Stefano Ventura (1980) è nato in Svizzera, è cresciuto a Teora (Avellino) e vive a Siena. Si è laureato in Storia all’Università di Siena con una tesi dal titolo “Irpinia 1980-1992: storia e memoria del terremoto” (relatore il prof. G. Santomassimo) e ha conseguito il titolo di dottore di ricerca nel 2009 presso la scuola di dottorato in Scienze Storiche, Politiche, Giuridiche e Sociali dell’Università di Siena con progetto di ricerca su “L’Irpinia dopo il terremoto” (tutor: prof. Simone Neri Serneri).
Coordina con l’Osservatorio sul Doposisma della Fondazione MIDA (Musei Integrati dell’Ambiente) di Pertosa (Salerno), collabora con la Fondazione Officina Solidale Onlus e con altre fondazioni e enti di ricerca pubblici. E’ amministratore del sito ORENT (Osservatorio sui rischi e gli eventi naturali e tecnologici – Università di Siena). Ha svolto il ruolo di tutor per l’Agenzia Formativa Arci di Siena. Attualmente insegna Italiano e Storia nelle scuole superiori della provincia di Siena.
Ha partecipato a diversi convegni e seminari sui temi legati alle catastrofi naturali, alla Protezione Civile e alla memoria del terremoto del 1980. Tra questi si segnala il convegno internazionale “La memoria delle catastrofi” (Napoli, 25 e 26 novembre 2010, Università Federico II, Associazione Italiana Storia Orale), “Ambiente rischio sismico e prevenzione nella storia italiana” (Università di Siena, 2 dicembre 2010), “Sud, familismo amorale e crisi civile” (Fondazione MIdA, 9 ottobre 2010).
Cura una rubrica di storia locale sul trimestrale “Nuovo Millennio”, pubblicato a Teora (Av), ed è amministratore di un blog (teoraventura.ilcannocchiale.it).
Tra le sue pubblicazioni si segnalano:
- Oltre il rischio sismico. Valutare, comunicare e decidere oggi, Carocci, Roma, 2015 (con Fabio Carnelli);
- Non sembrava novembre quella sera. Il terremoto del 1980 tra storia e memoria, Mephite, 2010, prefazione di Antonello Caporale.
- Vogliamo viaggiare non emigrare. Le cooperative femminili dopo il terremoto del 1980, Edizioni di Officina Solidale, 2013, prefazione di Luisa Morgantini.
- Il terremoto dell’Irpinia. Storiografia e memoria, in Italia Contemporanea, n. 243, giugno 2006, pp. 251-269.
- Le macerie invisibili, Rapporto 2010, Osservatorio Permanente sul Doposisma, Fondazione MiDA, Pertosa (Salerno), novembre 2010.
- I terremoti italiani del secondo dopoguerra e la Protezione Civile,www.storiaefuturo.com, n. 22, marzo 2010.
- I ragazzi dell’Ufficio di Piano. La ricostruzione urbanistica dopo il terremoto in Irpinia, I frutti di Demetra. Bollettino di storia ambientale (n.22-2010).
- Prefazione a Benvenuto Benvenuti, Semiseria analisi lessicale di un disastro naturale, Montedit, Melegnano (Milano), 2009.
- Il lavoro in Irpinia negli anni del terremoto, in La storia della CGIL irpina dal 1948 ad oggi, a cura di Giovanni Marino, Avellino, 2010.
Informazioni di contatto: ventura80@libero.it
URL Sito: http://teoraventura.ilcannocchiale.it
A L'Aquila e in provincia dell'Aquila si svolgeranno alcune iniziative che vedranno coinvolto anche l'Osservatorio sul Doposisma. Tra venerdì 3 e domenica 5 si svolgerà il seminario itinerante della Società Geografica italiana, che avrà come momento di riflessione il convegno : Territorio e democrazia. Ragionando sui luoghi del terremoto a l'Aquila (a Onna, sabato 4 maggio, ore 16-19).
Venerdì 3 sarà presentato, a cura delle Associazioni Territori, Cittadinanze, Mutua studentesca e con la partecipazione dell'Osservatorio sul Doposisma, il libro di Stefano Ventura Vogliamo viaggiare, non emigrare. le cooperative femminili dopo il terremoto del 1980, Edizioni Officina Solidale
Domenica 5 maggio si svolgerà poi un raduno e un convegno degli storici dell'arte italiani; le conclusioni sono affidate a Salvatore Settis (il programma completo è disponibile su http://laquila5maggio.wordpress.com/).
Vogliamo viaggiare, non emigrare. Le cooperative femminili dopo il terremoto del 1980
di Stefano Ventura
Edizioni Officina Solidale ONLUS
Prefazione di Luisa Morgantini
“Vogliamo viaggiare, non emigrare” era lo slogan stampato su uno striscione che le ragazze della cooperativa “La Metà del Cielo”, di Teora, portavano a varie manifestazioni e eventi subito dopo il terremoto del 1980. Lo slogan era ispirato da un film di Troisi, uscito proprio in quel periodo, “Ricomincio da tre”. Nel film il protagonista, Gaetano, si allontanava da Napoli per fare nuove esperienze e ogni volta che qualcuno, saputo che veniva dal Sud, gli chiedeva se fosse emigrante, lui risponde seccamente di no, di voler semplicemente viaggiare.
Il libro di Stefano Ventura nasce da una borsa di ricerca sui temi della cooperazione sociale promossa dalla Fondazione di Comunità Officina Solidale. La ricerca ha indagato sei cooperative femminili nate dopo il terremoto del 1980 nell’area terremotata, tra Irpinia e Basilicata, e attraverso la raccolta di interviste e testimonianze, ha raccontato le storie e le esperienze delle socie di quelle cooperative.
Lo strumento della cooperazione, spesso introdotto nei paesi terremotati grazie ad alcuni promotori sociali e volontari, rappresentò un tentativo di organizzare le giovani e i giovani dei paesi terremotati per creare delle prospettive lavorative condividendo il rischio d’ impresa.
Nel libro si affronta, in maniera sintetica, anche il lungo cammino della cooperazione nazionale e internazionale, fino ad arrivare ai problemi attuali della cooperazione sociale; inoltre, si parla anche dei problemi che le donne affrontano nel mondo del lavoro.
Dalle parole delle dirette protagoniste emerge una narrazione diversa e poco nota della ricostruzione in Irpinia e Basilicata dopo il 1980, ben lontana da quella legata agli scandali e agli sprechi e più vicina all’esperienza di vita vissuta di persone comuni che tentarono, però, di organizzarsi per progettare il proprio futuro. Il messaggio che emerge è che dai periodi di estrema difficoltà, come un doposisma, possono emergere idee e stimoli positivi. E’ il primo lavoro che la Fondazione Officina Solidale promuove come casa editrice.
Il libro sarà presentato a Teora (ore 17, Teatro Europa) con la partecipazione di Rosanna Repole (presidente di Officina Solidale), Pasquale Cascio (vescovo diocesi di S. Angelo), il sindaco di Teora, Stefano Farina, la consigliera di parità Mimma Lomazzo, Vito Farese (presidente del Consorzio Servizi Sociali Alta Irpinia), Rosetta D'Amelio (consigliere Regione Campania), Giuliana Donatiello (presidente Associazione Te ieri, Te ora, Te sempre). Concluderà Luisa Morgantini (già vicepresidente del Parlamento Europeo) e modererà Maria Stanco (Presidio del Libro Alta Irpinia).
