Stefano Ventura (1980) è nato in Svizzera, è cresciuto a Teora (Avellino) e vive a Siena. Si è laureato in Storia all’Università di Siena con una tesi dal titolo “Irpinia 1980-1992: storia e memoria del terremoto” (relatore il prof. G. Santomassimo) e ha conseguito il titolo di dottore di ricerca nel 2009 presso la scuola di dottorato in Scienze Storiche, Politiche, Giuridiche e Sociali dell’Università di Siena con progetto di ricerca su “L’Irpinia dopo il terremoto” (tutor: prof. Simone Neri Serneri).
Coordina con l’Osservatorio sul Doposisma della Fondazione MIDA (Musei Integrati dell’Ambiente) di Pertosa (Salerno), collabora con la Fondazione Officina Solidale Onlus e con altre fondazioni e enti di ricerca pubblici. E’ amministratore del sito ORENT (Osservatorio sui rischi e gli eventi naturali e tecnologici – Università di Siena). Ha svolto il ruolo di tutor per l’Agenzia Formativa Arci di Siena. Attualmente insegna Italiano e Storia nelle scuole superiori della provincia di Siena.
Ha partecipato a diversi convegni e seminari sui temi legati alle catastrofi naturali, alla Protezione Civile e alla memoria del terremoto del 1980. Tra questi si segnala il convegno internazionale “La memoria delle catastrofi” (Napoli, 25 e 26 novembre 2010, Università Federico II, Associazione Italiana Storia Orale), “Ambiente rischio sismico e prevenzione nella storia italiana” (Università di Siena, 2 dicembre 2010), “Sud, familismo amorale e crisi civile” (Fondazione MIdA, 9 ottobre 2010).
Cura una rubrica di storia locale sul trimestrale “Nuovo Millennio”, pubblicato a Teora (Av), ed è amministratore di un blog (teoraventura.ilcannocchiale.it).
Tra le sue pubblicazioni si segnalano:
- Oltre il rischio sismico. Valutare, comunicare e decidere oggi, Carocci, Roma, 2015 (con Fabio Carnelli);
- Non sembrava novembre quella sera. Il terremoto del 1980 tra storia e memoria, Mephite, 2010, prefazione di Antonello Caporale.
- Vogliamo viaggiare non emigrare. Le cooperative femminili dopo il terremoto del 1980, Edizioni di Officina Solidale, 2013, prefazione di Luisa Morgantini.
- Il terremoto dell’Irpinia. Storiografia e memoria, in Italia Contemporanea, n. 243, giugno 2006, pp. 251-269.
- Le macerie invisibili, Rapporto 2010, Osservatorio Permanente sul Doposisma, Fondazione MiDA, Pertosa (Salerno), novembre 2010.
- I terremoti italiani del secondo dopoguerra e la Protezione Civile,www.storiaefuturo.com, n. 22, marzo 2010.
- I ragazzi dell’Ufficio di Piano. La ricostruzione urbanistica dopo il terremoto in Irpinia, I frutti di Demetra. Bollettino di storia ambientale (n.22-2010).
- Prefazione a Benvenuto Benvenuti, Semiseria analisi lessicale di un disastro naturale, Montedit, Melegnano (Milano), 2009.
- Il lavoro in Irpinia negli anni del terremoto, in La storia della CGIL irpina dal 1948 ad oggi, a cura di Giovanni Marino, Avellino, 2010.
Informazioni di contatto: ventura80@libero.it
URL Sito: http://teoraventura.ilcannocchiale.it
A quarant'anni dal terremoto del 1980, in tempi di nuova e diversa emergenza, abbiamo il dovere di commemorare la tragedia e il diritto di interrogarci su cosa è successo. Per farlo è necessario approfondire, scavare tra le macerie invisibili rimaste in tanti anni di doposisma. Ricostruire non vuol dire solo sanare le ferite fisiche e materiali dei luoghi terremotati o di un sistema economico in difficoltà ma anche pensare alle comunità, al sentimento dei luoghi, alla felicità interna lorda. L’Osservatorio sul Doposisma ha prodotto dal 2010 a oggi vari rapporti di ricerca, convegni, festival, concorsi creativi ed eventi, cercando di mettere in pratica la visione prospettica del futuro affondandola nelle radici di speranza emerse dalle macerie del 1980.
INDICE
Presentazione di Rosa D’Amelio, Presidente del Consiglio Regionale della Campania
Introduzione, di Antonello Caporale, giornalista del Fatto Quotidiano e ideatore dell’Osservatorio sul Doposisma
Parte 1
CAPITOLO 1. Terremoti e gestione delle emergenze. L’esperienza del 1980, di Stefano Ventura;
CAPITOLO 2. Oltre l’Atlantico. Terremotati, migranti, Italian-Americans a New York, di Manuela Cavalieri
CAPITOLO 3. La cattiva ricostruzione. Da dove ripartire dopo quarant'anni? di Simone Valitutto
CAPITOLO 4. Passarono gli anni e il nuovo non venne. Dopo il terremoto, le fabbriche, di Pietro Simonetti e Stefano Ventura
CAPITOLO 5. Etnografia di una ricostruzione. Fiducia e mutamenti sociali in una comunità irpina di Teresa Caruso
CAPITOLO 6. Rischio sismico, prevenzione e gestione dell’emergenza. Aspetti normativi e tecnico-amministrativi, di Raffaele Tarateta
Parte 2.
CAPITOLO 7. Il CERVENE (Centro Regionale di Riferimento Veterinario per le emergenze non epidemiche), presentazione e attività, di Raffaele Bove - Salvatore Medici
CAPITOLO 8. La nascita della disastrologia veterinaria e l’esperienza di Adriano Mantovani, di Raffaele Bove e Nicola Amabile
Postfazione. Osservare il doposisma
Appendice fotografica
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Si avvicina il decimo anniversario del terremoto dell'Aquila (6 aprile 2009). Nel frattempo nel Centro Italia terremotato del 2016 non si muove molto e la ricostruzione pare ferma al palo, con i cittadini che si sentono sempre più abbandonati. La loro condizione è emblematica di tanti abbandoni che riguardano le zone interne e fragili d'Italia, l'Appennino, la montagna in generale. Servirebbe un cambio di paradigma netto e servirebbe riportare interesse e discussione su questo problema. Riportiamo un articolo uscito di recente su LIPPERATURA, il blog di Loredana Lipperini, che parla di questa situazione. Sullo stesso blog si possono trovare articoli, storie, narrazioni e spunti di riflessione importanti per non dimenticare i nostri connazionali in difficoltà.
