul Doposisma, “La fabbrica del terremoto. Come i soldi affamano il Sud”.
Sono intervenuti al dibattito Gianni Marino (Archivio Storico CGIL Avellino), Stefano Ventura (Osservatorio sul Doposisma) Francescantonio D’Orilia (presidente Fondazione MIdA), Silvio Sarno, (presidente nazionale ATECAP), Marina Brancato, (ricercatrice), Silvia Curci (operaia dell’Irisbus), Franco Tavella (segretario regionale CGIL Campania). Ha moderato l’incontro Generoso Picone (Il Mattino).
Il convegno era intitolato: “Fabbriche, sviluppo, aree interne. Come ricominciare” e ha destato molta attenzione nella stampa e negli addetti ai lavori. E’ stato riconosciuto all’Osservatorio un importante ruolo di analisi e di pro positività, così come la Fondazione MIdA ha potuto raccontare e far conoscere il proprio modello, che passa attraverso la condivisione e il “fare rete” a livello locale e nazionale, ma anche dalla valorizzazione delle ricchezze ambientali del territorio e delle energie professionali, con attenzione particolare a giovani, donne e ricerca.
In allegato la rassegna stampa e una riflessione sui temi del dibattito
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