Il prossimo 12 febbraio, presso l' Hotel Ramada, a via Galileo Ferraris n.40, Napoli ‐ Ore 9:30 - si terrà l'ncontro pubblico: la Consulta di Protezione Civile incontra la politica e il sindacato. Ospiti, tra gli altri, Guglielmo Epifani, Franco Tavella segretario regionale CGIL Campania), Marco Leonardi (Dip. naz. Protezione Civile), Vasco Errani (Presidente Conferenza Unificata Stato Regione), Mario Morcone (Prefetto), Dino di Palma. In allegato il programma e il manifesto. Qui proponiamo la comunicazione di Lello Bove.
“La programmazione preventiva di Protezione Civile: una strategia per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva”
di Lello Bove
Nel corso degli anni, l’Italia, in risposta agli eventi avversi, ha orientato le proprie risorse, essenzialmente, verso la gestione del fenomeno calamitoso e verso l’organizzazione delle strutture civili, economiche, scolastiche per il ripristino delle condizioni di normalità e di equilibrio sociale. A partire dal 1980, data del terremoto dell’Irpinia, dove si compresero l’estrema vulnerabilità del territorio italiano e la completa inefficienza della risposta dello Stato, grazie al Presidente Pertini, è iniziata la lenta costruzione di un modello operativo italiano di protezione civile. Tale modello prevede, in sintesi, quattro fasi di intervento: 1) previsione; 2) prevenzione; 3) gestione delle emergenze; 4) ritorno alla normalità. Con la tragedia di Sarno del 1998, il Paese ha iniziato, con la pianificazione del rischio idro-geologico, a dotarsi di un sistema moderno di previsione e prevenzione dei rischi, anche attraverso una legislazione mirata e riconosciuta, a livello europeo, all’avanguardia sul tema. La recente emergenza diossina, che ha colpito la Campania, in modo chiaro ed inequivocabile, ha confermato la necessità di implementare l’impianto del sistema della previsione e prevenzione. L’emergenza diossina, infatti, dimostra che il Sistema Paese, oltre a dover tutelarsi da rischi naturali, dovrà sempre di più difendersi dai rischi tossicologici, industriali ed ambientali. Il Piano per il controllo dell’emergenza diossina in Campania, approvato dall’UE, è un modello di pianificazione integrata, dove, nel particolare, diverse amministrazioni dello Stato (ambiente, sanità, agricoltura, ecc..) hanno contribuito per fronteggiare una tra le più temibili emergenze nazionali.
Storicamente, il legame esistente tra la Protezione Civile e il Servizio Sanitario Nazionale è stato sempre forte. Ricordiamo, al riguardo, gli ospedali da campo, la rete del 118, l’elisoccorso, la medicina d’urgenza. Il legame, riconosciuto a livello europeo, ha prodotto, nei momenti delle varie emergenze, sempre dei buoni risultati, sia in Italia che all’estero. Ciononostante, le insidie delle nuove emergenze (tossicologiche, ambientali) e l’evoluzione tecnologica di attività di monitoraggio, nonché efficienti e sofisticati sistemi di prevenzione, devono necessariamente valorizzare altre strutture del Servizio Sanitario Nazionale, che, per storia, professionalità ed esperienza, lavorano nella prevenzione. Nel 1992, con la riforma sanitaria, il Sistema Paese si dota, per primo in Europa, di una struttura identificata in un Dipartimento di Prevenzione presente in ogni Azienda Sanitaria. In tale struttura lavorano medici, veterinari, biologi, chimici, ingegneri e tecnici della prevenzione, che, in attuazione di regolamenti comunitari, di leggi nazionali e regionali, svolgono precipue attività sulla sicurezza alimentare, igiene pubblica, medicina del lavoro, sanità animale e salute della collettività, sia in situazioni ordinarie che in condizioni di “emergenza”. Tali professionisti sono coinvolti, infatti, tra l’altro, sul rischio chimico, tossicologico, infettivo, industriale, alimentare, anche attraverso specifici piani, sia nazionali che regionali (piano nazionale residui, piano nazionale alimenti, ecc..). Queste figure professionali sono riconducibili al medico e al veterinario comunali ed il Sindaco, infatti, con le loro azioni e i loro interventi, assicurava la sanità pubblica. Dunque, sebbene la struttura, negli anni, abbia subito una “aziendalizzazione”, la mission del Dipartimento di Prevenzione è sempre quella di garantire, a livello capillare e territoriale, la salute della collettività, la sanità animale e la tutela dell’ambiente. Quindi, in riferimento alla Legge 100/2012, che obbliga i Sindaci a dotarsi di un piano comunale di emergenza, nella redazione di un piano particolareggiato della Funzione Sanità, il ruolo del dipartimento risulta fondamentale. Tale orientamento era già stato sottolineato dal Governo Prodi con la definizione dei Livelli Essenziali di Assistenza. Al riguardo, si segnala che già nell’allegato 1 dell’ ipotesi di DPCM del 2008 sui LEA, per il Livello di assistenza: Prevenzione collettiva e Sanità pubblica, nella sezione Tutela della salute e della sicurezza degli ambienti aperti e confinati, alla tavola B 14, venivano riportate le seguenti azioni e prestazioni del SSN:
In conclusione, possiamo affermare che, per un efficiente “Sistema Complesso di Protezione Civile” riconosciuto e validato, tutte le componenti devono dare il proprio contributo per la realizzazione di un sistema integrato, dove ogni componente agisce nel rispetto del ruolo e delle competenze altrui, apporta al sistema il proprio carico di professionalità e di competenze specifiche, utilizzando risorse e mezzi propri (sistemi informativi, linee-guida, protocolli e procedure). Solo così è possibile fornire una risposta adeguata all’emergenza. Il cittadino deve essere posto al centro e, quindi, la comunità in cui risiede diventa il perno della prima risposta e il Sindaco, primo cittadino, Autorità di protezione Civile, si configura quale “garante” per il Sistema. Risultano, pertanto, enormemente attuali i concetti di territorialità, cittadinanza attiva, sussidiarietà e resilienza. Dal territorio, quindi, deve partire la rivoluzione culturale per la tutela della popolazione, del proprio patrimonio artistico, agro-zootecnico e ambientale, fornendo alle strutture competenti le giuste coordinate per la propria salvaguardia.
Lello Bove
www.disastrologiaveterinaria.it
“ […] ma in questa terra oscura,
senza peccato e senza redenzione,
dove il male non è morale,
ma è un dolore terrestre, che sta per sempre nelle cose,
Cristo non è disceso.
Cristo si è fermato a Eboli”
(C.Levi)
La pubblicazione di quello che Rocco Scotellaro ebbe a definire come “[...] il più appassionante e crudele memoriale” della Basilicata finì per consacrare l'immagine della Basilicata come di una terra lontana dalla storia, refrattaria ai cambiamenti. Da lì, infatti, prese avvio un filone di studi che finì per consacrare la regione come metafora del sottosviluppo, bloccata nella sua civiltà contadina, vittima del familismo amorale.
L'immagine della Basilicata isolata, da un punto di vista sociale e culturale, oltre che fisico e arretrata in termini economici, trovava, in realtà, fondamento in alcuni elementi caratterizzanti il sistema territoriale regionale. Innanzitutto, la regione doveva fare i conti, come appuntò già Giustino Fortunato, con tre piaghe: malaria, frane e terremoto, in riferimento alla particolare conformazione fisica del suo territorio, definita da asperità del rilievo, diffuse forme di dissesto idrogeologico, che per lungo tempo hanno condizionato in negativo il controllo delle acque, tanto da aver reso la Basilicata terra di malaria (Boenzi, Giura Longo, 1994).