DA CAMERINO A L'AQUILA: LA RIVOLUZIONE CHE CI VUOLE
Ci vuole una rivoluzione. Ascoltate la puntata di Fahrenheit di ieri: intorno a 1.25, nel podcast, Tomaso Montanari parla del cratere:
"Sembra che ci sia un'altra Italia, lontana dagli sguardi dell'Italia mainstream, dell'Italia delle metropoli. E a volte ci chiediamo cosa possiamo fare noi per quelle regioni. Certo, ora dobbiamo salvarle. E' uno scandalo spaventoso che non si investa, che non si lavori, che non si riportino i cittadini, i lavoratori, gli studenti nelle vie, nelle piazze e nelle aule di Camerino, che ha un'università antichissima. Ma in realtà, se noi non aiutiamo Camerino, e le aree interne colpite dal terremoto (penso a Visso, penso a tanti altri luoghi meravigliosi), è perché non le conosciamo, perché sono uscite dalla nostra percezione, è perché non ci chiediamo cosa loro possano fare per noi: insegnarci un altro stile di vita, un altro ritmo, un altro modo di vivere (...) . Camerino, le aree interne, sono l'anima dell'Italia, sono il rimedio al fatto che l'Italia tenda a somigliare a tutto il resto del mondo in una omogeneità indistinta. In quei luoghi così tormentati oggi - pensiamo anche all'Aquila, sono dieci anni - c'è un senso di umanità che manca altrove e che possiamo ritrovare. Dobbiamo pensare che quei luoghi possono aiutare noi, e non viceversa. Bisogna rivoltare il nostro punto di vista. Ci vuole veramente una rivoluzione".
Già, L'Aquila. Su Lo stato delle cose Federica Tourn intervista Massimo Cialente. leggete l'integrale, e meditate su questi due estratti.
«Alla fine dissi di sì alle new town perché avevo un solo obiettivo, riportare la gente all’Aquila. Nel 1703 dopo il terremoto fu mandato un commissario straordinario, un certo Garofalo, e che fece? Mise le palizzate alle porte della città per impedire che gli aquilani scappassero. Io dovevo fare la stessa cosa. C’era un solo modo, accettare la proposta di Berlusconi sul progetto C.A.S.E., così accettai e cominciai a pensare come disporle». Poi, il colpo di scena. «Il 5 maggio, in piena notte, mi chiama trafelato il mio ragioniere capo e mi dice: “Berlusconi ha firmato l’ordinanza!”. Una che non mi avevano mai fatto vedere e che recitava: “A seguito del sisma, tutti gli uffici statali, regionali, i reparti specialistici ospedalieri vengono trasferiti transitoriamente nelle città vicine. Stesso trattamento per i dipendenti di questi uffici, sulla scorta del danno riportato dalla casa”. Cioè rimanevano soltanto il Comune e le scuole dell’obbligo; la città era morta. Successe un casino. Dissi: “Vi dò venti minuti per mettervi in salvo, prima che scateni la rivoluzione. E poi mandate pure l’esercito”. Ero fuori di me: il cuore mi batteva impazzito, la voce era salita di due toni, mi sembrava di morire. Bertolaso e Letta cercavano di calmarmi ma io non volevo nemmeno vederli; dissi loro: “Fra poco sarete circondati, o Berlusconi annulla subito l’ordinanza o siete morti”. Avrei scatenato la città e la città mi avrebbe seguito». Una vera e propria chiamata alle armi in difesa della terra assediata: niente male per un semplice diacono. Che fosse davvero intenzionato a far scoppiare la guerra o il suo fosse soltanto un bluff, alla fine quella partita la vinse lui, Cialente: «Alla due di notte Letta mi disse che avevano tirato giù dal letto Berlusconi e gli avevano fatto annullare l’ordinanza».
«Nessuno ha raccontato la verità, hanno usato la tragedia per obiettivi politici, come stanno facendo adesso per Rigopiano o Amatrice: ci sono comunità spezzate e nessuno si sta sedendo a tavolino a chiedersi che cosa si può fare per risolvere il problema, l’unica cosa che fanno è cercare di chi è la colpa. Oggi come dieci anni fa, dove all’Aquila la preoccupazione era affossare Berlusconi o glorificarlo».
Monaci e comunità italo-greche nel Principato Longobardo di Salerno
mostra documentaria
La mostra è prima di tutto il racconto di una migrazione, quella causata a partire dagli inizi del IX sec. dalla conquista araba della Sicilia. È la storia di vite comuni, di contadini e artigiani in fuga dalla Sicilia e dalla Calabria, in cerca della salvezza e della stabilità. Ma è anche la storia di monaci e di santi alla continua ricerca dei luoghi della solitudine, che non posseggono nulla, che non hanno bisogno di nulla, che hanno rinunciato al mondo per praticare l’ascesi, ma che possiedono anche un sano senso pratico ed efficaci doti organizzative, che si dimostrano instancabili fondatori di monasteri, guaritori, medici, abili diplomatici, sempre sensibili ai bisogni delle comunità che incontrano nel corso del loro difficile cammino verso la perfezione spirituale.
Esistenze comuni, esistenze eccezionali: tutte hanno contribuito ad infondere una forte impronta nelle terre d’arrivo, incidendo con la loro presenza profondamente nel processo di formazione del paesaggio storico di un ampio comparto del Mezzogiorno d’Italia.
“Terre dei Principi” è così che vengono definiti i domini longobardi nella vita di San Nilo da Rossano, tra i protagonisti più illustri di una vicenda straordinaria di fede, cultura e umanità.
Sicilia, Calabria, Basilicata, Campania, condividono un frammento di memoria storica troppo spesso dimenticata, ma soprattutto conservano l’eredità prodotta da un incontro tra civiltà diverse e da un sincretismo culturale inedito, che si manifesta vivido nei lacerti degli affreschi sopravvissuti, tra le crepe dei ruderi di antichi monasteri, nelle tradizioni, nelle forme devozionali. Un patrimonio materiale e immateriale che è ancora in grado di esercitare un forte fascino sulla tanto distante e troppo spesso distratta, modernità.
L’inaugurazione della mostra è prevista per il 27 Ottobre alle ore 11.00.
Sarà possibile visitare la mostra dal mercoledì al sabato, dalle 14.00 alle 17.00 e la domenica dalla 10.00 alle 12.00 e dalle 14.00 alle 17.00.
L’ingresso è gratuito.
Pubblichiamo un articolo, scritto in occasione del 37esimo anniversario del terremoto in Campania e Basilicata e uscito su Lo Stato delle Cose il 13 dicembre 2017.
Le fotografie sono di Michele Amoruso, il testo è di Stefano Ventura.
Quando uno storico deve raccontare una scossa di terremoto, per non rischiare di ridurre a dati asettici e freddi la sua esposizione può ricorrere alla diretta voce dei testimoni e protagonisti; per raccontare uno shock, col suo carico di conseguenze e di implicazioni emozionali, le parole di chi quello shock lo ha provato direttamente sembrano essere più efficaci delle analisi esterne.