A tale conformazione naturale nel tempo si sono sovrapposte forme negative di intervento antropico (diboscamento, distruzione dell'originaria copertura vegetale, pratiche agricole errate), determinando, già a partire dalla fine della fase magnogreca e fino alla fine del Novecento, l'esodo delle popolazioni dalla pianura verso la montagna, dove vennero a formarsi grossi centri compatti. Tanto che al 1936 l'86,35% della popolazione lucana risultava agglomerata nei centri e solo il 13,65% sparsa nel territorio, nonostante il carattere prevalentemente rurale dell'economia regionale.
L'abitudine consolidata a vivere accentrati non poteva essere interrotta “[...] se non da un deciso intervento statale, che avesse reso possibile la diffusione stabile nelle campagne dei rurali già abituati a vivere nei centri... In effetti, l'opera di riforma fondiaria fu orientata appunto verso l'aumento della ricettività della campagna...” (Ranieri, 1972, p.179).
Proprio agli interventi di bonifica, in parte realizzati dalla Cassa per il Mezzogiorno, e alla Riforma fondiaria del 1950 si deve il disegno di un nuovo assetto del territorio lucano e l'avvio di lente ma strutturali trasformazioni sociali oltre che economico-produttive. Alla vigilia della riforma, la Basilicata presentava il più alto grado di occupazione agricola rispetto al resto delle regioni italiane. Il 73% della popolazione attiva regionale, infatti, era occupata nel settore primario, mentre solo l'8,3% risultava assorbito dal settore industriale (estrattivo e manifatturiero), il restante 18,7% dal terziario (piccolo commercio e professioni): tale struttura della popolazione era sinonimo di sottosviluppo (Telleschi, 1974).
Nelle aree collinari e pianeggianti l'organizzazione della distribuzione della proprietà fondiaria faceva emergere una persistenza di vasti latifondi, cui si contrapponeva, sul resto del territorio regionale, una elevata frammentazione e polverizzazione della proprietà.
Le tecniche agricole impiegate erano arcaiche, buona parte della produzione (per lo più seminativi semplici e piante legnose) non veniva commercializzata ma era destinata all'autoconsumo e i livelli di vita dei contadini erano disumani. Due le possibilità che si aprivano ai contadini lucani: ci fu chi si rassegnò alla vita di stenti che quella Basilicata poteva garantire e chi, al contrario, scelse l'esodo.
A interrompere, se pure solo in parte e solo in alcuni contesti territoriali, l'immobilismo della struttura sociale e dell'economia regionale concorsero due interventi di politica economica statale, l'approvazione nel 1950 della legge stralcio con cui si dava attuazione alla riforma fondiaria in parte finanziata dalla Cassa per il Mezzogiorno (istituita nello stesso anno), e il riconoscimento, sulla base della legge n.634/57 istitutiva dei nuclei e delle aree industriali, dei due nuclei industriali lucani siti lungo la valle del Basento, l'uno ai piedi del capoluogo regionale e l'altro gravitante sui giacimenti di metano rinvenuti a Ferrandina.
La legge di riforma agraria, a lungo dibattuta in sede di politica nazionale, fu pensata proprio come uno strumento per mutare in profondità la struttura del paese, in modo da risolvere la questione della polarizzazione fondiaria, definita da Segni il grande problema sociale dell’agricoltura (discorso che tenne nel maggio 1948 al Consiglio Nazionale della Dc).
La riforma fondiaria, intesa come un intervento finalizzato al ridimensionamento dei monopoli fondiari, con successiva distribuzione della terra tra i contadini, connessa agli interventi di bonifica (irrigazioni, miglioramenti fondiari, infrastrutturazione, appoderamenti e colonizzazioni) realizzati nei territori sottoposti a esproprio ebbe un impatto notevole sul paesaggio italiano, meridionale e, quindi, lucano.
In modo particolare, in Basilicata la riforma agraria ha segnato in positivo le sorti dell’unica vera pianura della Basilicata (Boenzi- Giura Longo, ivi, p. 34), il Metapontino, a quella data terra di malaria e di degrado fisico e sociale. Dall’altro lato, la “svolta industriale” nella politica meridionalista, che ha portato tra il 1959 e il 1960 alla nascita dei due nuclei industriali lucani, ha se non altro imposto all’attenzione delle classi politiche locali la necessità di programmare lo sviluppo della regione in maniera integrata, contribuendo, in qualche misura, alla definizione di un nuovo assetto territoriale.
Sull’impatto dell’industrializzazione per poli in Basilicata in termini di occupazione alquanto critico è il giudizio di Biondi: “A circa quindici anni dal suo avvio, la politica di industrializzazione per poli non sembrava aver mantenuto fede a quelle aspettative che la forte demagogia che un’ampia parte politica aveva alimentato presso le popolazioni locali. Rispetto alla auspicata creazione di circa 1.500 posti di lavoro per anno, ne erano stati attivati poco più di un terzo per un totale in un decennio di circa 6.100, dei quali il 60% in Val Basento e la rimanente parte nell’agglomerato potentino” (Biondi, 1997, pp.227-228).
Nel decennio successivo gli sforzi progettuali furono, dunque, tesi da un lato al rafforzamento dell’articolazione infrastrutturale della regione, già avviata dal programma di industrializzazione (la costruzione della S.S. Basentana), dall’altro al potenziamento del sistema produttivo regionale attraverso investimenti per settori (Comitato per la programmazione economica della Basilicata, 1967). Nelle aree della regione in cui si erano concentrati i grandi investimenti realizzati nell’ambito dell’Intervento straordinario (Metapontino, Val Basento, capoluogo regionale), nel corso degli anni Settanta cominciarono a farsi evidenti gli effetti positivi delle politiche di sviluppo intraprese negli anni precedenti, che avevano avviato la grande campagna, come era definita la Basilicata negli anni Cinquanta, verso la modernizzazione e lo svecchiamento del suo modello economico (Viganoni, 1989).
Purtroppo, però, l’andamento demografico nel periodo considerato faceva registrare un continuo decremento della popolazione, che aveva condotto a un progressivo impoverimento di molte aree di montagna e di collina (soprattutto in provincia di Potenza) e a una discreta vitalità demografica per lo più concentrata nei due capoluoghi e nelle fasce costiere (ionica e tirrenica) (Viganoni, 1992). Un altro momento di cesura nella storia socio-economica della Basilicata è rappresentato dal violento sisma che l’ha scossa nel novembre del 1980, a seguito del quale sul territorio regionale si sono concentrati interventi connessi con nuove forme di sostegno pubblico. “Nella scia dell’ si collocano, infatti, sia i finanziamenti destinati dallo Stato alla ricostruzione edilizia sia quelli convogliati nel settore industriale con la legge 219 del 1981” (Viganoni, 1997, p.18).
Tale legge, che esemplificava lo “slogan coniugare ricostruzione e sviluppo” (Sommella, 1997, p.252), ha costituito un’ulteriore occasione di destabilizzazione del precedente assetto territoriale, attraverso una politica di “industrializzazione diffusa” che ha portato alla definizione di otto aree industriali nel Potentino (Nerico, Melfi, Vitalba, Baragiano, Balvano, Tito, Viggiano e Isca Pantanelle) per un totale di ottanta iniziative progettate e finanziate. L’intervento ha, se non altro, contribuito a delineare, come elemento di novità, un polo agro-alimentare tra i comuni del Vulture (Atella, Melfi, Rionero), grazie alla presenza di alcune grandi imprese nazionali del settore (Parmalat di Atella, Barilla di Melfi), che ha costituito anche una prima forma di valorizzazione dei prodotti dell’agricoltura.
Alla fine degli anni Ottanta, dunque, sembrava stesse per compiersi un processo di trasformazione, per quanto lento e parziale, della base produttiva della regione; si registrava, infatti, un moltiplicarsi di iniziative locali, anche grazie agli incentivi previsti dalla legge sull’imprenditoria giovanile (44/86), un fiorire dei commerci, un incremento nel numero di occupati nella pubblica amministrazione, oltre a un tasso di industrializzazione più alto in entrambe le province lucane.
Agli anni Novanta risalgono le due iniziative industriali più importanti degli ultimi trenta anni per l’economia regionale, destinate ad avere un peso rilevante in termini di trasformazione territoriale: l’insediamento FIAT-SATA a S. Nicola di Melfi e il distretto del salotto, a cavallo tra alcuni comuni del Materano e parte della Murgia pugliese. A queste iniziative va aggiunta l’attività estrattiva di petrolio in Val d’Agri, avviata nel 1996.
Nel corso di un quarantennio (1950-1990), dunque, l’impianto economico-territoriale della Basilicata ha subito un graduale processo di articolazione e differenziazione delle sue trame, a partire da un omogeneo stato di arretratezza.
Nello specifico, già negli anni Novanta sembrava di poter distinguere sul territorio regionale quattro sub-aree, ciascuna delle quali “[…]impegnata a far emergere un proprio autonomo potenziale, con tempi e risultati tutt’altro che analoghi e sincronizzati” (Coppola,Viganoni, 1999, p.197). I sistemi locali individuati allora, da cui oggi provengono ulteriori conferme, sono: il Potentino; il Vulture-Melfese; il Materano; il Metapontino.
La tendenza alla polarizzazione dello sviluppo in poche aree strategiche (i centri urbani maggiori o i sistemi territoriali “di cerniera” come il Vulture o il Metapontino) ha, però, nel tempo accentuato gli squilibri interni alla regione. Mentre, infatti, i comuni interni, da sempre connotati con l’espressione metaforica di “presepi”, continuavano a perdere popolazione e risorse, i “poli” di sviluppo, al contrario, fungevano da contrappeso allo spopolamento interno facendo registrare sensibili incrementi demografici.
Tuttavia, l’immagine appena delineata di una regione articolata in alcune polarità insediative e funzionali sembrerebbe trovare ulteriore conferma dall’analisi di alcuni dati relativi agli anni più recenti. Le performances positive in termini sia demografici sia produttivi riguardano, infatti, ancora i due capoluoghi e parte dei loro intorni, soprattutto i comuni di cerniera con le altre regioni, alcuni centri della Val d’Agri e del Metapontino, mentre le aree più interne continuano a svuotarsi e a perdere potenziale umano (Stanzione, Salaris, Percoco, 2007).
Per quanto non sia riuscita a incidere strutturalmente sul territorio lucano, tuttavia è innegabile che questa parabola evolutiva abbia dato un impulso notevole agli spazi lucani nel processo di articolazione interna e di sperimentazione di direttrici di sviluppo diversificate. Tale articolazione, come già emerso, ha finito per acuire i divari interni al territorio regionale, senza, per altro, trovare soluzione alla latitanza urbana di cui da sempre soffre la Basilicata.
Si impone, quindi, la necessità di individuare e attuare politiche di potenziamento dell'armatura urbana e strategie volte al rafforzamento della coesione territoriale, allo scopo di ridimensionare i divari centro-periferia, interno-esterno che ancora definiscono il territorio lucano, come per altro impongono le politiche comunitarie.
Riferimenti bibliografici
Bernardi E., La Riforma Agraria in Italia e gli Stati Uniti. Guerra fredda, Piano Marshall e interventi per il Mezzogiorno negli anni del centrismo degasperiano, Bologna, il Mulino, 2006
Biondi G., Dalle “Cattedrali nel deserto” alla “Fabbrica integrata”,in Viganoni L., (a cura di), op.cit., 1997, pp.225-249
Boenzi F., Giuralongo R., La Basilicata. I Tempi. Gli Uomini. L’Ambiente, Bari, Edipuglia, 1994
Comitato regionale per la programmazione economica della Basilicata, Schema di sviluppo regionale per la Basilicata. Quinquennio 1966-70, Potenza, 1967
Coppola P., Viganoni L., Basilicata: il modello dei piccoli ?, in Viganoni L.(a cura di), Percorsi a Sud. Geografie e attori nelle strategie regionali del Mezzogiorno, Fondazione Giovanni Agnelli, 1999, pp.187-219
Ranieri L., Basilicata, Torino, UTET, 1972
Sommella R., Dal terremoto alle fabbriche, in Viganoni L., (a cura di), op.cit., 1997, pp.251-268
Stanzione L., Salaris A., Percoco A., Le sottili trame del tessuto urbano lucano, in Viganoni L. (a cura di), Il Mezzogiorno delle città. Tra Europa e Mediterraneo, Milano, Angeli, 2007, pp.222-245
Telleschi A., Esodo agricolo e trasformazioni agrarie nel Metapontino, in Atti XXII Congresso Geografico Italiano, vol.II, tomo 1, 1977
Viganoni L. Basilicata: positiva articolazione delle trame regionali, in Landini P., Salvatori F.(a cura di), I sistemi locali delle regioni italiane (1970-1985), Memorie Società Geografica Italiana, Roma, 1989, pp.480-486
Viganoni L. (a cura di), Città e metropoli nell’evoluzione del Mezzogiorno, Milano, Angeli, 1992
Viganoni L. (a cura di), Lo sviluppo possibile. La Basilicata oltre il Sud, Napoli, ESI, 1997
Il male oscuro dopo il terremoto
Da "La Stampa" del 20 dicembre 2012
Chi, uscendo dall’autostrada a Modena, salisse su nella Bassa fino a Mirandola, passando per Carpi Medolla e Cavezzo, e magari deviando anche verso Finale San Felice e Rovereto sul Secchia, non avrebbe l’impressione di attraversare una terra che, se non la fine del mondo, la fine di un mondo l’ha già vissuta, e solo sette mesi fa.
Non si vedono – se non di rado: e si tratta di vecchie cascine sparse qua e là. Oppure di antiche chiese – non si vedono più, dicevamo, case distrutte; né tendopoli, baracche, container. Certo alcuni segni del Mostro si scorgono ancora: in qualche strada, in uno spazio aperto, dietro le transenne che cintano pezzi di centri storici. Ma l’impressione è che non solo il peggio sia passato, ma anche che la vita sia ripresa come in quel bel tempo recente, quando questa piccola fetta di Emilia produceva, da sola, il due per cento del Pil nazionale. Eppure il Mostro si agita ancora. È invisibile, perché si manifesta nella sua forma più subdola: la paura. Ma si agita e uccide. Tre settimane fa, a Mirandola, c’è stata una tavola rotonda sulla ricostruzione e alla fine il sindaco, Maino Benatti, ha detto che purtroppo anche quella giornata era stata funesta, perché s’era avuta notizia di un suicidio. Di un altro, di un nuovo suicidio.