Dai racconti orali raccolti emergono alcuni elementi comuni, dettagli e similitudini che aiutano senz’altro lo studioso a tentare una mappatura complessiva delle comunità colpite e interessate dal sisma, anche se per sua stessa natura la testimonianza orale è una fonte delicata, da maneggiare con cura (Bonomo 2013 e Portelli 2007).
Quello più evidente è sicuramente la cesura, il prima e il dopo che il terremoto crea, una separazione netta che divide due epoche, due periodi diversi se non opposti nella biografia di ognuno. A maggior ragione, questa divisione è sancita dalla perdita di persone care, che si aggiunge alla perdita dei riferimenti fisici, dei luoghi e degli spazi della socialità e della vita comunitaria. Come afferma Gabriella Gribaudi, “il terremoto è una cesura che segna la vita delle comunità e delle persone. E la cesura è amplificata dalla memoria. La memoria scandisce il tempo in un prima e un dopo, dilatando le dinamiche che normalmente insorgono con il passare degli anni. Prima c’è la comunità intatta, armoniosa, felice, dopo c’è la disgregazione, la corruzione. […] La nostalgia si colora delle immagini della socialità perduta, della piazza, del vicinato” (Gribaudi 2010, p.88).
Il protagonista delle testimonianze riportate di seguito è il terremoto che colpì il 23 novembre 1980 Campania e Basilicata; le persone intervistate abitavano nei paesi del Cratere.
“Di quei terribili momenti ricordo la scossa interminabile, ma siccome casa mia rimase illesa, così come quella vicina, non ci sembrava che fosse successo niente di grave. Quando però uscimmo fuori e ci girammo verso la piazza, si presentò ai nostri occhi questa immagine: un immenso polverone bianco, spaventoso, macerie ovunque, uno sconvolgimento totale. Nel giro di dieci minuti fummo ricoperti di polvere, sembravamo mugnai, eravamo completamente bianchi. C’era una luna che ti sfidava, che illuminava le macerie, beffarda” (Testimonianza di Arcangela Garofalo, in Ventura 2010, p. 40).
Prima del terremoto le province di Avellino e Potenza erano tra le più povere d’Italia, zone di emigrazione e d’isolamento, eppure nel ricordo di chi le aveva conosciute prima della distruzione provocata dal terremoto emergono descrizioni piene di riferimenti ad ambienti umanamente solidali, comunità coese e semplici.
«Che ti devo dire di ‘sto terremoto, c’ha segnato, c’ha segnato tanto, più che altro perché c’ha levato tutto. Torella era un paese bellissimo prima del terremoto, ci riunivamo in piazza, era piacevole, era proprio bello, poi si è disgregato tutto, chi è partito da una parte, amicizie spezzate, tante cose che adesso, così, da descrivere sono difficili, non riesco. Però è vivo, come ricordo è vivissimo» (Testimonianza di Maria Teresa Imbriani, in Ventura 2013, pag. 113).
«Prima che ci colpisse il terremoto, eravamo una grande famiglia, la quotidianità si condivideva nei quartieri, era un’unica casa. Si lasciavano le porte aperte. Ricordo che la vicina entrava a casa di mia nonna anche quando lei non c’era per lasciarle l’insalata. Oggi lei continua a tenere la porta aperta ma io le dico che deve chiuderla a chiave» (Caruso 2011, p. 132).
Franco Arminio, scrittore irpino che ha incentrato la sua produzione sui paesi e la paesologia, sintetizza in questa massima che parafrasa Tolstoj il senso di paradiso perduto: “Forse le cose stanno così: una volta si era tristi tutti insieme, adesso ognuno è triste per conto suo”(Arminio 2003).
Non è raro trovare, tra le parole che spiegano un imbarbarimento del dopo rispetto al prima, l’arrivo dei soldi della ricostruzione e la creazione di corsie differenziate per accedere a finanziamenti, posti di lavoro e incarichi pubblici. Questa è la descrizione che il parroco del comune di Teora (Avellino), uno dei centri più colpiti, ci restituisce, parlando del periodo della ricostruzione:
«Della ricostruzione devo dire che ho un giudizio purtroppo negativo: non ci si saziava mai; nella ricostruzione privata soprattutto, ricordo come il paesaggio delle campagne, che erano state colpite in maniera molto minore rispetto ai centri urbani, cambiasse e si arricchisse di costruzioni nuove e a volte sontuose. Sicuramente non ci fu sincerità nel dichiarare i danni, e i risultati non sono stati fedeli alla situazione preesistente: chi aveva qualcosa si è ritrovato con molto di più, se ci ha saputo fare; chi aveva molto si è ritrovato con poco.
Anche io condussi la mia battaglia affinché la Chiesa fosse costruita in quello che sarebbe diventato il nuovo centro del paese, e non in posizione marginale. Fui sconfitto. Prima e dopo il terremoto cambiarono i rapporti umani, il terremoto ha segnato una specie di spartiacque. Chi ha avuto i morti ha pianto ed è rimasto scosso, dimostrando a volte una dignità esemplare. Altri hanno imparato ad approfittarsene, se avevano perduto solo la casa o, a volte, neanche quella» (Testimonianza di Don Donato Cassese, Ventura 2006, p. 256).
Le persone più semplici, invece, parlano della ricostruzione come di una lunga attesa nella quale cercare un fioco legame con il proprio mondo prima “dell’apocalisse”:
«Abbiamo atteso la ricostruzione a Materdomini vivendo a casa di una zia. Con mio padre scendevamo in macchina tutte le sere per passeggiare e riappropriarci del nostro luogo. Ci avvinghiavamo alla pietra. Quando però vedevi le erbacce crescere tra le macerie ti accorgevi di quanto tempo stava passando senza che nulla accadesse. E perdevi la speranza» (Caruso 2011, pag.115).
Chi aveva perso, tra le macerie delle case e dei palazzi crollati, parenti e familiari, si rifugiò a volte in una dimensione intima del ricordo che si scontrava e si divaricava dalla vita comunitaria, in ogni sua forma; ogni momento di possibile incontro con la propria comunità diventa il momento in cui si rievoca l’assenza delle persone e dei luoghi di prima, ma allo stesso tempo sembra esserci un senso di colpa per quel vuoto di partecipazione.
«Da quel momento io ho vissuto ventiquattro anni di rifiuto, una sorta di risentimento verso il mio paese, mi sentii sradicata, vedevo la disgregazione di quella comunità e mi sentivo comunque colpevole per la mancanza del mio contributo alla comunità. Per ventiquattro anni ho avuto un rifiuto quasi totale a fare qualsiasi forma di vita sociale, e ancora oggi sento la stessa difficoltà» (Testimonianza di Arcangela Garofalo, in Ventura 2006, p. 253).
Esistono molti altri versanti da affrontare, sulle forme che la memoria e la rievocazione assumono in relazione al terremoto; uno di questi è quello riguardante la memoria dei volontari e soccorritori giunti in massa in Irpinia e Basilicata, dopo le prime, lunghe ore di assenza di soccorso, per portare aiuti e supporto ai terremotati. In questo caso la memoria assume un contorno eroico, uno spaccato momentaneo di vita in cui si decide di dedicare energie e attenzione a persone in difficoltà, sotto shock per la perdita di persone e luoghi cari.
«Il viaggio di ritorno l’ho fatto su un furgone della Croce Rossa, sdraiato dietro su scatoloni di attrezzature. Ero ridotto da sembrare un profugo sfuggito da una zona di guerra. Stivaloni di gomma, giacca a vento e pantaloni lerci, capelli arruffati, barba lunga incolta e zaino militare in spalla pieno zeppo di indumenti sporchi di fango ormai seccato. Attaccato alla giacca, tenevo in bella vista il tesserino di riconoscimento con la mia fotografia dove si poteva leggere “Colonna Mantovana Soccorsi Pro Irpinia”. Lo tenevo in bella vista appuntato sul petto per non essere scambiato per un barbone, ma soprattutto lo tenevo lì per orgoglio» (Testimonianza di Vincenzo Cantarelli, in Gribaudi, Zaccaria 2013, p. 66).
La costruzione della memoria del terremoto e della ricostruzione del 1980 è un processo ancora molto debole. Questa fatica dipende da molti fattori; sicuramente il ritardo e i tempi lunghi della ricostruzione hanno tenuto impegnati privati cittadini e istituzioni fino a qualche anno fa e in alcuni casi continuano a impegnarli, magari distraendo da altre operazioni culturali di tutela e trasmissione di forme memoriali. Molti protagonisti, inoltre, hanno occupato e occupano la scena pubblica del doposisma, rendendo più difficile un complessivo esame dei fatti e dei processi. Ma la debolezza dei tentativi di ricostruzione di una memoria di questo evento è da cercare anche nella rimozione individuale di chi non riesce a rivisitare il dolore, lo shock della perdita e il senso di sconfitta di una ricostruzione in chiaroscuro. I ricordi vengono confinati a una dimensione privata e intima, che in occasione degli anniversari diventa comunitaria ma che non sana le divisioni di cui parlavano le testimonianze citate in precedenza.
La faticosa costruzione di memoria, che a volte assume i contorni della rimozione e dell’oblio, diventa pericolosa perché l’interruzione della trasmissione di conoscenze e saperi, anche in forma orale, tra generazioni che abitano luoghi ad alta pericolosità sismica, rende meno resilienti i cittadini di quei luoghi. La memoria di un terremoto aiuta senza dubbio la prevenzione e aumenta la capacità diffusa di porre argine agli effetti catastrofici di un sisma.
L’altra domanda che emerge riguarda l’atteggiamento di chi è venuto dopo: cosa sa un ventenne, un adolescente di oggi, del terremoto, visto che non ci sono quasi più ruderi, macerie e insediamenti provvisori a costituire un monito visivo e una presenza del sisma?
Queste che seguono sono le riflessioni di un ragazzo lucano, che vive in uno dei paesi colpiti allora dal terremoto, Muro Lucano.
«Il terremoto è qualcosa di reale. È come se lo conoscessimo, dai racconti dei nonni e dei genitori. Ma non avvertiamo la stessa paura che avvertono loro. […] Il terremoto è stato uno spartiacque. Prima del 1980 c’era maggiore equità sociale. Nessuno aveva più soldi degli altri. Dopo il terremoto c’è chi ha costruito palazzi e chi è rimasto allo stesso livello. Il sisma ha portato anche un miglioramento, ma non per tutti. Chi è stato più furbo è andato avanti, le persone più semplici sono rimaste indietro»(Giuseppe Cardillo, in Lucantropi, 2012, p. 21).
«A me l’ha raccontato mia nonna. Si sentiva tremare la terra sotto i piedi. Si affacciò al balcone e vide il campanile della Chiesa di Sant’Antonio oscillare. Mamma, che studiava a Potenza, fu costretta a dormire per tre notti all’aperto. Corleto non ha avuto né morti, né feriti. La vita è continuata a scorrere così com’era prima. Con la sua monotonia. E tuttora si vive con la solitudine nei cuori ed abbiamo tutti lo sguardo vuoto di chi assiste impotente ad un terremoto senza fine, dove tutto finisce di vivere ma nessuno risorge». (Antonella di Noia, in Lucantropi, 2012, p. 16).
L’enorme flusso di soldi pubblici e interventi straordinari ha prodotto risultati circoscritti e limitati, rispetto alle promesse e alle previsioni. Oggi queste sono zone in cui lo spopolamento ha indici preoccupanti, così come il disagio sociale e la disoccupazione; il motivo è da ricercare in errori di calcolo più o meno consapevoli nella scelta di investire risorse in progetti industriali affidati a soggetti estranei alle zone terremotate e inquadrati in un disegno non radicato territorialmente e non collegato alla situazione socioeconomica preesistente. Inoltre, ha pesato non poco la connivenza tra politica, imprenditoria e malaffare, che ha tirato le fila dell’apparato pubblico a livello locale e nazionale per diversi anni, in assenza di controlli e inchieste giudiziarie realmente efficaci prima dell’inizio degli anni ’90.
Forse la voglia di ricordare, sia nei giovani, sia in chi c’era già nel 1980, è poca proprio perché le urgenze e i problemi del presente sono più pressanti e stringenti. La ricostruzione della memoria di quell’evento dimostra quindi di essere doppiamente difficile: chi ha vissuto l’evento e il dolore a esso collegato si rifugia nell’intimità familiare e comunitaria del ricordo. Chi è venuto dopo e dovrebbe esigere chiarezza sugli effetti prodotti dalla ricostruzione vive l’inquietudine e il disagio dei problemi di oggi.
Servirà ancora tempo, probabilmente, per mettere a confronto una memoria diffusa, fatta di tanti spaccati individuali, di tanti segmenti non dialoganti, che faccia da controcanto rispetto a una narrazione pubblica e mediatica forte, che si è alimentata ad ogni terremoto perché ha fatto dell’Irpinia l’esempio da non seguire. Anche se difficoltosa, però, quest’operazione meriterebbe di essere affrontata con energia.
Bibliografia
Arminio F. 2003, Viaggio nel Cratere, Sironi editore, Milano.