Quanta gente s’è tolta e ancora si toglie la vita, per colpa di quei maledetti 20 e 29 maggio scorsi? «Non ho cifre sicure, ma io ne ho sentiti cinque, negli ultimi due mesi, solo qui», mi dice Benatti nella scuola che ospita provvisoriamente la sede del Comune, in una strada intitolata a Dorando Pietri, un altro emiliano di tenacia e sfortuna. «Non lo so», continua il sindaco, «se sono più del solito. Certo adesso ci si fa più caso». Ed è certo anche che il terremoto ha aumentato il male di vivere. «Non ci sono ancora statistiche comparate con gli anni passati. Ma di sicuro un rischio di maggiori comportamenti autolesivi c’è», spiega il dottor Fabrizio Starace, responsabile del dipartimento di salute mentale dell’Ausl di Modena. «È aumentato, ad esempio, il consumo di alcolici… E abbiamo molte diagnosi di stati ansiosi e depressivi ». Come combattere questo nemico che ama agire di nascosto? «Abbiamo allertato i medici di base: state attenti a cogliere i primi segni di malessere. L’abbiamo detto anche ai professori nelle scuole: occhio ai ragazzi, soprattutto a quelli che hanno cambiato comportamento dopo il sisma.
I prof, appena hanno un segnale, ci avvertono. Ma è dura, perché anche i prof sono vittime del terremoto. Anche loro si svegliano di notte e pensano: non succederà ancora? ». A Medolla, in piazza Donatori di sangue, c’è un piccolo container. È l’ambulatorio del dottor Nunzio Borelli, uno dei quattro medici del paese, mille e quattrocento pazienti a carico. Nei nove comuni del cratere, i medici di base sono 67: il 60 per cento è ancora in container. Borelli, che è anche un rappresentante sindacale della categoria, ha appena partecipato, a Carpi, a un incontro di aggiornamento professionale con uno psichiatra: «Ci ha riportato un dato ormai consolidato dalla letteratura mondiale: dove c’è stato un terremoto, nel primo anno i suicidi aumentano del 63 per cento. Dopo cinquant’anni, la gente del posto ha ancora paura. Io ho quattro figli, la più piccola ha diciotto anni, l’altro giorno ho pensato: a 68 anni Benedetta avrà ancora paura. Ormai il terremoto è entrato nel nostro Dna». Gli chiedo in quanti suicidi s’è già imbattuto. Dice che bisogna stare attenti a diffondere dati, c’è il rischio emulazione, «e comunque sono, nei nove comuni del cratere, una decina negli ultimi due-tre mesi». Altri dati sono comunque inconfutabili: «Noi 67 medici di famiglia di quest’area vediamo quattromila pazienti al giorno. Un terzo è per patologie di tipo psicologico. Guardo le ricette: c’è un più trenta per cento di benzodiazepine e antidepressivi ». Dice che le situazioni più a rischio riguardano persone che mai, prima, avevano sofferto di disturbi del genere: «Il 66 per cento di quelli che stanno male adesso appartiene a quella categoria lì: nessun problema prima del terremoto», dice Borelli.
Ma non sono forse, gli emiliani, gente forte? Ho in mente la prima immagine che mi si presentò il 29 maggio a Rovereto sul Secchia. Era l’ora di pranzo e pochi minuti prima c’erano state tre scosse tremende: magnitudo 5,4; 4,9 e 5,2. Avevo davanti il signor Gino, un uomo grande e grosso che alle 9 del mattino, durante la prima scossa di quel giorno, aveva tirato fuori dalle macerie della chiesa il parroco, che gli era poi morto fra le braccia. Mentre mi raccontava l’accaduto, il signor Gino mescolava un enorme pentolone di pastasciutta per dar da mangiare alla gente in piazza. Mi sembrò l’immagine dell’Emilia che riparte subito. «Sono quelle che chiamiamo “reazioni eroiche”», mi spiega il dottor Starace.
«Quelli che l’hanno avuta, però, a volte hanno un calo nei mesi seguenti. È come se si dicessero: ora mi concedo anch’io il diritto di star male». Si soffre e si muore ancora, insomma, in Emilia, di terremoto. «Il 90 per cento delle attività produttive è ripartito, non c’è più quasi nessuno senza casa, anche il problema delle tasse è stato risolto con dilazioni e rateizzazioni. Dei 12 miliardi di euro di aiuti che dovevano arrivare, 9 sono già arrivati. Il disagio dunque non è legato a danni economici e materiali», dice il sindaco di Mirandola, Benatti: «È che abbiamo vissuto qualcosa più grande di noi». Ed è che l’uomo non è fatto di sola materia, e nell’animo si è aperta una ferita che lascerà sempre, almeno, una cicatrice.
Giovedì 6 e venerdì 7 dicembre si terrà a Pertosa, presso il MIdA01, una due giorni di formazione sulla pianificazione delle emergenze non epidemiche e la redazione dei piani sanitari d’emergenza.
Il corso prevede la partecipazione di tante personalità del mondo scientifico e veterinario.
Tra i tanti interventi: Marco Leonardi del Dipartimento di Protezione Civile, Raffaele Bove dell’ASL Salerno, Roberto Amantea della Prefettura di Salerno, Mario Vasco - dirigente del Settore Prevenzione della Regione Campania, Antonio Fasanella -responsabile dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale di Foggia, Francescantonio D’Orilia – veterinario dell’Asl Salerno oltreché presidente della Fondazione MIdA, Guido Rosato, Carlo Ferrara e Loredana Baldi del Settore Veterinario della Regione Campania.
Gli obiettivi del corso formativo – come sottolinea il presidente della Fondazione MIdA Francescantonio D’Orilia – sono: portare a conoscenza dei partecipanti al corso il modello organizzativo della Protezione Civile e quello della Difesa Civile; fornire i principi della pianificazione comunale, provinciale, regionale e nazionale; preparare i partecipanti alla stesura di piani particolareggiati per la pianificazione della gestione delle calamità naturali e dei disastri ambientali.
Si allega programma del corso e brochure.
Pertosa, lì 5 dicembre 2012
Gli anniversari vanno sempre rispettati, specie se per molte comunità e per molte persone sono momenti in cui si corre con la mente a un evento luttuoso e tragico, il terremoto del 23 novembre 1980.
Le date da ricordare sono utili anche a guardare indietro e rendersi conto del cammino fatto, ma anche a fare una pausa per capire se il presente è realmente quello che ci aspettavamo e quale prospettiva di futuro si delinea all’ orizzonte.
Per i 36 comuni nei quali i danni furono disastrosi, e dove morirono circa tremila persone, il 23 novembre è ancora una ferita aperta, e 32 anni non sono bastati a ricucirla e a lenire il dolore.
Per l’Italia delle polemiche e dell’opinione pubblica alimentata a dovere dai media il terremoto dell’Irpinia significa ancora oggi scandalo, enorme spreco di denaro, ruberie e quei centesimi che ancora vengono pagati sull’ accisa sulla benzina.
E’ quello che è stato ricordato qualche mese fa in qualche servizio televisivo e giornalistico, quando il CIPE ha ripartito tra i comuni terremotati 33,4 milioni di euro per il completamento di opere e progetti collegati alla ricostruzione in Campania e Basilicata. Questi erano fondi decisi dalla finanziaria del 2007 e nel 2010 era stato formalizzato il decreto ministeriale, ma ancora non erano stati ripartiti tra i comuni per la realizzazione delle opere.
Alla notizia, su molti siti e su qualche giornale sono uscite parole di condanna e sdegno per l’ennesimo scandalo targato Irpinia, e ancor di più le polemiche si sono fatte sentire dopo il terremoto in Emilia, soprattutto per iniziativa della Lega Nord.
Sicuramente tutto il capitolo di spesa direttamente o indirettamente al terremoto e alla ricostruzione ha rappresentato una pagina difficilmente ripetibile per la quantità di denaro impiegata (più di 32 miliardi di euro) e per i tempi nei quali la ricostruzione è avvenuta.
Ma la memoria pubblica deve anche contemplare quei tremila morti dei paesi dell’Appennino, che abitavano in piccoli centri inadatti a sopportare una scossa così violenta (6.9 scala Richter) e che, per di più, dovettero aspettare tantissime ore prima di veder arrivare i soccorsi.
Una novità che si può cogliere, quando si parla di rischio sismico o dissesto idrogeologico, è il fatto che si sta parlando sempre più diffusamente di prevenzione, di piani complessivi per evitare che la prossima catastrofe ponga in pericolo l’incolumità di chi vive in territori a rischio. Si vedrà se alle buone intenzioni seguiranno azioni concrete, investimenti e progetti.
I dati dicono che il 36% dei comuni italiani è a rischio sismico e il 58% della superficie del paese è a rischio frana o alluvione. Dal 1944 al 2012, si è speso circa 3,5 miliardi di euro di media annua per i danni provocati da terremoti, alluvioni e frane ( sono i dati del rapporto ANCE sullo Stato del territorio italiano).
Nell’ultimo anno, dall’alluvione che ha colpito Genova il 4 novembre 2011 e la Lunigiana qualche giorno prima, fino alla sentenza sulla commissione Grandi Rischi a l’Aquila, passando per il terremoto in Emilia e a quello del 26 ottobre scorso sul Pollino, il problema di come fronteggiare e, se possibile, evitare i pericoli derivanti dai disastri è diventato di attualità e fatto comprendere che sono diversi i nodi da sciogliere.
Ad esempio, i comuni devono predisporre i piani di protezione civile, divulgarli, fare esercitazioni e lavorare affinchè funzionino. Quanti sono i comuni italiani che su questo aspetto sono pienamente in regola?
L’anniversario del 23 novembre 1980 serve a discutere, ancora una volta, di prevenzione, di azione comune tra chi opera per quella che una volta si chiamava “pubblica incolumità” e oggi protezione civile.
"La Basilicata nel cellulare. Memorie dal terremoto e sogni di petrolio" ha vinto il premio Libero Bizzarri (19esima edizione) per la sezione MediaEducazione.
“La Basilicata nel Cellulare” è un documentario, realizzato dall’Osservatorio sul Doposisma della Fondazione MIdA con il sostegno della Regione Basilicata, che si è è proposto di “scoprire” come si è trasformata la Basilicata dopo il sisma del 1980.
Il prodotto editoriale, realizzato con i videofonini dei ragazzi lucani e curato dal film maker Antonello Faretta e dalla Noeltan Film Studio, ha voluto raccontare cosa sognano i giovani di questa terra alla luce anche delle opportunità del petrolio. La ricerca sul campo ha coinvolto cinquanta giovani lucani delle scuole medie di secondo grado, che hanno parlato delle loro aspirazioni, di cosa si aspettano dal futuro e soprattutto se c’è un futuro possibile nei loro paesi di origine. Il lavoro sarà proiettato oggi,venerdì 9 novembre presso l'Auditorium Comunale di San Benedetto del Tronto, in occasione della giornata dei lavori del Concorso MediaEducazione, mentre la premiazione si terrà sabato 10 novembre alle ore 21.15 presso il Teatro Concordia.
All’ 1 e 05 del 26 ottobre la terra ha tremato con un sussulto piuttosto forte (magnitudo 5.0), nella zona del massiccio del Pollino al confine tra Basilicata e Calabria. I comuni più vicini all’epicentro sono stati Mormanno (Cosenza) e Rotonda (Potenza). Una persona di 84 anni ha perso la vita a Scalea, colpito da infarto. Lo sciame sismico che interessa l’area del Pollino è ormai presente da molti mesi e con diverse sequenze; a maggio 2012 si sono verificate le scosse più significative, che avevano raggiunto il grado 4.3 della scala Richter.
A Mormanno sono iniziati subito i sopralluoghi per verificare la sicurezza degli edifici; una ventina di edifici sono stati dichiarati inagibili, ma molte famiglie non hanno fatto rientro nelle proprie abitazioni per paura di altre scosse. L’ospedale di Mormanno, che ospitava 36 degenti, è stato evacuato subito dopo la scossa per le crepe che sono state riscontrate nei muri dell’edificio.
Esperti e responsabili della Protezione civile si sono espressi con cautela sul rischio di possibili nuove scosse, anche di maggiore entità; l’energia messasi in atto nello scontro tra diverse placche può infatti essere solo una delle manifestazioni dello sciame, che non si arresta, oppure il liberarsi progressivo di energia che prelude a un attenuamento delle scosse (1).
Lo scorso 4 ottobre la commissione Grandi Rischi aveva licenziato un documento sullo sciame sismico in atto e aveva tenuto uno scambio di pareri con il capo dipartimento della Protezione Civile, Gabrielli (tra gli allegati è disponibile il verbale).
Anche la comunità scientifica, e l’INGV in particolare, aveva da tempo inviati suoi geologi per studiare le caratteristiche dello sciame, anche perché sull’area non sono disponibili dati esaustivi, sui fenomeni sismici del passato (2).
Dal punto di vista della comunicazione e della prevenzione erano stati effettuati nell’area numerosi interventi di informazione alla cittadinanza sul comportamento da tenere in caso di terremoto, non ultima la giornata nazionale “Terremoto, io non rischio” che aveva visto la presenza a Rotonda proprio di Gabrielli.
In questa situazione di allerta è intervenuta la sentenza dell’Aquila, che ha ritenuto la commissione Grandi rischi colpevole per le rassicurazioni alla popolazione prima del terremoto, provocando le dimissioni in massa dei suoi componenti e creando polemiche che hanno raggiunto le pagine dei giornali internazionali e animato le discussioni della comunità scientifica.
Di certo, in presenza di uno sciame così prolungato e in un’area che si conosce come ad alto rischio sismico, le contromisure in termini di esercitazioni e confronto capillare con la popolazione può aiutare molto a mitigare gli effetti di un evento sismico. Ma, ancora una volta, è la qualità degli edifici, la corretta interpretazione delle leggi più recenti in termini di antisismicità, l’adeguamento del patrimonio storico più datato che fa la differenza. I paesini del Pollino sono centri montani anche logisticamente scomodi, di solito racchiusi su cocuzzoli e con centri storici di abitazioni molto vicine tra loro. Già il 9 settembre 1998 ci fu una scossa molto forte (magnitudo 5.5) che causò danni e interessò la stessa zona, causando un morto a Maratea per il crollo di un costone di roccia.
Nei mesi scorsi alcune inchieste giornalistiche, tra le quali quella di RAINEWS 24 e di Presa Diretta, denunciavano le norme in materia di certificazione antisismica della regione Calabria. Dal 1994 è vigente una norma che non prevede controlli preventivi sui progetti ma solo un controllo a campione del Genio civile su una percentuale inferiore al 5% delle costruzioni, come denunciato dal geologo Carlo Tansi del CNR.