Bonomo B. 2013, Voci della memoria. L’uso delle fonti orali nelle ricerca storica, Roma, Carocci editore.
Carnelli F, Ventura S. (a cura di) 2015, Oltre il rischio sismico. Valutare, comunicare, decidere, Roma, Carocci editore, 2015.
Caruso T. 2011, Un popolo da ricostruire. A trent’anni dal terremoto, fiducia e mutamenti sociali in una comunità irpina, in «La fabbrica del terremoto. Come i soldi affamano il Sud», Rapporto 2011 dell’Osservatorio sul Doposisma – Fondazione Mida, Pertosa (Salerno), Edizioni MIdA.
Gribaudi G, Zaccaria A.M. (a cura di) 2013, Terremoti. Storia, memorie, narrazioni, Verona, Cierre edizioni.
Gribaudi G. 2010, Terremoti. Esperienza e memoria, in «Parole chiave», n. 44/2010.
Lucantropi. Tra il dito e la luna scelgo la luna, Pertosa (Salerno), a cura dell’Osservatorio sul Doposisma – Fondazione MidA, Edizioni MidA, 2012.
Portelli A. 2007, Storie orali. Racconto, immaginazione, dialogo, Roma, Donzelli editore.
Ventura S. 2006, Il terremoto dell’Irpinia del 1980. Storiografia e memoria, in «Italia Contemporanea», n.42/2006.
Ventura S. 2010, Non sembrava novembre quella sera, Atripalda, Mephite edizioni.
Ventura S. 2013, Vogliamo viaggiare, non emigrare. La cooperazione femminile in Irpinia dopo il terremoto, Avellino, Edizioni di Officina Solidale.
In una data simbolo, il 23 novembre, a distanza di 37 anni dal sisma del 1980, il Comune di Palomonte vuole ripartire dalla bellezza. A ridare anima e dignità alle macerie, a restituire luoghi e storia alla comunità di questo paese fortemente danneggiato – non tanto da quella terribile scossa ma dalla ricostruzione post-sisma –sarà un progetto dal forte impatto emotivo e culturale: “Sussulti. Storie di terra e umanità”. Prendendo spunto da azioni di rigenerazione urbana divenute modello virtuoso a livello internazionale, come il caso di Tirana e la siciliana “Farm Cultural Park”, l’obiettivo del progetto “Sussulti” sarà quello di far diventare il paese dell’Alta Valle del Sele meta turistica di interesse nazionale, rimarginando con l’arte le ferite del terremoto, dando nuova veste agli scempi architettonici e urbanistici recenti, colorando i principali centri abitati del paese con nuove storie di terra e umanità legate tra di loro dalla speranza e dal desiderio di rinascita.
Il paese diverrà una quinta per l’esposizione dei diari autobiografici degli italiani, custoditi dall’Archivio di Pieve di Santo Stefano. Le strade, i quartieri, le frazioni del comune avranno un tema portante legato alla storia del Novecento fino ai giorni nostri (La grande Guerra, il fascismo, la rivoluzione industriale, gli anni dell’emancipazione femminile etc.).
Le premesse di una rivoluzione urbanistica e culturale ci sono tutte e saranno presentate nella sala di rappresentanza del Comune giovedì 23 novembre alle 16 alla presenza di personalità illustri e futuri partner del progetto. All’evento, coordinato dal giornalista de “Il Fatto Quotidiano” Antonello Caporale, parteciperanno: il sindaco di Palomonte Mariano Casciano, Natalia Cangi, direttrice dell’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano, Erasmo D’Angelis della struttura di missione “Italia Sicura” della Presidenza del Consiglio dei Ministri, Franco D’Orilia, presidente della Fondazione MIdA, Corrado Matera, assessore regionale allo Sviluppo e Promozione del Turismo e Maria Rita Pinto, docente di Tecnologia dell’Architettura dell’Università di Napoli “Federico II”. Concluderà l’incontro Evelina Christillin, presidente dell’Ente Nazionale per il Turismo.
Con delibera di giunta n. 114 del 7 marzo 2017, la Regione Campania ha istituito il Centro Regionale di Riferimento Veterinario per le emergenze non epidemiche – CeRVEnE, che avrà sede presso il palazzo “Jesus” della Fondazione MIdA ad Auletta.
Il Centro nasce come sede operativa del “Polo Integrato per le prestazioni sanitarie d’elevata complessità, la didattica e la ricerca in materia di sicurezza alimentare e sanità pubblica veterinaria”, già istituto nel 2011, al fine di affrontare in modo organico ed efficace le problematiche connesse alla gestione delle emergenze veterinarie. Il CeRVEnE dà seguito, inoltre, a quanto previsto dalla Regione Campania nell’Azione H.4 del Piano Regionale della Prevenzione, in cui si impegna a perseguire come obiettivo specifico regionale, quello di “migliorare e tutelare la salute delle persone in tema di sicurezza alimentare, attraverso una corretta gestione delle emergenze veterinarie epidemiche e non, relative alla salute degli animali e alla sicurezza alimentare”.
La gestione della struttura è stata affidata all’Asl di Salerno, all’Istituto Zooprofilattico del Mezzogiorno e all’Università degli Studi di Napoli “Federico II”, e prevede la collaborazione della Fondazione MIdA che – attraverso l’Osservatorio permanente sul dopo sisma – da anni svolge ricerche sulle ricadute socio-economiche dei sismi sui territori, sulle filiere agroalimentari e sui sistemi zootecnici, con una sezione dedicata alla disastrologia veterinaria.
In particolare, l’attività di ricerca condotta dall’Osservatorio permanente sul dopo sisma e dalla Fondazione MIdA ha prodotto, in questo settore, la mostra “1980-2010:30 anni di medicina veterinaria delle catastrofi” – curata da Raffaele Bove, dirigente Asl Salerno, in collaborazione con la Fondazione MIdA, una raccolta di documenti sulla disastrologia veterinaria, e l’attivazione di linee guida per un piano organizzativo dei servizi veterinari per la gestione delle emergenze.
Le attività del CeRVEnE – come sottolinea la Regione Campania – saranno a beneficio di tutte le AASSLL e saranno indirizzate a creare un sistema strutturato e permanente di referenti all’interno delle stesse ASL, finalizzato a fornire assistenza tecnico-scientifica alla Regione nella redazione di piani di emergenza e relativi manuali operativi da rendere disponibili in caso di emergenze non epidemiche, con specifico riferimento alla sanità e benessere animale e alla sicurezza alimentare; nella predisposizione di programmi di formazione capaci di rispondere alle richieste sempre diverse e crescenti in questo campo a livello nazionale e internazionale; nell’organizzazione e gestione della documentazione nel campo delle emergenze non epidemiche; nella creazione di un sistema strutturato di collegamento con il Sistema di Protezione Civile Regionale e con il Centro di referenza nazionale per le emergenze non epidemiche, presso l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale Abruzzo e Molise.
“Il CeRVEnE completa e rinforza il percorso di ricerca intrapreso nel 2004 dalla Fondazione MIdA con l’Osservatorio sul dopo sisma e le attività di studio sulla disastrologia veterinaria – dichiarano Francescantonio D’Orilia, presidente MIdA, e Raffaele Bove, dirigente Asl Salerno – Siamo entusiasti di poter inaugurare una nuova fase diretta alla predisposizione di programmi e manuali operativi per la gestione delle emergenze in sinergia con autorevoli partners, quali le AASSLL, l’Istituto Zooprofilattico del Mezzogiorno e l’Università degli Studi di Napoli Federico II. Per questo – aggiunge D’Orilia – abbiamo reso disponibile quale sede operativa del Centro il nostro palazzo “Jesus” ad Auletta, che ospita anche l’Osservatorio del dopo sisma”.
La Regione Campania, infine, con la stessa delibera, ha istituito anche il Nucleo di Coordinamento regionale per il monitoraggio e per la predisposizione del programma annuale delle attività del CeRVEnE, composto dal Dirigente dell’Unità Operativa Dirigenziale Prevenzione e Sanità Pubblica Veterinaria della Direzione Generale per la Tutela della salute e il coordinamento del SSR, o suo delegato, che lo presiede; dal Direttore del Dipartimento di Medicina Veterinaria e Produzioni Animali dell’Università Federico II di Napoli, o suo delegato; dal Direttore Generale dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale del Mezzogiorno o suo delegato; da una risorsa umana del CeRVEnE alla quale sono affidate le funzioni di Direttore Tecnico del Centro; dal Direttore della Fondazione MIdA o figura delegata.
Venerdì 31 marzo, la Fondazione MIdA ha presentato le attività di ricerca sull’impatto sanitario e socio culturale del terremoto nelle terre colpite e sulla disastrologia veterinaria, condotte in questi anni attraverso l’Osservatorio sul dopo sisma, nell’ambito dell’evento formativo rivolto ai soci del Rotary Club Caserta presso l’Hotel Royal (Caserta). Sarà esposta anche la mostra “1980-2010: 30 anni di medicina veterinaria delle catastrofi”.
Lunedì 10 e martedì 11 aprile, invece, sarà presente all’incontro formativo organizzato dall’Istituto Zooprofilattico della Sardegna sulla gestione delle emergenze non epidemiche a Cagliari, dove illustrerà le proprie attività sul tema, portando anche in questa sede la mostra “1980-2010: 30 anni di medicina veterinaria delle catastrofi”.
Le attività veterinarie nei terremoti a 36 anni di distanza dal terremoto del 1980
24 NOVEMBRE 2016
Auditorium Fondazione MIDA, Pertosa
a partire dalle 8,30
Spulciando tra le cartelle virtuali del mio computer ho avuto modo di passare in rassegna le tante immagini raccolte nel tempo a proposito del terremoto del 1980; serviva a cercare qualche foto di corredo a un articolo in uscita il 23 novembre su Lavoro Culturale (www.lavoroculturale.org/Sismografie).
Il deja-vu è stato quello di indovinare quale paese era protagonista delle macerie delle varie foto e pensare oggi a quegli stessi angoli e scorci. Già questo esperimento, da solo, rende evidente la portata di distruzione di quel sisma, quello al quale ho dedicato anni interi di studio e di ricerca.
Nei mesi scorsi varie scosse hanno coinvolto altre regioni italiane, posti bellissimi sono stati sconquassati e buttati all'aria dall'ospite inatteso col quale conviviamo da secoli e col quale ancora non abbiamo imparato a fare i conti.
Mi è capitato di confrontarmi di persona, telefonicamente o virtualmente con giornalisti, tecnici o ricercatori che stanno ragionando su cosa è successo nelle zone terremotate dopo le scosse del 24 agosto e del 30 ottobre, aprendo paralleli con la sera del 23 novembre 1980 e quei 90 secondi di tremito tellurico. Sembra che chi possiede un minimo di conoscenza sull'argomento debba dare risposte definitive, come un oracolo, su cos'è il terremoto, come si ospitano i senzatetto, come ricostruire bene e come si evitano gli scandali e le ruberie. E' la ricerca spasmodica della rassicurazione dell'esperto da ingerire come un ansiolitico per far passare la paura.
Ma chi può avere risposte rassicuranti e definitive? Altre domande che ho ascoltato chiedevano di sapere al centesimo quante lire o euro erano state spese per la ricostruzione in Irpinia e Basilicata. Anche qui la complessità della risposta non era soddisfacente, non si adattava bene a un tweet o a un post di Facebook.
Mi è capitato di ascoltare decine e decine di racconti sul terremoto, sulla terribile notte del 23 novembre, sul dolore della perdita di persone care e luoghi familiari, sulla rabbia dei lunghi anni di prefabbricati e lavoro promesso e sperato, su risultati architettonici e urbanistici estranei ai propri valori. E' tutto troppo complesso, è una dimensione più intima che pubblica e non trova, infatti, segni tangibili che ci aiutino a commemorare (musei veri, archivi, progetti di sensibilizzazione e tutela).
L'altra sensazione forte, in questo anniversario, riguarda il destino del nostro Appennino. Dobbiamo capire cosa farne, dei nostri piccoli paesi, se li riteniamo una risorsa o un peso, se la popolazione che vive sulle montagne italiane (11 milioni di persone) ha la stessa dignità di chi vive a Roma, Milano, Napoli, Torino e se gli si deve prestare attenzione o ignorare il grido soffocato di disperazione quotidiana. La mappa dei terremoti più recenti degli ultimi 50 anni coincide quasi perfettamente con la mappa del disagio demografico e civile. Per questo “il modo migliore di ricordare i morti è pensare ai vivi”.
di VINCENZO LUISE
pubblicato il 4 novembre su www.lavoroculturale.org
Energie della Terra è il quarto rapporto dell’Osservatorio sul Doposisma che rappresenta un’occasione di riflessione sul tema della relazione tra agricoltura, giovani e ritorno nelle aree rurali. La pubblicazione non solo fornisce un quadro ampio delle diverse prospettive di ricerca ma si propone di esplorare le tendenze che emergono dalle aree interne del nostro paese.