Solo nel luglio 2012 la norma antisismica è stata adeguata, ma la quantità di manufatti costruiti e la presenza pervasiva dell’abusivismo rendono davvero preoccupante il dato sull’antisismicità del patrimonio edilizio calabrese.
Il nostro Osservatorio ha condotto in Basilicata un progetto con gli studenti di cinque istituti superiori, che ha prodotto il libro Lucantropi e il film “La Basilicata nel cellulare. Memorie dal terremoto e sogni di petrolio”; proprio la memoria del terremoto è stato il punto di partenza per raccontare un territorio, per far esercitare i diciassettenni con la presenza di un ospite indesiderato, con un fenomeno che loro hanno conosciuto più attraverso le polemiche sugli sprechi e sulle inefficienze, come nel caso del terremoto del 1980, più che come evento fisico.
La Regione Basilicata ha promosso un concorso per studenti per documentare il tema della prevenzione e della conoscenza dei terremoti.
E’ importante un lavoro complesso e armonioso di raccolta di memoria, di tessitura, di conoscenza delle comunità e di dialogo e interazione continua perché permette a chi di dovere (Protezione civile, istituzioni e forze di governo) di adeguare i suoi strumenti per meglio intervenire in caso di calamità.
E’ questo il migliore antidoto al prevalere di cricche e gestioni criminogene in situazioni di emergenza e di straordinarietà vera o presunta. Quindi, oltre ai geologi che studiano le faglie, gli ingegneri che devono costruire e adeguare gli edifici, oltre ai professionisti dell’intervento in emergenza serve anche la conoscenza e l’approccio sociale, antropologico e storico.
Le associazioni di volontariato, professionisti e esperti lavorano quotidianamente per tenere informata correttamente la popolazione e per risolvere i problemi legati alla prevenzione.
Questo è il lavoro che serve in questi momenti, così come servirebbe un concreto investimento per avere edifici sicuri, un piano nazionale che parta dall’ alto e che venga però sostenuto anche dalla sensibilità comune dei cittadini. Abbiamo modelli validi da seguire a livello internazionale, il Giappone, la California, ma anche il Cile. Più e più volte è stato scritto che la prevenzione conviene, perché evita costose ricostruzioni dopo le scosse, ma soprattutto scongiura perdite umane che possono essere evitate.
(1) L'intervista a Gianluca Valensise, direttore di ricerca INGV http://www.ansa.it/scienza/notizie/rubriche/terrapoli/2012/10/27/Pollino-zona-alta-pericolosita_7700323.html
(2) Intervista a Marco Mucciarelli, Università della Basilicata, http://www.meteoweb.eu/2012/10/terremoto-pollino-mucciarelli-lo-sciame-sismico-si-sta-intensificando-scosse-sempre-piu-forti-e-frequenti/158721/
Per saperne di più:
Gli aggiornamenti e i comunicati sul sisma (Regione Basilicata)
Il blog Lavoro Culturale aveva dedicato qualche mese fa una serie di interventi al terremoto dell'Aquila, coinvolgendo diversi studiosi, giovani dottorandi e ricercatori, giornalisti. Il lavoro prodotto è stato poi raccolto in "Sismografie. Tornare all'Aquila mille giorni dopo il sisma".
Oggi si riparte con una nuova serie di interventi sul terremoto in Emilia.
Qui potete leggere la premessa degli autori di Sismografie, nonchè curatori del blog:
Sismografie, riprendere il filo del discorso (F. Carnelli, O. Paris, F. Tommasi)
Qui riportiamo un intervento che pone alcuni punti di discussione su questi primi mesi di questo doposisma.
Il terremoto degli operai e la sfida della prevenzione
Le scosse che hanno interessato l’Emilia Romagna e parte della Lombardia e del Veneto a partire dal 20 maggio scorso hanno provocato sette vittime il 20 maggio (ore 4 e04, magnitudo 5.9 ), e venti vittime il 29 maggio (ore 9, magnitudo 5.8). Un’altra scossa di forte entità (5.2 scala Richter) è stata registrata il 3 giugno (ore 21 e 20), e lo sciame sismico ha tenuto in allarme le aree e le popolazioni terremotate per diversi giorni e con moltissime scosse di minore magnitudo.
I comuni più colpiti sono stati San Felice sul Panaro, Mirandola, Finale Emilia, Cavezzo e Novi. Sono state allestite dalla Protezione civile ventotto aree per la prima sistemazione dei circa 15 mila sfollati, gestite dalle forze del volontariato. In Emilia-Romagna al 25 settembre sono 4.412 le persone assistite. Tra questi, 2.897 sono ospitati nelle aree di accoglienza, 88 nelle strutture al coperto e 1.427 in strutture alberghiere.[1] Mancano, accanto a questi numeri, le cifre delle autonome sistemazioni, cioè tutte quelle famiglie e persone che hanno trovato ospitalità a casa di parenti e amici e per i quali è previsto un contributo basato sul numero di componenti del nucleo familiare.
La situazione degli edifici pubblici ha rappresentato sin da subito un punto critico; per quanto riguarda, ad esempio, le scuole, il 17 settembre hanno riaperto, ma 471 edifici avevano subito danni e circa 70 mila studenti hanno dovuto ricominciare in situazioni provvisorie, in tensostrutture o in strutture prefabbricate, altre volte raggiungendo plessi scolastici di zone vicine o altre ancora ospitati in alberghi, palestre e altri spazi adattati alle necessità.
L’altra situazione d’urgenza riguarda le aziende e l’apparato produttivo, che in quest’area trova un concentramento di importanti realtà, ad esempio nel settore biomedicale e nella produzione alimentare. Molte aziende che hanno subìto il crollo dei capannoni hanno trovato ospitalità nelle fabbriche dell’area vicina o hanno condiviso gli spazi dei capannoni rimasti agibili.
Questo terremoto sarà quindi consegnato al purtroppo ricco elenco di disastri che hanno tormentato l’Italia come “il terremoto degli operai” e dei capannoni crollati, così come il terremoto di San Giuliano di Puglia e del Molise, che sta per compiere dieci anni (31 ottobre 2002) è quello dei bambini morti nel crollo della scuola, così come il terremoto dell’Aquila ha assunto come simbolico apice di sventura il crollo della Casa dello Studente di via XX settembre.
Ognuno di questi disastri, e nello specifico i terremoti, ha trovato risposte diverse non tanto nell’organizzazione e nella prontezza dei soccorsi, quanto nell’architettura istituzionale e di governo della gestione dell’emergenza e ancor di più nell’avvio della fase di ricostruzione. In 15 anni, dal terremoto dell’Umbria e delle Marche ad oggi, tutti gli eventi principali hanno avuto storia a sé, sono stati caratterizzati da filosofie di intervento proprie, da un equilibrio di volta in volta diverso tra le principali forze in campo, cioè comunità e istituzioni locali, Regioni, Protezione Civile e Governi nazionali. Nel primo caso (Umbria e Marche 1997) il Governo diede ben presto alla Regione l’incarico di coordinare gli interventi dei comuni; in Molise, quando la gestione commissariale passò alla Regione, il governatore Iorio allargò a dismisura le fasce di danno dirottando le risorse su opere e provvedimenti non collegati alla ricostruzione. L’Aquila ha rappresentato il ritorno a una gestione fortemente centralizzata da parte del Governo e della Protezione civile, con l’azione sinergica di Berlusconi e Bertolaso che ha privato quasi del tutto i sindaci e le popolazioni locali della possibilità di intervenire.
Far trascorrere un po’ di tempo tra lo svolgimento dei fatti e lo studio dei singoli casi aiuterà a capire se questa lettura, qui forzatamente semplificata, sia corretta o meno. Atteniamoci ora all’attualità per cercare di cogliere gli elementi principali che emergono dalla vicenda del terremoto emiliano.
Il 17 maggio, tre giorni prima della scossa del 20, è entrato in vigore il decreto n.59, quello che stabilisce compiti e modalità di intervento della nuova Protezione civile, dopo gli anni in cui alla Protezione civile sono stati affidati compiti e poteri che esulavano dalla sua vocazione originaria (i grandi eventi, ad esempio).
Il decreto stabilisce che la Protezione civile ha potere di ordinanza per venti giorni dopo una calamità
(Tremonti aveva introdotto un passaggio obbligato e una autorizzazione preventiva del ministero dell’Economia prima di stanziare i fondi per l’emergenza) e ha potere di intervento e spesa su operazioni di soccorso, assistenza alle popolazioni e opere per la sicurezza con 50 milioni di euro a disposizione da destinare allo scopo. L’emergenza dura sessanta giorni, prorogabili al massimo di altri quaranta giorni, per un totale massimo di cento giorni, dopo i quali la gestione passa alle amministrazioni ordinarie. Il decreto contiene anche l’accantonamento del principio per il quale lo Stato è tenuto a risarcire integralmente i danni dovuti a disastri e introduce un’assicurazione obbligatoria contro i danni da calamità per le abitazioni private[2].
L’Emilia rappresenta quindi il primo banco di prova di questo decreto, e da più parti è stato fatto notare che in sessanta o al massimo cento giorni non si risolve quasi nulla. Il fondo stabilito per la gestione dell’emergenza è di 50 milioni di euro, che in Emilia sono finiti venti giorni prima della scadenza dello stato di emergenza. Le istituzioni locali in particolare devono imparare in fretta a fare da soli, sotto la guida della Regione, ma ad a oggi i soldi per operare sembrano non esserci, né da parte del governo italiano (tranne i 500 milioni derivanti dalle accise sulla benzina), né dall’Unione Europea (i 670 milioni stanziati arriveranno nei primi mesi del 2013). La cosiddetta congiuntura economica, d’altronde, non è certo quella più adatta a spese e impegni finanziari straordinari.
Eppure le prime dichiarazioni di alcuni membri del governo, al di là delle cifre annunciate, sollevavano questioni aperte di grande importanza; il ministro dell’ambiente, Clini, dichiarava di voler promuovere un piano nazionale per la difesa del territorio. Per questo sforzo straordinario servirebbero, secondo il ministro, 41 miliardi di euro e 15 anni di tempo[3].
Il ministro Fornero, invece, faceva notare che il crollo dei capannoni e degli edifici sensibili, in altri Paesi, non sarebbe potuto succedere[4].
E’ indubbio che il problema della sicurezza del patrimonio di edilizia pubblica e privata italiana è davvero il principale nemico per la difesa dai rischi naturali e antropici, ma per vari motivi non si è mai agito seriamente per porre rimedio alla questione. Dal terremoto di San Giuliano di Puglia a oggi sono passati dieci anni; tuttavia non si ricordano in questi anni leggi, interventi e impegni di spesa per la messa in sicurezza di scuole, edifici storici e per i fabbricati più datati.
Scorrendo i titoli e le pagine dei giornali delle settimane successive al terremoto emergono, inoltre, polemiche e allarmi sul rischio di nuove scosse e sull’adeguatezza della mappa nazionale del rischio sismico. La zona colpita non risulta, infatti, tra le zone a più alto rischio sismico, anche se storicamente in quell’area si ricordano alcuni terremoti, anche di forte entità, come ad esempio il sisma del 1570 a Ferrara, e in quel caso lo sciame sismico durò diverso tempo[5].
L’annuncio di imminenti scosse di uguale o maggiore entità ha tenuto in allarme la popolazione e messo in difficoltà geologi ed esperti che stavano, nel frattempo, monitorando la situazione, vista anche la relativa novità del fenomeno. Si pone quindi un altro problema, quasi etico: comunicare tutte le informazioni di cui la comunità scientifica è in possesso oppure selezionarle per evitare allarmismi e panico?
Quello che sicuramente emerge è la corsa alla semplificazione, i titoli a effetto e la rapidità frenetica imposta da comunicazione di massa al tempo dei social network, quando un tweet o un hashtag hanno più presa di un approfondimento ragionato. Nel caso del terremoto, la previsione di un evento sismico sta diventando un’ossessione scientificamente infondata, ma sempre evocata. Invece di inventarsi date, previsioni e allarmi su dove e quando sarà il prossimo sisma, sarebbe certamente meglio investire le energie per adeguare le strutture materiali e per educare la popolazione.
Infine, bisogna prestare attenzione al frequente appello alla “retorica della tragedia”, cioè a quella vulgata che sottolinea in maniera strumentale il carattere di una comunità, la fierezza degli aquilani oppure la laboriosità degli emiliani. Certamente raccontare le esperienze positive di rinascita può essere di incoraggiamento per chi deve ripartire.
Molto spesso, però, questo tipo di narrazione serve a oscurare o mettere in secondo piano l’individuazione delle responsabilità, ad esempio sui palazzi costruiti su una faglia a Pettino, quartiere dell’Aquila, o sui capannoni accartocciati su se stessi in un niente in Emilia e spinge a minimizzare i problemi della ricostruzione e dell’immediato.
Staremo a vedere quale corso prenderà la ricostruzione in Emilia; di certo la seria considerazione dei problemi degli emiliani porterebbe a una più matura consapevolezza della fragilità dell’Italia intera e, forse, a pensare la natura e il territorio come elementi primari e non trascurabili. Al di là delle politiche di lungo periodo, delle azioni di governo nazionali e locali, la prima cellula di Protezione civile è sempre il buonsenso, quello individuale e quello collettivo; per far maturare questa coscienza è fondamentale sostenere e rafforzare i progetti educativi, che già nel nostro Paese sono ben presenti grazie al volontariato, all’associazionismo e a ricercatori e professionisti della prevenzione. Vale anche la pena ricordare di come la prevenzione, oltre a salvare vite umane, potrebbe far risparmiare le ingenti risorse necessarie, ogni volta, per ricostruire dopo un disastro. C’è bisogno, quindi, di agire con continuità in questa direzione, senza aspettare la prossima calamità.
[1] http://www.regione.emilia-romagna.it/terremoto/dati-e-numeri-dalla-protezione-civile.
[2] http://www.osservatoriosuldoposisma.com/chi-siamo/chi-siamo/il-decreto-legge-59-e-la-nuova-protezione-civile .
[3] http://archiviostorico.corriere.it/2012/giugno/01/Quindici_anni_per_rendere_sicura_co_9_120601055.shtml .
[4] http://archiviostorico.corriere.it/2012/maggio/30/capannoni_finiscono_sotto_accusa_Non_co_8_120530018.shtml .
[5] http://corrieredibologna.corriere.it/bologna/notizie/cronaca/2012/30-maggio-2012/nel-covo-sismologi-bolognesi-una-lunga-estate-scosse-201398708282.shtml .
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