Già a partire dagli anni ‘60 la letteratura accademica si è interessata al fenomeno dei back to the land movements (Jacob, 2010). Questi movimenti erano composti da giovani delle controculture hippies che sulla base di un credo antimodernista decidevano di trasferirsi in campagna. Il fenomeno, diffuso sia in America che in Europa, si caratterizzava per la pratica degli insegnamenti di Sir Alber Howard e di Rudolf Steiner (Paltrinieri e Spillare, 2016) nella produzione di cibo biologico. Le preoccupazioni nell’immediato dopoguerra nei confronti delle tecniche di produzione agricola industriale della Rivoluzione Verde (Evenson e Gollin, 2003) contribuì inoltre all’incremento dell’interesse verso modelli produttivi agroecologici (Shiva, 2015).
Secondo Constance (2014) la letteratura accademica sugli alternative agrifood movements può essere ricondotta a quattro domande di interesse principali che catturano l’evoluzione della relazione uomo-natura-cibo e ne descrivono le dimensioni di ricerca. Se in principio l’attenzione si focalizzava sul rapporto tra impatto della produzione convenzionale e qualità dell’ambiente (environmental question) è solo agli inizi degli anni ‘70 che si pone attenzione alle conseguenze che tale modello ha sulla vita degli agricoltori (agrarian question), mentre negli anni ‘90 emerge una significativa area di ricerca che connette qualità del cibo e modelli produttivi convenzionali (food question). La studiosa inoltre individua un’ulteriore area di studio che è la naturale conseguenza della creazione di un giusto ed equo sistema di produzione agroalimentare, ovvero la relazione tra modelli convenzionali e promozione dei diritti civili (emancipatory question).
Questa pubblicazione si inserisce in un filone di studi denso che però risente di una mancata sistematizzazione delle strategie e degli obiettivi adottati dai movimenti. Sottraendosi ad una scontata visione mainstream promossa dai media nazionali sulle opportunità di sviluppo professionale e personale che oggi offre la campagna, dal rapporto emerge il carattere pluriversale di queste esperienze.
(Foto pag. 12)
Per poter riconoscere e analizzare tale pluralità l’Osservatorio ha indetto un bando di ricerca-azione al fine di ‘registrare’ queste tendenze attraverso le seguenti domande di ricerca:
‘E’ vero che i giovani stanno ritornando all’agricoltura, alla terra?
Al Sud quanto è concreta questa tendenza e riesce a creare
reali occasioni di occupazione e imprenditorialità?
Quali sono le storie, i problemi e i sogni dei giovani agricoltori?’ (p. 7)
La pubblicazione, inoltre, si compone di altri quattro contributi che affrontano da diverse prospettive analitiche lo studio delle aree interne: dal rapporto con i contesti urbanizzati, al ruolo del paesaggio, fino alle opportunità offerte dalla network society. Tale varietà di indagini permette di delineare i confini di una nuova economia del cibo (Winter, 2003) intesa nel suo senso più ampio, ovvero di un’economia che riportando al centro del sistema agroalimentare la produzione di cibo di qualità opera contemporaneamente su diverse dimensioni: ‘la disintermediazione prende il posto della logistica, lo storytelling del marketing e la redistribuzione della finanza, valorizzando tutti quegli aspetti tangibili e intangibili di una comunità che diviene parte integrante di questo processo’ (Arvidsson e Giordano, 2014, p.6).
Se, da un lato, il volume mette in mostra tale complessità, è solo attraverso una metodologia qualitativa come l’etnografia o la partecipazione osservante che sembra possibile comprendere il ruolo e il valore di queste avanguardie. ‘Il riercatore vuole diventare in questo approccio un facilitatore tra “mondi diversi” ancor più che un portatore di visioni’ (p. 14). I contributi ‘Energie per la terra per seminare cambiamento’ di Carlotta Ebbreo, e ‘Il cammino silenzioso. Seminare i semi della resistenza’ di Simone Valitutto condividono questa prospettiva di ricerca. La metodologia adottata non si pone al di sopra dei soggetti, ma al contrario, cerca di costruire con essi un percorso di riflessione. Se il primo contributo si propone di essere una narrazione commentata del ritorno alla terra, il secondo si caratterizza per una riflessione critica sui modelli di sviluppo che interessano le aree interne.
‘Il concetto di “ritorno” assume significati diversi rispetto alla rappresentazione sociale che la vita nello spazio rurale, e lo stesso spazio rurale, portano con sè.’ (p. 15)
La ricercatrice, vincitrice del bando promosso dall’Osservatorio, propone una duplice visione del ritorno, sia geografica che culturale. Lo studio, incentrato sulle esperienze di re-esistenza contadina nell’area del Parco del Cilento, Vallo di Diano e Alburni, assume come dato inconfutabile l’insostenibilità dell’attuale sistema economico-produttivo. Attraverso il framework teorico della trans-innovation theory (Geel e Schot, 2007) la ricercatrice mostra come le discrepanze fra bisogni e funzionamento del regime economico attuale induca queste nicchie di innovazione a sperimentare nuove forme di vissuto, economico e sociale, in grado di innescare processi trasformativi a livello sistemico. Piuttosto che risignificare queste esperienze, il testo intende raccontare il loro carattere di alterità e di come rappresentino, non solo sul piano simbolico, l’esempio di un nuovo possibile equilibrio tra uomo-natura-economia. All’interno di questa prospettiva possiamo ricondurre anche il contributo di Simone Valitutto sull’esperienza del cammino silenzioso.
‘Un’esperienza di vita che muta lo sguardo e l’esserci nel mondo di chi vi partecipa e che rappresenta una diversa concezione dei paesi in cui si è deciso di (ritornare a) vivere.’ (p. 115)
Il cammino, viaggio nei luoghi di confine tra Campania e Basilicata, da Atena Lucana a Viggiano, nasce dalla necessità di raccontare un modello di sviluppo alternativo a quello petrolifero. Si presenta come una testimonianza di resistenza radicata nell’esperienza dei corpi che ripercorrono i vecchi sentieri utilizzati dai pellegrini per raggiungere il santuario della Madonna Nera del Sacro Monte di Viggiano. La volontà di ri-guardare i luoghi, nell’accezione che Franco Cassano (2005) descrive in Pensiero Meridiano, pernia tutto il lavoro. Non solo emerge la capacità di aver cura di quei territori provando a sottrarli ad un modello di sviluppo descritto come predatorio, ma si è saputo guardare con occhi nuovi gli stessi luoghi riscoprendo le tracce del passato attraverso una pratica contemporanea. Il cammino diviene cura contro quella che De Martino (1954) definiva angoscia territoriale, ovvero la perdita dell’abilità di ambientamento e di radicamento. Contrapponendosi al potere prescrittivo dei luoghi imposto da soggetti altri, il contributo si configura come necessaria testimonianza della pratica di appaesamento che può essere generata solo attraverso la frequentazione e manipolazione degli spazi. Affinché sia riconosciuto il valore simbolico di questa e le altre esperienze che popolano le aree interne è necessario, quindi, porsi in una dimensione di ascolto.
‘Dobbiamo allora essere guidati dall’ascolto nell’agire sul (e nel) margine, e riflettere sul senso e sulla scelta
di abitarne i delicati equilibri.’ (p. 106)
(Foto pag. 19)
Il contributo di Nicola di Croce ‘Il ritorno alla montagna come ascolto del margine’, focalizzandosi sulla dimensione spaziale e demografica delle aree montane attraverso un parallelo tra nord e sud, definisce le aree interne come quelle aree marginali interessate solo parzialmente dalle politiche di sviluppo economico. Ma è attraverso la risignificazione del silenzio che risuona in questi territori che diviene possibile rileggere il margine come custode di una visione differente di sviluppo. Tornare, ma allo stesso tempo (e forse soprattutto) restare, ‘rappresenta il momento lucido, l’occasione dell’autoascolto, della consapevolezza’(p. 108). E’ attraverso questi processi che si può produrre un sentimento di luogo integrato nel carattere transitorio del contemporaneo. Il margine destinato all’oblio, secondo l’autore, si trasforma quindi nel luogo privilegiato in cui l’azione consapevole dei soggetti produce paesaggio in termini naturali, culturali e visivi.
‘Si pone l’evidenza sulla necessità di tutelare il paesaggio nel suo essere espressione della cultura dei luoghi e degli uomini che vivono in esso’.
(Foto pag. 124)
Il quarto contributo del rapporto, ‘Ritorno alla terra per salvare il paesaggio’ di Giorgia de Pasquale si propone di indagare la relazione tra pratiche agricole e paesaggio mediterraneo. Se le metodologie produttive della Green Revolution hanno provocato un drastico mutamento delle pratiche agricole familiari e un conseguente svuotamento delle campagne, l’unica possibilità per salvaguardare la salute e bellezza di questo fragile paesaggio, afferma l’autrice, passa dalla tutela dell’agricoltura tradizionale. La capacità di plasmare il territorio conferendogli un’identità specifica attraverso una creatività radicata che genera armonia. La tradizione, quindi, intesa come aspetto originario diviene valore contemporaneo. Ma così come afferma la Convenzione europea del paesaggio è necessario recuperare una visione equilibrata, possiamo adattare l’ambiente alla vita ma dobbiamo anche adattare la vita all’ambiente. In questa prospettiva il paesaggio diviene luogo performativo che accoglie forme e figure nuove dove la tradizione assume il significato di conoscenza e rispetto, non cristallizzandosi. Il potere narrativo dei luoghi connetterà poi tali trasformazioni in nuovi racconti attraverso un continuum tra passato e futuro. I paesaggi, quindi, cambiamo in parallelo alla società della quale sono espressione.
‘Il risultato della network society non è una minore importanza funzionale delle zone rurali rispetto alle zone urbane, ma è una marcata ristrutturazione dei loro rapporti di forza.’ (p. 97)
Affinché le aree interne possano ri-definire il rapporto con i contesti urbanizzati, transitando da una condizione di predazione ad una di simbiosi, diviene fondamentale comprendere i vincoli e le opportunità offerte dall’avvento della network society (Castells, 2011). Ponendo l’accento su alcune dimensioni, che secondo gli autori di ‘Reti rurali e cambiamento’ Castells sottostima, la riflessione verte sulla creazione di reti tra le esperienze di neoradimento rurale. Benedetta Falmi e Vieri Calogero evidenziano il forte senso identitario che deriva da un lato dalla partecipazione a queste reti, e dall’altro dalla capacità di operare in contrapposizione al modello convenzionale dell’agrifood, che Van Der Ploeg (2009) definisce processo di ricontadinizzazione. I processi di territorializzazione, quindi, possono tradursi in cambiamento attraverso la diffusione di nuove idee, approcci e modelli veicolati all’interno di queste reti rurali.
In conclusione i diversi contributi mostrano come questa ruralità emergente sia composta da diverse alterità che concorrono a costruire un quadro estremamente complesso. La differenza di visioni e di pratiche ne rappresenta un valore costitutivo ma allo stesso tempo può limitare la capacità di un’azione coordinata. Il carattere innovativo, fragile e radicale di queste avanguardie agendo su una dimensione simbolica e materiale può produrre cambiamento, ma affinché questo si estenda ad un livello sistemico, è necessario la collaborazione con attori terzi. Si delinea così una nuova ruralità che non vuole essere regolamentata, ingabbiata, ma al contrario, ascoltata e valorizzata.
Vincenzo Luise
Riferimenti bibliografici
Arvidsson, Adam., e Giordano, Alessandro (a cura di). Manifesto della Rural Social Innovation. 2014.
Cassano, Franco. Il pensiero meridiano. Vol. 362. Laterza, 2005.
Castells, Manuel. The rise of the network society: The information age: Economy, society, and culture. Vol. 1. John Wiley & Sons, 2011.
Constance, Douglas H., Marie-Christine Renard, e Marta G. Rivera-Ferre, eds. Alternative Agrifood Movements: Patterns of Convergence and Divergence. Emerald, 2014.
De Martino, Ernesto. "Angoscia territoriale e riscatto culturale nel mito Achilpa delle origini." en: Introduzione allo studio dell'Etnologia. Roma(1954).
Evenson, Robert E., e Douglas Gollin. "Assessing the impact of the Green Revolution, 1960 to 2000." Science 300.5620 (2003): 758-762.
Geels, Frank W., and Johan Schot. "Typology of sociotechnical transition pathways." Research policy 36.3 (2007): 399-417.
Jacob, Jeffrey. New pioneers: The back-to-the-land movement and the search for a sustainable future. Penn State Press, 2010.
Paltrinieri, Roberta, e S. Spillare. "L'Italia del biologico." Un fenomeno sociale dal campo alla città. Edizioni Ambiente: Milano, 2015.
Shiva, Vandana. Chi Nutrirà il Mondo? Manifesto per il Cibo del Terzo Millennio, Feltrinelli, 2015.
Van der Ploeg, Jan Douwe. The new peasantries: struggles for autonomy and sustainability in an era of empire and globalization. Routledge, 2009.
Winter, Michael. "Embeddedness, the new food economy and defensive localism." Journal of rural studies 19.1 (2003): 23-32.
Indice del volume
Presentazione
Stefano Ventura
PARTE 1
Energie dalla terra per seminare cambiamento - Carlotta Ebbreo
PARTE 2
Reti rurali e cambiamento - Benedetta Falmi e Vieri Calogero
PARTE 3
Il ritorno alla montagna come ascolto del margine - Nicola Di Croce
PARTE 4
Il cammino silenzioso. Seminare i semi della restanza - Simone Valitutto
PARTE 5
Ritornare alla terra per salvare il paesaggio - Giorgia De Pasquale
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